sabato 29 maggio 2021

DANZA DEL CIELO

 


UNA FARVALLA IN CIELO

Il 27 maggio 2021 si è spenta Carla Fracci. È morta nella sua Milano ove era nata il 20 agosto 1936.

Si è spenta una delle più importante e note ballerine della storia della danza.

La sua bravura e notorietà avevano fatto risplendere la sua stella in ogni parte del mondo. Formatasi nella grande scuola di danza del teatro Alla Scala di Milano, la sua bravura l’aveva portata ad esibirsi nei più importanti teatri del mondo, fin dalla sua fanciullezza che è stata negli anni difficili della ricostruzione post bellica.

La danza, grazie a lei ed ad altri suoi colleghi, come non citare Roudol’f Nureev, forse il più grande ballerino di sempre,è stata ed è popolare. Carla assieme al danzatore russo ha incantato le platee di tutto il mondo. Tutti volevano vederla, tutti volevano rimanere affascinati davanti al suo magnifico volteggiare. Le bimbe volevano diventare danzatrici per seguire il suo esempio. Le mamme portavano e portano le proprie creatura a scuola di danza sperando di vederle calcare le scene come la Fracci. Insomma Carla Fracci è stata un’icona. Carla Fracci è stata un esempio. Carla Fracci è stata la quintessenza dell’arte come massima espressione dell’animo umano.

Bisogna dirlo. Carla non nascondeva che danzare era dolore, fatica, sudore, impegno. Sono famosissime le sue interviste in camerino, dopo un suo spettacolo, quando, giustamente, senza alcun pudore mostrava i propri piedi insanguinati e doloranti a causa della danza che appariva allo sguardo del pubblico leggiadra e immune da ogni senso di dolore. Un modo per raccontare che la bellezza si raggiunge solo con lo studio, la dedizione, il lavoro e in ultima analisi con il sacrificio.

La poesia, la danza, il teatro, qualsiasi opera di ingegno e di arte, si compie attraverso il lavoro e l’impegno senza sosta. Ecco l’ammonimento di Carla. Lei era Milanese, e come ogni suo concittadino, spendeva se stessa per il proprio lavoro. Come l’operaio lavora indefessamente in fabbrica, lei lavorava instancabilmente sugli spalti ed in palestra. La danza era per lei lavoro e, soprattutto, vita. Era un esempio per tutti, come, oggi affranto, ricorda Roberto Bolle, uno dei suoi ultimi partner nella danza.

Come non citare le sue magnifiche interpretazioni. È stata Francesca da Rimini, sofferente donna segnata dal suo amore tragico per il cognato Paolo che li porterà alla morte, nel balletto scritto e ideato da Pëtr Il'ič Čajkovskij e tratto dal racconto di Dante Alighieri tratto dal V canto della Divina Commedia. Una interpretazione struggente. Come non ricordarla in Giulietta e Romeo. Come non citare Giselle, questa danza rimarrà legata a lei. Carla Fracci ormai per sempre è stata individuata come la “Giselle” per antonomasia. Insomma la danza se non può identificarsi nella sua totalità con Carla Fracci, sono veramente tanti gli artisti che hanno dato alla quarta musa la propria dedizione, certamente ha visto in lei una eterna interprete, la donna che si fa strumento dell’arte.

Non possiamo che essere grati a Carla Fracci. Grati perché è riuscita a raccontare la danza anche a persone che erano totalmente all’oscuro della sua bellezza e sono riuscite a scoprirla grazie a lei. Memorabili sono le sue partecipazioni televisive, in cui ha saputo raccontare il bello anche in trasmissioni che si definirebbero, con linguaggio aglofono di oggi, trash. Chissà forse oggi volteggerebbe in tante trasmissioni che fanno del turpiloquio la loro caratteristica principale, sanandole dalla loro volgarità.

Addio Carla Fracci. Anzi arrivederci Farfalla delle nuvole, chiamata a danzare per le divinità superiori, dei cieli, chiamata a ballare al cospetto di Dio.

domenica 23 maggio 2021

QUASI TRENTA

 


LO SPARTIACQUE           

Il 23 Maggio 1992 sulla autostrada che collega Palermo con l’aeroporto di Punta Raisi un attentato mafioso metteva la fine alla vita del giudice Giovanni Falcone. Il magistrato tornava da Roma, ove svolgeva la funzione di magistrato aggiunto al ministero di Grazia e Giustizia per la lotta alla criminalità organizzata.  Con lui c’era la moglie, il magistrato Francesca Morvillo, la scorta gli agenti Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.

Il famigerato e spietato capo mafia Totò Reina aveva deciso di ucciderlo. La “Cupola”, la cabina di regia della mafia, che presiedeva aveva ordinato a Giovanni Brusca e ai suoi scagnozzi di mettere una bomba sotto il manto stradale dell’autostrada che collega l’aeroporto siciliano con il capoluogo.

Il potere mafioso è morte. La mafia vuol dire illegalità e prevaricazione. Falcone, assieme ai suoi colleghi, ha speso la sua vita per ridare la libertà alla sua terra, la Sicilia e l’Italia intera, dal giogo mafioso. Ecco perché è stato ucciso. Voleva portare libertà e giustizia. È stato condannato da coloro che si facevano fautori della schiavitù e del gioco della sottomissione.

Una bomba doveva fermare tutto. Una bomba doveva uccidere il fautore della redenzione della nostra terra dal gioco mafioso. Invece da lì è ripartito tutto. Da lì è nato un sommovimento popolare che chiede la fine del giogo mafioso. Milioni di persone sono scese in piazza per chiedere libertà e giustizia. La mafia è la logica del terrore. Lo stato deve essere la cultura della rinascita sociale. Lo stato sono i milioni, le decine di milioni, di cittadini che in nome di Giovanni Falcone, di Paolo Bosellino (morto solo un mese dopo del collega) e di tutte le altre vittime del regime oppressivo mafioso (stato crudele nello Stato) sono scese in piazza, hanno continuato a fare il loro lavoro e il loro dovere civico e morale. L’eredità di Falcone è loro. Quando si dice no alle prevaricazioni criminali, quando si segue il diritto e le regole, quando si prova a rispondere alla violenza con il ragionamento allora può avvenire che la vittoria sarà la nostra. La mafia sarà sconfitta.

È giunto il tempo che i criminali siano in galera. È giunto il tempo che chi compie violenza sia condannato. È giunto il tempo che la cultura della prevaricazione finisca. È giunto il tempo che le regole, le leggi siano rispettate. È giunto il tempo che il lavoro nero, l’illegalità diffusa, che dà ossigeno al potere mafioso sia messo in definitiva a riposo. Basta con l’illegalità, è questo l’insegnamento eterno di Giovanni Falcone. Noi a 29 anni dalla sua morte, vogliamo ricordarlo. La sua morte è spartiacque. Dal suo esempio dobbiamo sapere che la legalità è bene, il “mondo di mezzo” (quello che guarda dall’altra parte o addirittura è in combutta con il crimine) è complicità con il mondo mafioso.

sabato 22 maggio 2021

23 maggio 1992, la strage di CAPACI

 


EVENTO COSCIENZIALE

Il 23 maggio 1992, sulla autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi con Palermo persero la vita Giovanni Falcone, sua moglie, il giudice Francesca Morvillo,  e gli uomini della scorta. I mafiosi misero del tritolo sotto il manto autostradale e al momento del passaggio della macchina del giudice fecero esplodere l’ordigno da loro stessi confezionato. A spingere il bottone fu Giovanni Brusca su comando della “cupola” mafiosa dominata dal perfido criminale Totò, Salvatore, Riina.

Quell’attentato fu l’inizio della cosiddetta “stagione stragista” della mafia. Dopo quel volgare e orrendo attentato, molti altri vi furono. Non scordiamo che di li a un messe, sarebbe stato ucciso un altro magistrato, collega e amico di Falcone, Paolo Borsellino. Ma furono veramente tanti gli attentati di mafia che si susseguirono.

Chiariamo. La mafia ha sempre ucciso. Ha sempre seminato morte e terrore, anche prima dell’Attentatuni, così si chiamerà per sempre la strage di Capaci. Brusca, colui che ha fatto detonare l’ordigno che ha ucciso Falcone e la sua scorta, aveva già sciolto nell’acido, orrore, i figli di un pentito di mafia. Ma quello che cambia è i modo di interloquire, con la violenza, della mafia nei confronti dello stato italiano. Falcone è ucciso non solo perché ha allestito il Maxi Processo, è stato il Pubblico Ministero che ha messo alla sbarra centinaia miglia di mafiosi, è stato ucciso perché rappresenta un simbolo di legalità in un mondo di corruzione. Reina voleva dimostrare che il potere appartiene a lui, non alla Repubblica Italiana e ai suoi cittadini. Voleva mandare un preciso messaggio di imposizione della volontà criminale su chi vi si oppone. Chi è contro la mafia è un uomo morto. In questa logica, purtroppo, è da leggere il susseguente attentato al giornalista, Maurizio Costanzo, fortunatamente fallito.

Ma da allora qualcosa è cambiato. Fin da subito la società civile, le donne, i bambini e le bimbe, i ragazzi e le ragazze, gli uomini, prima di Palermo e poi di tutta Italia hanno cominciato a riempire le piazze prima per esprimere il dolore per la dipartita del magistrato e degli uomini della polizia e poi per gridare la loro convinta adesione a una visione di legalità e rispetto delle norme radicalmente diverso da quello che è la visione quotidiana della vita prona ai compromessi. Una intera generazione, i giovani dall’allora, ha detto “no” a tutto ciò che illegale e immorale. Basta al lavoro nero. Basta alla cultura della prevaricazione, che se la prende con il più debole. Vincere la mafie si può, come insegna Falcone, lanciando un messaggio di rispetto profondo verso la legge e il prossimo.

Bisogna essere chiari. Per vincere il male, la criminalità, bisogna fare proprio il messaggio teleologico, la finalità, del diritto, che è, in forza della Costituzione, fondata sulla solidarietà, la solidarietà civile non quella si affraternamento mafioso. Allora questo deve essere il messaggio che batte i terroristi mafiosi. La costruzione di una società civile legale, che aiuta i deboli e punisce chi commette reati, è l’unica via da perseguire.

 

sabato 1 maggio 2021

I MAGGIO DI SANGUE

 

PORTELLA DELLA GINESTRA

Il primo maggio del 1947 i lavoratori di Palermo si erano dati appuntamento su un altipiano prospiciente la città siciliana. Era il promontorio di Portella della Ginestra, nel comune di Piana degli Albanesi. Doveva essere prima di tutto una passeggiata rilassante in un giorno di festa. Poi ovviamente doveva essere anche una manifestazione che doveva lanciare la rinascita del sindacato unitario (la CGIL) e doveva
anche essere un momento di dibattito e di discussione comune sui destini dell’isola nel centro del Mediterraneo e su quelli dell’intera Italia. Insomma Portella della Ginestra, il luogo di incontro di quel fatidico Primo Maggio 1947, doveva essere l’esplicitazione del protagonismo di quelle che un termine obsoleto definisce “masse” nel cantiere che era la rinascita del nostro paese, appena uscito da una guerra sanguinosa, che aveva scelto neanche un anno prima, il 2 giugno 1946, attraverso un referendum di essere una repubblica democratica e aveva dato il compito ai componenti eletti in assemblea Costituente di scrivere la nostra Costituzione.

Invece quel I maggio 1947 è diventato maledetto. Mentre le masse di uomini, donne e bambini si godevano il sole generoso siciliano, dai monti circostanzi scesero i “picciotti”di Salvatore Giuliano, noto mafioso, su dei cavalli e fecero strage di innocenti. Quei lavoratori che sognavano il sole dell’avvenire, furono uccisi dalla mafia locale. I “cavalieri”, macchiati di infamia, aveva mitra con cui uccisero undici persone, fra cui tre bambini. Fu un atto di violenza premeditata e condotta con la complicità dei notabili locali. Mi urge dire che fu anche la Democrazia Cristiana a non fare nulla per evitare la strage, un macabro anticipino di quelle che saranno le connivenze fra politica e criminalità mafiosa.

Portella della Ginestra è un dolore. È il lutto per la morte di persone che chiedevano libertà e sono state tradite dall’infamia della violenza. Non conta il colore della bandiera, non conta essere di destra o di sinistra, se tu lotti per l’emancipazione e la libertà sei contro la mafia. Se tu fai compromessi con il potere della delinquenza non sei al servizio dei cittadini e del progresso sociale e morale del paese. Dobbiamo essere con le vittime di Portella della Ginestra non con i loro carnefici. Dobbiamo legale con un filo di solidarietà e speranza le vittime del 1947 con tutti i grandi martiri dello stato e della comunità uccisi dal potere mafioso, penso a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Carlo Alberto dalla Chiesa e i tanti altri, troppi, che hanno perso la vita a causa dalla mafia. Come non menzionare Libero Grassi e don Pino Pugliesi, “civili” nel senso che non erano né giudici né facenti parte delle forze di polizia, che sono morti perché testimoniavano con ardore il loro amore per la vita e per la Sicilia dicendo “NO” alla mafia.

Insomma ricordare Portella della Ginestra oggi vuol dire battersi per la giustizia e contro la maflia.

FESTA DEI LAVORATORI

 


I MAGGIO

Il primo maggio è la festa dei lavoratori. In questo giorno ci appare agli occhi l’opportunità di riflettere su cosa sia la solidarietà e la comunanza fra persone legate da un destino comune: lavorare per vivere. Il primo maggio del 1887, quindi ormai quasi 150 anni fa, i lavoratori dell’Illinois chiesero e manifestarono per essergli riconosciuto il diritto a lavorare otto ore al giorno, mentre in quel tempo si lavorava per molte ore in più al giorno. Quella lotta su un concreto punto di rivendicazione è stata il punto di svolta per la vita di generazioni di lavoratori. È stata anche una vera e propria rivoluzione del sistema di produzione. Le fabbriche hanno dovuto cambiare il sistema di produzione dei beni. Nelle campagna si è rivoluzionato il rapporto padrone – bracciante. Tutto è cambiato. Si è scoperto il valore del lavoro e la dignità del lavoratore, non più attrezzo nelle mani del datore di lavoro, ma uomo e donna che danno una parte della propria esistenza del proprio essere per creare una ricchezza materiale che produce benessere non solo per il detentore dell’impresa ma per l’intera comunità umana. Chi lavora, chi presta le sue opere intellettuali e manuali, non lo fa solo per il salario, ma per creare benessere sociale e compiere la propria persona attraverso l’impiego.

Lavorando quindi si compiono due atti, solo apparentemente ontologicamente diversi fra loro. Il primo è produrre ricchezza generale. Il secondo è accrescere la propria soggettività attraverso l’esperienza e il rapporto con gli altri. Sono due gesti che si fondono in un solo atto. Sono anche il frutto dei rapporti interpensolai fra colleghi e fra dirigenti e dipendenti. Lo sforzo collettivo a produrre è latore di benefiche sinergie che producono un sereno rapporto con la vita stessa.

In questo anno segnato dalla pandemia. In questo anno tremendo in cui il Corona Virus, il morbo, ha segnato tante vittime. Proviamo a ripensare al senso vero e ultimo che è nella parola “lavoro”, pensiamo alla solidarietà che deve caratterizzare la  vita di tutti. In questo I maggio in cui i cortei, i concerti, gli incontri collettivi sono banditi, proviamo a pensare che è possibile costruire un tessuto solidale, in cui si possa pensare a un tessuto produttivo che sappia cogliere le capacità di tutti e di ognuno e renderli prezioso strumento di progresso generale. Pensiamo alle parole preziose di Papa Francesco che proprio in una società inclusiva e fondata sull’amore reciproco fra creature del Signore ha posto la resurrezione della umanità e dell’intero pianeta terra. Ricordiamo le preziose parole che ci ha scritto nella “Laudato sii”, la sua enciclica. Pensiamo alle parole di Giovanni Paolo II, il papa santo, che ha creduto fin dall’inizio della sua vita mortale nella sua Danzica, segnata dall’esperienza del sindacato cristiano Solidarnosc, nel valore del lavoro come strumento di pace fra gli uomini e gloria di Dio. Pensiamo a tutti gli intellettuali, laici o credenti che siano e siano stati, che hanno fatto della loro vita un baluardo in difesa dei lavoratori, soprattutto dei più deboli. Allora questo è il Primo Maggio. Una riflessione sul cosa sia il lavoro nella vita di tutti e di ognuno. Un momento di meditazione sul valore assoluto del senso di solidarietà umana. Un momento di riflessione su come sia più bello un mondo fondato sulla ricerca del benessere generale, e non sul perseguimento del mero interesse personale.

Buon Primo Maggio a tutti. Lo dico di cuore. Bisogna imparare che insieme si fanno le cose, penso alla fabbrica, insieme si offrono servizi, insieme si insegna e si impara (penso alla scuola), insieme si fatica e allo stesso tempo si mietono successi. Nessuno deve essere lasciato indietro, nessuno deve essere discriminato. Nessuno può essere penalizzato per il suo genere, maschile o femminile che sia, nessuno deve essere messo da parte. Non solo perché non lasciare indietro nessuno è profondamente giusto ed etico, ma anche perché una società che si fonda sull’inclusione e migliore e produce benefici per tutti.

giovedì 29 aprile 2021

700 ANNI DALLA MORTE DI DANTE

 


700 ANNI

Questo 2021 è l’anno in cui si ricorda la dipartita di Dante Alighieri. Il poeta fiorentino è morto la notte fra il 13 e 14 settembre del 1321.

Dante Alighieri è la stella polare della letteratura italiana. Gli autori successivi, a partire da Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, hanno visto il lui il padre della lingua, colui che ha ispirato la loro forma poetica. Dante è stato il cuore della cultura che i dotti del Rinascimento chiameranno per malcelato e ingiustificato sfregio “medievale”. Ma l’Età di Mezzo non è un periodo soltanto di barbarie. Anzi al contrario in tutti i paesi è stato un momento di rimeditazione culturale, quasi come se le società di allora fosse un atleta rannicchiato e promo, non per subalternità o rinuncia, ma per poter compiere quel balzo che porterà al compimento di grandi obbiettivi culturali, scientifici e, alla fine dei conti, di palpabile umanità.

Dante è uno, forse il più grande, allenatore dell’umanità. È colui che, certamente, con la sua cultura i suoi studi le sue meditazioni ha contribuito ha creare una letteratura nuova fondata sulle basi solide di quella classica.è colui che ha portato a compiere l’uomo al grande balzo della storia.  Non è un caso che nella sua opera più nota e più bella “La Divina Commedia” si è fatto accompagnare, nel suo viaggio immaginario nel aldilà Cristiano dal simbolo e dal più grande rappresentante della letteratura latina classica. Quel poeta nato nelle pianure mantovane e che ha creato l’epica dell’Impero, scrivendo l’Eneide. Quasi a dire che Dante aveva contezza di essere il primogenito di una cultura nuova, ma che questa si doveva fondare sulle solide basi della conoscenza del mondo classico. Non è un caso che Dante si paragona ad Ulisse, l’eroe cantato da Omero, e ad Enea, il troiano fuggiasco cantato da Virgilio, ambedue viaggiatori nell’oltretomba pagano, come raccontano i poeti che hanno composto l’Odissea e l’Eneide. Come l’astuto re di Itaca e il Pio principe troiano, Dante cerca nell’oltretomba risposte che possano dipanare la storia futura dell’umanità Come Ulisse cerca nell’Ade la strada per tornate ad Itaca. Come Enea chiede al padre Anchise, precocemente morto, quali siano i destini, gloriosi, della loro comune discendenza chiamata a fondare l’Impero Romano. Dante chiede agli abitanti di Inferno, Purgatorio e Paradiso quali siano i destini della sua Firenze, dell’Italia, dell’impero e di tutta la comunitas cristiana dell’epoca.

Erano anni difficili. Erano giorni in cui la dicotomia fra Guelfi, sostenitori del papa, e Ghibellini, sostenitori dell’imperatore, erano fortissimo. Era da poco morto il Puer Apuliae, lo Stupor Mundi, quel Federico II di Svevia che aveva dato lustro e gloria al rinato Sacro Romano Impero, ma che allo stesso tempo aveva portato profonde lacerazioni della civiltà cristiana. Il nonno di Dante, Cacciaguida, aveva lottato allo strenuo, guelfo, contro le terribili brame di potere dei Ghibellini nella storica battaglia di Montaperti. Questo indicava che la fame di potere imperiale e papale stavano portando non prosperità ma lacerazioni nella società del tempo. Questo è ciò che dante intendeva scongiurare. Basta odi e rancori. Basta violenze. È il tempo che i due soli, come definisce il poeta la monarchia e il papato, illuminino insieme il destino umano, senza produrre guerra e dolore. Dante ci crede. Il guelfo costretto all’esilio dai suo concittadini, l’esule senza dimora che morirà ospite del signore di Ravenna nel 1321, crede profondamente che ci sarà un momento in cui l’armonia prevarrà sulla dicotomia. Il lupo dimorerà con l’agnello, parafrasando il testo biblico. Ma per giungere a questo obbiettivo bisogna mutare radicalmente la realtà quotidiana comunale. Bisogna che tutti siano pronti a seguire la retta via della giustizia, e a rinunciare alla violenza. Ecco il senso ultimo e vero della “Divina Commedia” e dell’intera opera letteraria di Dante. Costruire una visione armonica della vita, che sia latrice di pace, in un contesto dilaniato dalla guerra. Insomma che l’intera umanità possa contemplare Dio, in Paradiso, e che possa trasformare in meglio, pacificamente, la terra degli uomini. Dante vuole che al fine tutti possiamo uscire a riveder le stelle (così si conclude l’Inferno, la prima Cantica della Commedia). Questo auguro vale ancor oggi dopo settecento anni ed è uno degli elementi che testimoniano l’estrema contemporaneità del messaggio dell’Alighieri.

Che cosa dire. 700 anni di storia sono tanti. Dante Alighieri per questi 7 secoli è stato la guida che ha illuminato la strada di coloro che sono nati come di lui. Mentre, però, Virgilio era inconsapevole di aver dato la stura alla nascita della cultura cristiana. Era colui che tiene il moggio dietro la schiena, ad illuminare la via dei suoi successori, mentre la propria rimane accidentata e buia. Dante invece era consapevole e certo del proprio ruolo di guida culturale. Era certo che la Teologia, l’intelligenza divina, incarnata allegoricamente dalla amata Beatrice, lo aveva reso strumento utile per l’emancipazione dell’intero genere umano. Questa non era presunzione. Era contezza della grandezza di Dio capace di poter scegliere chiunque quale strumento di gloria, anche un membro di una delle tanti corporazioni di Firenze, come Dante si considerava.

domenica 25 aprile 2021

ADDIO MILVA

 

LA PANTERA DI GORO

Ieri, 24 aprile 2021, si è spenta Milva, Maria Ilva Biolcati. Era nata il 17 luglio 1939, a Goro un paese in provincia di Ferrara. La cantante aveva 81 anni.

La vita di Milva è stata segnata da successi indimenticabili. Per lei hanno scritto canzoni stupende autori del calibro di Franco Battiato. L’autore siciliano gli affidò la celebre “AlexanderPlatz”, la canzone italiana che parlava della Berlino divisa da Muro, mentre la guerra fredda divampava, scusatemi il voluto ossimoro. La sua capacità di abbinare magistralmente canto e recitazione gli aveva dato la possibilità di esibirsi sin da giovanissima in quella che negli anni ’50 del secolo scorso sembrava essere la nuova scatola magica, mi riferisco alla televisione. È una delle prime a solcare il palco di San Remo, ove ancor oggi si “celebra” il festival della canzone italiana. Partecipa alle più importanti trasmissioni che hanno segnato la storia dello spettacolo televisivo italiano.

Ma Milva, la rossa, come rimane nel ricordo collettivo a causa della sua splendida capigliatura color porpora che ispirò l’omonima canzone che un altro grande della canzone italiana, Enzo Jannacci, scrisse appositamente per lei. Le sue canzoni sono un sapiente pastiche di musica colta e di suonate popolari. La sua carriera si accende negli anni in cui tutti gli uomini di cultura, dai registi come Vittorio De Sica ai poeti come Pier Paolo Pasolini, cercano di superare la dicotomia tra “cultura alta” e “tradizione popolare”, scoprendo un linguaggio nuovo che riesce a portare alla ribalta della cultura, non solo italiana, ma mondiale le lavoratrici delle filande, mitica è una canzone sul tema proprio di Milva, come i contadini e i malfattori da due soldi. Come non ricordare, appunto, la splendida messa in scena de “L’opera da due soldi” di Bertold Brecht al “Teatro Piccolo di Milano”con Milva quale splendida e perfida Jenny delle Speloche e il cattivissimo Mackie Messer interpretato, incredibile a dirlo, da un Domenico Modugno malvagio. Insomma Milva è riuscita negli anni 70 / 80 del XX secolo a raccontare gli orrori e le paure di cinquant’anni prima, che sono stati il primo manifestarsi della violenza fascista e nazista.

Insomma la ragazza nata nelle campagne di Cremona, la contadina che si affacciava al mondo proprio mentre deflagrava il secondo conflitto mondiale è riuscita a farsi interprete delle paure, delle speranze e, soprattutto, dei sogni di libertà e di felicità di milioni di persone. È stata la “Rossa” che è riuscita a raccontare l’orgoglio di una Italia nata povera che si scopriva ricca di capacità e di potenzialità. Milva, però, scusate la franchezza, non rappresentava l’Italia degli arricchiti, dell’operaio che diventa imprenditore e si compra il macchinone. Senza voler togliere nulla al lavoro e all’impegno, prezioso, di quest’ultimo, sia chiaro. Ma rappresentava un’Italia che non voleva “ingrassare” (cioè diventare più ricca economicamente), ma voleva crescere in cultura, senso dello stato, spirito di appartenenza. Un’Italia che credeva nelle proprie capacità e le finalizzava alla costruzione del benessere collettivo. Un’Italia che si dannava per rendere felice la vita del proprio prossimo. Milva era la “dolce rossa che porta l’allegria col disco di vent’anni fa”, come dice la canzone di Enzo Jannacci.

Buon riposo pantera di Goro. Un nomignolo che gli dette la stampa e che lei non amava moltissimo.. ma come capita spesso anche per una cantante unica come Milva, i detti e i nomi dati da altri rimangono addosso e segnano una storia di vita.