venerdì 4 ottobre 2019

PROTESTE AD HONG KONG




CON HONG KONG
Ieri,1 ottobre 2019, a Pechino si festeggiavano i 70 anni dalla nascita della Repubblica Popolare Cinese, l'ultima grande potenza comunista. C'era la sfilata militare di rito. I balli collettivi, fatti con rigida scenografia di regime. C'era una popolazione saggiamente invitata dal governo ad essere entusiasta. Insomma si festeggiava la Cina quale potenza militare ed economica mondiale, il cui unico competitor credibile sono gli USA. A distanza di migliaia di chilometri, ad Hong Kong, le cose cambiano. Lì le persone non sono scese in piazza per glorificare la magnificenza dell'impero, ma per chiedere maggiore libertà e maggiore democrazia. La polizia locale e nazionale è stata dura. Si è sparato con pallottole vere sui manifestanti. Due ragazzi, appena diciottenni, sono rimasti seriamente feriti. Lo scontro fra forze dell'ordine e richiedenti libertà è stato durissimo. Mentre Xi Jinping, presidente della nazione, mostrava nella capitale i missili a gettata atlantica che fanno paura al mondo intero, nella ex colonia britannica si assisteva alla tragedia di un popolo che si ribella ai soprusi del potere istituzionale e politico. I giovani di Hong Kong chiedono la possibilità di esprimere liberamente il loro pensiero. Lo fanno con la determinazione e la caparbietà caratteristica degli anni giovanili. Sono appoggiati dall'intera società locale, che simpatizza con le loro membra assetate di democrazia. Il domani è incerto. Il regime sembra rigidamente attaccato alle sue tradizioni autoritarie e comuniste. Il governatore di Hong Kong, la signora Carrie Lam, era a Pechino ieri, era al fianco delle autorità nazionali per festeggiare la festa di stato. Era imperturbabile davanti al sangue versato dai suoi concittadini. La sua figura manifesta lo iato che si è creato, o forse è sempre stato, fra autorità politica- militare e cittadinanza. Come fare per cambiare le cose? Come portare democrazia in un paese ricco, forte e potente ma incapace di dare diritti ai propri uomini e alle proprie donne? La risposta è nei cuori degli abitanti di Hong Kong e di tutti i cinesi. La loro voce deve risuonare forte a chiedere giustizia e libertà. Noi che viviamo a milioni di chilometri di distanza non possiamo fare altro che ascoltare le loro grida strazianti e essere al loro fianco, almeno con l'anima, nella loro battaglia.

LA COSTITUZIONE ITALIANA: ARTICOLO 24



LA COSTITUZIONE ITALIANA: ARTICOLO 24

“Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.

La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.

Sono assicurati ai non abbienti con appositi istituti i mezzi per agire e difendersi davanti a ogni giurisdizione.

La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”

L’articolo 24 della Costituzione sancisce il diritto di ogni persona di rivendicare davanti allo stato, davanti a un magistrato, i propri diritti violati. Questo principio è stato istituito in Germania nel 1700. Un mugnaio di una piccola città tedesca, Postdam, era vessato dai soprusi del signore locale. Il nobile gli imponeva lavori di corveè, lavoro gratuito che il villano doveva al signore nel Medioevo, senza che questi fossero sanciti dalle leggi e consuetudini locali. Il mugnaio indignato andò a Berlino. Si rivolse al re di Prussia, Federico il Grande, pronunciando la frase che d’allora rimase proverbiale: “c’è un giudice a Berlino?”. Il sovrano giudicò che, in base alle leggi e alle tradizioni giuridiche della Prussia, il contadino avesse ragione a reputare vessatorio il comportamento del signorotto locale, e sancì che il mugnaio fosse libero dalle imposizioni medievali.  Questo precedente storico inserì fra i diritti inviolabili dell’uomo anche quello di poter agire in giudizio per la tutela dei propri diritti. Chiunque, se vittima di soprusi frutto della violazione di legge, può chiedere l’aiuto dello stato per ripristinare un proprio diritto violato. Tutti gli ordinamenti Costituzionali che sono nati successivamente, dalla Costituzione Americana alla Dichiarazione dei diritti dell’Uomo francese hanno incardinato, nei propri statuti, il principio. Tutti gli stati liberali dell’Ottocento  hanno inciso nelle proprie leggi questo principio inderogabile. E’ lampante che qualsiasi diritto non possa essere considerato tutelato in un ordinamento statuale, se non è effettivo. Effettivo vuol dire che sia possibile esercitarlo pienamente e se ciò non avviene sia nelle facoltà del cittadino chiamare in giudizio chi impedisce il suo esercizio. Insomma chi subisce un torto ha la possibilità, il sacrosanto diritto, di chiedere giustizia allo stato attraverso un organo appositamente istituito e preposto a difendere la legalità. Lo stato italiano, la Costituzione, garantisce la difesa dei diritti e degli interessi legittimi di ogni persona. I diritti sono direttamente esigibili da parte del soggetto. Io compro una cosa, e in virtù dell’atto giuridico dell’acquisto, ho il diritto di proprietà sul bene. Nessuno può sottrarmi quel bene che rientra nella piena mia proprietà. L’Interesse legittimo è importantissimo al pari del diritto soggettivo. Ogni cittadino, ogni persona, che si trova a confrontarsi con la pubblica amministrazione deve avere la garanzia che gli atti d’autorità di quest’ultima siano conformi alla legge dello stato. Si fa l’esempio dei concorsi pubblici. Il singolo partecipante non ha il diritto soggettivo a vincere il concorso ed ottenere un posto di lavoro, ma ha l’interesse legittimo che la prova concorsuale si svolga senza brogli ed adempiendo le norme di legge in materia. Insomma l’interesse legittimo si esercita contro gli atti amministrativi esecutivi che si rivolgono a una vasta platea di utenti, i quali possono rivolgersi ad un apposito tribunale, il TAR (Tribunale Amministrativo), se ritengono che siano violate norme dello stato o delle regioni. Il secondo comma dell’articolo 24 sancisce il diritto inviolabile alla difesa. Chi è chiamato in giudizio ha il diritto di difendersi o in prima persona o, come è usuale e spesse volte indispensabile, chiedendo l’ausilio di un professionista, un avvocato. Il diritto alla difesa è un principio volto a scongiurare i soprusi. Nessuno deve essere in balia dello stato, nessuno deve essere sottoposto ad angherie. L’esempio letterario di Kafka deve essere scongiurato. Nessuno deve essere come K., l’anonimo protagonista del romanzo “Il Processo”, condotto agli arresti, processato e condannato a morte senza conoscere le ragioni dell’accusa e senza avere la possibilità di difendersi. La nostra costituzione sancisce, al contrario, il diritto alla difesa in ogni ordine e grado del procedimento, che impone, come necessario corollario, la conoscenza da parte dell’imputato dei capi d’accusa. E’ d’obbligo ricordare che negli anni bui del XX secolo i regimi fascisti e nazisti hanno condotto in prigionia e hanno ucciso milioni di persone innocenti negandogli un processo. Gli ebrei deportati, quali agnelli sacrificali, furono depostati senza alcuna possibilità di difendersi. La stessa sorte la subirono gli zingari, la comunità Sinti, anch’essa perseguitata dal nazifascismo. I disabili furono internati in nome di un vago e crudele principio di sanità pubblica, che si fondava sull’idea che il meno atto ad affrontare la vita dovesse essere soppresso, cancellando così l’idea che la vita di chiunque è un bene inviolabile. Insomma senza il diritto alla difesa, lo stato, totalitario, ha compiuto gravissimi crimini. La legge deve, come dice il terzo comma dell’articolo 24, garantire gli strumenti di difesa a chi non ha i soldi e gli strumenti culturali per acquisirli da solo. E’ stata istituita la figura dell’avvocato d’ufficio che ha il compito di difendere gratuitamente chi è in stato d’indigenza. Questo istituto è un atto di umanità e di saggezza giuridica volto a venire incontro a chi si trova ad affrontare una causa in stato d’indigenza. L’ultimo comma dell’articolo 24 sancisce il diritto ad essere risarciti in caso di errori giudiziari. Il cittadino che come K. Subisce le angherie del potere deve essere rimborsato. E’ un principio di giustizia. Chiunque subisca processi ha dei danni non solo materiali ma anche morali. Se è costretto a subirli ingiustamente deve essere risarcito. Alle volte, specie se si è accusati ingiustamente di gravi reati penali, un risarcimento economico, per quanto consistente, non sarà mai adeguato all’onta subita. In questi anni si è molto discusso se fosse il caso di introdurre la responsabilità penale e civile del giudice nel nostro ordinamento. Oggi se un giudice sbaglia è lo stato che paga che risarcisce, in seguito potrà rivalersi sul giudice, ma riprendendosi piccola parte del dato alla vittima dell’errore giudiziario. La destra vorrebbe che fosse il giudice a pagare interamente i danni provocati. Staremo a vedere. Certo l’introduzione della responsabilità personale del giudice sarebbe un grave nocumento per la sua libertà di giudizio. Il magistrato dovrebbe pensare prima alle cause giudiziarie che dovrà affrontare, che a fare giustizia. Più razionale è l’attuale modello, in cui lo stato risarcisce e il giudice, uomo di coscienza, proncia le sue sentenze in spirito di verità e giustizia senza alcun vincolo psicologico. Staremo a vedere cosa succederà. Certo che per rendere effettivo lo spirito dell’articolo 24, per garantire al cittadino l’esistenza di un giudizio sereno e libero, bisognerebbe che la magistratura fosse libera da ogni condizionamento.
Testo di Giovanni Falagario

mercoledì 2 ottobre 2019

LA COSTITUZIONE ITALIANA: ARTICOLO 23


LA COSTITUZIONE ITALIANA: ARTICOLO 23
"Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge"
L'articolo 23 della Costituzione Italiana ricalca un principio che è proprio della cultura giuridica anglosassone. "No taxation without representation" era il motto delle tredici colonie inglesi che in America si ribellarono al trono britannico dando il via alla rivoluzione che si concluse con la nascita degli Stati Uniti d'America. Un principio che ha incardinato tutto il susseguente diritto liberale occidentale. Nessuno può essere sottoposto all'arbitrio del potere statuale. Ogni prestazione di tipo monetario, lavorativo o di altro genere, ad esempio la testimonianza davanti a una corte giudiziaria, che lo stato impone al cittadino deve essere prevista da una norma. Norma votata dal parlamento che è composto dai rappresentanti del popolo. Insomma ogni limitazione della libertà personale e patrimoniale deve essere giustificata da un atto normativo voluto da persone regolarmente elette. Questa norma costituzionale vuole rendere impossibile il sopruso. Lo stato non può e non deve privare i cittadini delle proprie ricchezze, materiali e morali, senza che non vi sia un chiaro scopo di interesse generale da perseguire indicato da una norma. Siamo lontani dagli oscuri tempi in cui lo stato poteva arbitrariamente costringere un cittadino a compiere lavori coatti. Siamo ben lungi dalla cultura medievale in cui il signore locale imponeva al suddito corveé e vessazioni inimmaginabili. Lo stato non può e non deve imporre prestazioni ingiuste. Se il parlamento attua una politica tributaria vessatoria verso il popolo, sarà punito attraverso il voto generale. I rappresentanti della nazione che hanno imposto gabelle ingiuste non saranno più rieletti, almeno questo si spera. Insomma lo stato è anch'esso sottomesso alla legge. Anche la Repubblica ha nella normativa nazionale il limite oltre il quale non può andare. Nessuna autorità statuale può imporre prestazioni lavorative, soprattutto se non retribuite o non compensate adeguatamente, senza che queste siano previste dalla legge e senza che vi siano motivazioni reali e inoppugnabili legati al bene superiore della nazione. In base a questo principio lo stato può imporre la leva, cioè il servizio militare obbligatorio, ai propri cittadini. Il governo della nazione può chiamare alle armi l'intera cittadinanza in caso di guerra e di pericolo per la nazione. Per questo lo stato può chiedere, se lo ritiene necessario, l'aiuto solidale di tutti davanti a gravi eventi naturali. Per questo lo stato può imporre l'espletamento di doveri civici. Ogni atto del cittadino imposto dallo stato deve essere teleologicamente motivato, cioè ogni gabella o lavoro coscritto deve avere una motivazione chiara e supportata quale compimento dei valori propri della Costituzione. Questo è uno dei principi più importanti, volto a garantire un rapporto trasparente tra cittadino e stato. Tutto ciò che è attività lavorativa, tutto ciò che è lavoro, tutto ciò che è un doveroso contributo alla cresciuta della nazione deve essere inciso fra le norme del nostro stato, votate da un'assemblea di "pari", cioè di cittadini, eletti da cittadini e chiamati a rappresentare tutti i cittadini, quale è il nostro parlamento.
testo di Giovanni Falagario

LA COSTITUZIONE ITALIANA: ARTICOLO 22



LA COSTITUZIONE ITALIANA: ARTICOLO 22

“Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”

L’articolo 22 della Costituzione Italiana sancisce che nessuna motivazione politica può privare l’uomo e la donna del proprio nome, della propria capacità di essere soggetti che possono compiere atti giuridici, della cittadinanza. Si sancisce il diritto ad avere e a mantenere la propria identità. Il nome è ciò che ci rende unici ed eccezionali. La dignità della persona si preserva soprattutto riconoscendo il suo diritto ad avere una personalità. Ogni persona, anche coloro che hanno problemi psichici, è un soggetto che ha una propria individualità. Ognuno la esprime diversamente. Lo stato deve fare in modo che nessuno possa essere ridotto allo stato subumano. I precedenti tragici della prima metà del XX secolo ci debbono servire da monito. I regimi nazisti, fascisti e comunisti si sono adoperati per negare la dignità di uomini ad oppositori, facenti parte di comunità religiose o culturali minoritarie, e a disabili. I campi di concentramento nazisti e i gulag staliniani sono stati la negazione del diritto alla dignità che ogni uomo ha. Stalin internava nei gulag oppositori politici, ma anche appartenenti a etnie considerate, follemente, pericolose per il regime comunista, tali erano considerati, ad esempio, gli ebrei che risiedevano in Ucraina. Hitler ha negato il diritto alla vita a milioni di Ebrei, zingari, oppositori del regime e disabili. Ha mandato tutte queste persone nei campi di sterminio, gli ha dato la morte manifestando il suo cinismo e la sua mancanza di umanità. Insomma ha reso possibile l’annullamento della persona umana. I soggetti invisi al regime erano carne, il termine pare appropriato, da mandare al macello. Non è un caso che Primo Levi, vittima e testimone a un tempo della follia concentrazionista del nazismo, si chiesa “se questo è un uomo?”, è il titolo di uno dei suoi libri che parlano di Auschwitz. Insomma l’articolo 22 sancisce a chiare lettere la sacralità della persona umana, è un corollario dell’articolo 2 che riconosce i diritti della persona, il diritto al nome è uno dei modi per tutelare l’integrità fisica e morale di tutti. Nessuno potrà mai finire nei campi se gli sarà riconosciuto il diritto al nome, il diritto ad essere unico e allo stesso tempo uguale agli altri. Un altro diritto è quello di mantenere la propria cittadinanza. Si sa i regimi politici hanno sempre visto come strumento di potere la possibilità di negare la cittadinanza a chi fosse visto come elemento di pericolo per il proprio potere. La costituzione nega tassativamente che possa essere applicato questo sopruso nel nostro regime repubblicano. Ci sono casi in cui un cittadino potrebbe perdere la cittadinanza, ma sono esplicitamente citati in costituzione e normati da una legge dello stato. Nel caso un cittadino italiano abbia lavorato per enti statali stranieri e abbia prestato servizio militare per una potenza straniera, potrebbe perdere la cittadinanza se l’autorità preposta lo ritenga necessario. Ma questi sono casi limite. La norma è che la cittadinanza è un bene prezioso che non si può perdere. Sul tema della cittadinanza si è aperto un dibattito ampio. Una proposta di legge, ormai senza speranza di essere approvata, estendeva ai bambini nati in Italia, ma figli di non cittadini italiani residenti, però, nel nostro paese, il diritto di cittadinanza. Il dibattito si è fatto intenso. E’ giusto lasciare il diritto di cittadinanza ai soli figli di cittadini italiani o sarebbe meglio dare anche a chi è nato, studia  e vive in Italia, pur essendo figlio di stranieri, la cittadinanza. La destra e il Movimento Cinque Stelle preferiscono che sia il “sangue”, cioè l’ascendenza, a determinare la cittadinanza. La sinistra vorrebbe che fosse la cultura a determinare la cittadinanza, che chi parla italiano vive in Italia studia nel nostro paese fosse italiano. E’ un dibattito ampio. Il candidato alla presidenza della Regione Lombardia della destra ha dichiarato che sua intenzione “è difendere la razza italiana”, questo è un moto che lo accomuna a tutti coloro che voteranno Lega e Forza Italia. L’elemento etnico è fondamentale per la destra di oggi esattamente come lo era per la destra mussoliniana che nel 1938 promulgò, con la complicità di casa Savoia, le leggi razziali. Noi che scriviamo crediamo che la razza sia solo quella umana, che non vi siano differenze etniche tale da fare discriminazioni. Rimane il fatto che milioni di miei concittadini, votando le forze politiche legate a Salvini, Berlusconi e Meloni, non la pensano così. Pensano che il cittadino italiano che ha diritto a una vita dignitosa sia solo bianco e di molte generazioni italiano. Esattamente come la pensavano Hitler e Mussolini, che sotto al loro regime imponevano che bisognasse dimostrare di avere sangue italiano o tedesco al 100%, certificando che i propri genitori e nonni non erano ebrei, oggi la destra pensa che solo chi è di sangue italiano abbia diritto alla cittadinanza. Questa convinzione deve essere vinta. Bisogna sottrarre consenso a una destra di tal fatta. Bisogna farlo con paziente opera di persuasione. Bisogna farlo facendo intendere che la solidarietà umana è un cardine fondante del vivere insieme. Bisogna farlo ricordando che il diritto a non essere privati del nome, della cittadinanza e della capacità giuridica è una conquista ottenuta grazie al sacrificio dei milioni di ebrei, dei milioni di zingari dei milioni di perseguitati morti per mano di un regime totalitario che negava la dignità umana a coloro che erano considerati di “razza” inferiore. Bandire il termine “razza” dal nostro vocabolario, non votare partiti che usano questo termine è un dovere morale che abbiamo in nome del rispetto e la pietà che dobbiamo ai milioni di morti dell’Olocausto.
Testo di Giovanni Falagario

CITTADINANZA


IUS CULTURAE
Il dibattito su chi abbia diritto alla cittadinanza italiana da qualche anno infiamma la comunità nazionale italiana. La domanda è: è giusto che un bimbo che nasce in Italia da genitori non italiani debba essere considerato straniero. Secondo l'attuale ordinamento la materia è così regolata. Si può acquistare la cittadinanza italiana, se si è nati in Italia, se si è stati stabilmente residenti nel nostro paese durante la fanciullezza, al compimento dei diciotto anni. In caso contrario se si è generati da stranieri, pur nascendo sul suolo italico, per lo stato italiano si è stranieri. Ci sono migliaia di ragazzini che vanno a scuola in città e paesi italiani, abitano in terre della nostra repubblica, hanno amici italiani, ma non sono italiani. E' giusto che sia così? Per una certa sinistra no. Per molti componenti del PD negare la cittadinanza a bimbi e bimbe, ragazzi e ragazze, vuol dire tradire lo spirito accogliente della costituzione. Infatti, secondo la loro valutazione, lo "ius sanguinis" , il principio che ha ispirato la legge sull'acquisto della cittadinanza italiana attualmente in vigore, non era esclusiva ma inclusiva. Quando entrò in vigore erano più gli italiani che emigravano dalla Penisola che le persone che giungevano nel nostro paese. Lo Ius sanguinis, il dare la cittadinanza a uomini e donne figli di Italiani ma nati in terre lontane, voleva dire accogliere nel nostro paese persone nate e cresciute in terre lontane. Oggi è questo che dovrebbe animare una riforma del processo di acquisto della cittadinanza italiana. Includere, aprire lo stato ad altre genti, oggi vuol dire dare la cittadinanza a figli di persone che hanno raggiunto il nostro paese per lavorare, per studiare e in generale per vivere meglio, garantiti dal nostro ordinamento costituzionale. Insomma sarebbe un modo per incarnare in una legge dello stato i principi di ricerca della pace, solidarietà, fraternità e rispetto reciproco propri dell'ordinamento costituzionale. E' inutile negare che sono molti i già cittadini, cioè noi elettori, che invece non gradiscono molto l'idea dello "ius Culturae", l'idea che il compagno di scuola di proprio figlio, nato da stranieri, possa essere considerato cittadino. Cambiare il modo di attribuire la cittadinanza. Decidere che chi è nato in Italia, pur da stranieri, sia italiano. Non è una decisione da poco. E' inevitabile che sia un argomento divisivo. Da un lato ci c'è i "diritti di avere diritti" che è di tutti, parafrasando Hanna Harendt, da un altro lato la legittima (? non so, decidete voi) paura del diverso. Da un punto di vita morale è indubbio che sia giusto dare la cittadinanza ai bimbi. Ma sarebbe auspicabile approvare una legge che cambia profondamente le basi su cui si fonda l'appartenenza al paese senza una vasto consenso popolare? Io vorrei rispondere: quello che è giusto è giusto, anche se il popolo non l'approva. Ma una democrazia per funzionare deve saper rallentare, deve sapere ascoltare anche chi non la pensa secondo giustizia, e provare insieme a cambiare prima di tutto la struttura statale, ma anche, se possibile, l'animo delle persone. Una democrazia deve saper agire secondo la volontà della maggioranza. Ma deve anche fare in modo che la maggioranza decida in base a sistemi valoriali positivi.