giovedì 29 aprile 2021

700 ANNI DALLA MORTE DI DANTE

 


700 ANNI

Questo 2021 è l’anno in cui si ricorda la dipartita di Dante Alighieri. Il poeta fiorentino è morto la notte fra il 13 e 14 settembre del 1321.

Dante Alighieri è la stella polare della letteratura italiana. Gli autori successivi, a partire da Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, hanno visto il lui il padre della lingua, colui che ha ispirato la loro forma poetica. Dante è stato il cuore della cultura che i dotti del Rinascimento chiameranno per malcelato e ingiustificato sfregio “medievale”. Ma l’Età di Mezzo non è un periodo soltanto di barbarie. Anzi al contrario in tutti i paesi è stato un momento di rimeditazione culturale, quasi come se le società di allora fosse un atleta rannicchiato e promo, non per subalternità o rinuncia, ma per poter compiere quel balzo che porterà al compimento di grandi obbiettivi culturali, scientifici e, alla fine dei conti, di palpabile umanità.

Dante è uno, forse il più grande, allenatore dell’umanità. È colui che, certamente, con la sua cultura i suoi studi le sue meditazioni ha contribuito ha creare una letteratura nuova fondata sulle basi solide di quella classica.è colui che ha portato a compiere l’uomo al grande balzo della storia.  Non è un caso che nella sua opera più nota e più bella “La Divina Commedia” si è fatto accompagnare, nel suo viaggio immaginario nel aldilà Cristiano dal simbolo e dal più grande rappresentante della letteratura latina classica. Quel poeta nato nelle pianure mantovane e che ha creato l’epica dell’Impero, scrivendo l’Eneide. Quasi a dire che Dante aveva contezza di essere il primogenito di una cultura nuova, ma che questa si doveva fondare sulle solide basi della conoscenza del mondo classico. Non è un caso che Dante si paragona ad Ulisse, l’eroe cantato da Omero, e ad Enea, il troiano fuggiasco cantato da Virgilio, ambedue viaggiatori nell’oltretomba pagano, come raccontano i poeti che hanno composto l’Odissea e l’Eneide. Come l’astuto re di Itaca e il Pio principe troiano, Dante cerca nell’oltretomba risposte che possano dipanare la storia futura dell’umanità Come Ulisse cerca nell’Ade la strada per tornate ad Itaca. Come Enea chiede al padre Anchise, precocemente morto, quali siano i destini, gloriosi, della loro comune discendenza chiamata a fondare l’Impero Romano. Dante chiede agli abitanti di Inferno, Purgatorio e Paradiso quali siano i destini della sua Firenze, dell’Italia, dell’impero e di tutta la comunitas cristiana dell’epoca.

Erano anni difficili. Erano giorni in cui la dicotomia fra Guelfi, sostenitori del papa, e Ghibellini, sostenitori dell’imperatore, erano fortissimo. Era da poco morto il Puer Apuliae, lo Stupor Mundi, quel Federico II di Svevia che aveva dato lustro e gloria al rinato Sacro Romano Impero, ma che allo stesso tempo aveva portato profonde lacerazioni della civiltà cristiana. Il nonno di Dante, Cacciaguida, aveva lottato allo strenuo, guelfo, contro le terribili brame di potere dei Ghibellini nella storica battaglia di Montaperti. Questo indicava che la fame di potere imperiale e papale stavano portando non prosperità ma lacerazioni nella società del tempo. Questo è ciò che dante intendeva scongiurare. Basta odi e rancori. Basta violenze. È il tempo che i due soli, come definisce il poeta la monarchia e il papato, illuminino insieme il destino umano, senza produrre guerra e dolore. Dante ci crede. Il guelfo costretto all’esilio dai suo concittadini, l’esule senza dimora che morirà ospite del signore di Ravenna nel 1321, crede profondamente che ci sarà un momento in cui l’armonia prevarrà sulla dicotomia. Il lupo dimorerà con l’agnello, parafrasando il testo biblico. Ma per giungere a questo obbiettivo bisogna mutare radicalmente la realtà quotidiana comunale. Bisogna che tutti siano pronti a seguire la retta via della giustizia, e a rinunciare alla violenza. Ecco il senso ultimo e vero della “Divina Commedia” e dell’intera opera letteraria di Dante. Costruire una visione armonica della vita, che sia latrice di pace, in un contesto dilaniato dalla guerra. Insomma che l’intera umanità possa contemplare Dio, in Paradiso, e che possa trasformare in meglio, pacificamente, la terra degli uomini. Dante vuole che al fine tutti possiamo uscire a riveder le stelle (così si conclude l’Inferno, la prima Cantica della Commedia). Questo auguro vale ancor oggi dopo settecento anni ed è uno degli elementi che testimoniano l’estrema contemporaneità del messaggio dell’Alighieri.

Che cosa dire. 700 anni di storia sono tanti. Dante Alighieri per questi 7 secoli è stato la guida che ha illuminato la strada di coloro che sono nati come di lui. Mentre, però, Virgilio era inconsapevole di aver dato la stura alla nascita della cultura cristiana. Era colui che tiene il moggio dietro la schiena, ad illuminare la via dei suoi successori, mentre la propria rimane accidentata e buia. Dante invece era consapevole e certo del proprio ruolo di guida culturale. Era certo che la Teologia, l’intelligenza divina, incarnata allegoricamente dalla amata Beatrice, lo aveva reso strumento utile per l’emancipazione dell’intero genere umano. Questa non era presunzione. Era contezza della grandezza di Dio capace di poter scegliere chiunque quale strumento di gloria, anche un membro di una delle tanti corporazioni di Firenze, come Dante si considerava.

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