AMOR CHE A NULLO AMATO
Il canto V dell’inferno, scritto da Dante Alighieri,
racconta al lettore della struggente e dannata storia di amore fra Paolo e
Francesca. Francesca era figlia di Guido da Polenta, signore di Ravenna a
cavallo fra i secoli XIII e XIV. Paolo è il fratello di Giacomo Malatesta, il
reggitore di Rimini in quegli stessi anni. Francesca era stata promessa sposa
dal padre Guido a Giacomo. Il matrimonio doveva suggellare l’alleanza fra le
due potentissime signorie italiane. Ma il destino e il cuore aveva voluto che
Paolo e Francesca si innamorassero perdutamente. Il matrimonio fra Paolo e
Guido comunque si celebro. Come comunque visse, perdutamente consumata, la
storia d’amore fra Paolo e Francesca. Il marito della giovine, scoperta la
leason adulterina, uccise brutalmente e ferinamente i due.
Dante, accompagnato dalla sua guida Virgilio, incontra le
due anime frementi, quelle di paolo e Francesca, ne secondo cerchio
dell’Inferno, quello ove sono puntiti i lussuriosi. I dannati che hanno perso
la luce di Dio perché inebriati dalla voluttà della carne, sono puniti sbattuti
da un vento feroce e distruttivo. Come da vivi non sono riusciti a sfuggire
alla forza naturale della sessualità e della sensualità, non riuscendo a
contenersi, dopo la morte sono ancora oggetto della violenza della natura, in
questo frangente non quella propria, ma quella naturale. Un vento tremendo li
sbatte gli uni contro l’altro, incontrollabile come non fu controllata la loro
passionalità nella loro stagione mortale. Fra i condannati a questo tormento
c’è Didone, la fondatrice di Cartagine che amò insanamente Enea fino al punto
di morire suicida e di porre le basi di inimicizia fra Cartagine, la sua città,
e Roma, di cui Enea fu il progenitore. C’è anche la perfida Semiramide, che
aveva fondato il suo potere sul regno assiro babilonese non solo sull’inganno
ma anche sulla seduzione e la perdizione sessuale. Ma Il cuore del Canto V, il
fulcro del racconto sui lussuriosi scritto da Dante, è la perduta vita di Paolo
e di Francesca. Francesca parla al poeta. Gli racconta la loro triste storia.
Dice come prima cosa al pellegrino di Firenze: O animal (essere vivente)
grazioso e benigno.. se fosse (a noi due, Paolo e Francesca) il re
dell’universo, noi pregheremmo per la tua pace. Nobili parole che appaiono
contraddittorie con lo stato di condanna eterna di Francesca. Insomma paolo e
Francesca sono esseri nobili, che hanno perso la propria salvezza perché non
hanno saputo trasformare il loro sentimento in simulacro dell’amore divino, ma
si sono lasciati trasportare dai sensi.
Siamo a uno dei temi cruciali non solo della dialettica
dantesca, ma anche della Teologia Cristiana. Il dato che un sommo bene,
l’amore, possa condurre due anime belle, Paolo e Francesca, verso la vertigine
vergognosa della condanna eterna. È un dato incontestabile che strugge il cuore
del Poeta. Anche lui ama, ama Beatrice, come può pensare che un tale sentimento
che riesce ad innalzare l’uomo e la donna alle sublimi soavità della poesia,
possa essere strumento di dannazione eterna? “Amor che a nullo amato, amor
perdona”, spiega Francesca al poeta è la causa per cui lei e Paolo si sono
lasciati cadere nella perdizione della sensualità. Ma veramente non c’è scampo?
L’amore conduce necessariamente al peccato? Dante non lo crede affatto. Ha come
punto di riferimento la sua Beatrice, che non la condotto alla perdizione, ma
al contrario lo sta portando, attraverso il cammino dell’oltretomba, alla
contemplazione di Dio. Allora Dante piange e sviene, commuovendosi per la
struggente storia d’amore di Paolo e Francesca. Piange per la loro struggente
fine, assassinati dal fratello e marito Guido, a cui spetta la Caina cerchia,
ove sono puniti gli assassini dei propri consanguinei, uno dei luoghi più
orrendi e in cui vi sono le anime più nere dell’oltretomba disegnato e pensato
da Dante. L’Alighieri non contemplava il delitto d’onore fra le cause di
attenuazione di pena, cosa che purtroppo invece era nel Codice Penale Italiano
fino a pochissimi decenni fa.
Ma il tema del canto V dell’inferno non è l’omicidio ferale.
Il tema è l’amor cortese. Sono gli scritti su Lancillotto e Ginevra, che Paolo
e Francesca leggevano assieme avidamente. È la passione che diventa
letteratura. È il racconto di come un sentimento fra uomo e donna, possa
diventare poesia e bellezza e incantare i cuori di chi legge e di chi scrive. È
il racconto di come la letteratura possa essere galeotta, ricordiamo che
Galeotto era colui che fece conoscere all’amore Lancillotto e Ginevra. Galeotto
fu quel libro e chi lo scrisse, dice Francesca a Dante dichiarando così che la
letteratura cortese aveva fatto perdura temente innamorare lei e il suo Paolo. È
il dato oggettivo, che Dante costata, la letteratura e la poetica può portare
sia alla somma beatitudine sia alla somma perdizione. Come poter ovviare ai
pericoli che il leggere comporta? Come cercare la soavità della salvezza e non
la bellezza della perdizione? Come evitare che la letteratura sia “Galeotta”.
La risposta è nella Divina Commedia stessa. Dante ha colto il meglio della
letteratura eterna, incarnata da Virgilio. La sua Beatrice ha scelto per lui
una guida sicura, che non lo condurrà alla perdizione, ma alla salvezza.
Insomma la letteratura, qualsiasi testo, non va censurato ma saputo leggere
nell’ottica di salvezza che Dio ha offerto all’intera umanità. Per fare un
esempio biblico la donna elevata ad esempio non deve essere Eva, ma Maria,
madre di Gesù. Nella letteratura il modello positivo non è Didone, amante non
ricambiata di Enea, ma è Lavinia, la sua sposa dalla quale ebbe la progenie che
posero le basi per costruire i gloriosi destini di Roma. Lo stesso vale per gli
uomini, non deve essere esaltata la lascivia di Alessandro o di Ciro o di
Antonio, ma la probità di Augusto. Anche se Dante ha comunque un profondo senso
di compassione per coloro che si sono lasciati perdere dalla soavità dei sensi,
ma soprattutto dall’amore. Non è un caso che Francesca e Paolo, pur dannati per
sempre, sono fra le figure più commoventi e belle della Divina Commedia.
Noi dopo secoli abbiamo difficoltà a condannare in maniera
assoluta Paolo e Francesca, come invece fa Dante Alighieri. Abbiano sotto gli
occhi, nel quotidiano, immagini di persone che si perdono e si ritrovano. Si
innamorano e si disinnamorano. È difficile per noi concepire che questo loro
battere il cuore, sia strumento di perdizione eterna. Ma è così, ed è ancor
oggi, per la religione e la sensibilità cristiana. Farci i conti vuol dire
confrontarsi con quello che è per noi l’epifania dei valori portanti del nostro
essere. Innamorarsi di un altro o di un’altra che non sia il proprio marito o
moglie è peccato, lo rimarrà per sempre per la cultura e la teologia cristiana,
anche se non è più elemento di condanna statuale, come, posso aggiungere
purtroppo (?), ma si lo aggiungo con convinzione, lo è in alcuni paesi di
religione musulmana, ma anche cristiana.
Lo stato deve essere laico. Cioè deve distinguere fra reato, atto
tremendo che offende l’altro e la società, e il peccato, atto che può e deve
essere censurato solo dalla propria coscienza indirizzata da principi etici,
legittimi e giusti, ma estranei all’ordinamento statuale. Allora coraggio.
L’adulterio è peccato, forse conduce all’inferno o, forse, il Dio buono lo
perdona, non lo sapremo mai. Ma non può e non deve essere strumento per condurre
alla condanna statuale e sociale. Questo è una promessa che dobbiamo farci, noi
cittadini del XXI secolo che rifiutiamo di giudicare il nostro prossimo in base
alle “corna” (scusate il termine) che fa o riceve dal proprio coniuge. Ne
risponderà prima di tutto alla propria coscienza, alla propria/o partner e, se
ha fede, a Dio.