giovedì 11 febbraio 2021

AMOR CH'AL COR GENTIL RATTO S'APPRENDE


 

AMOR CHE A NULLO AMATO

Il canto V dell’inferno, scritto da Dante Alighieri, racconta al lettore della struggente e dannata storia di amore fra Paolo e Francesca. Francesca era figlia di Guido da Polenta, signore di Ravenna a cavallo fra i secoli XIII e XIV. Paolo è il fratello di Giacomo Malatesta, il reggitore di Rimini in quegli stessi anni. Francesca era stata promessa sposa dal padre Guido a Giacomo. Il matrimonio doveva suggellare l’alleanza fra le
due potentissime signorie italiane. Ma il destino e il cuore aveva voluto che Paolo e Francesca si innamorassero perdutamente. Il matrimonio fra Paolo e Guido comunque si celebro. Come comunque visse, perdutamente consumata, la storia d’amore fra Paolo e Francesca. Il marito della giovine, scoperta la leason adulterina, uccise brutalmente e ferinamente i due.

Dante, accompagnato dalla sua guida Virgilio, incontra le due anime frementi, quelle di paolo e Francesca, ne secondo cerchio dell’Inferno, quello ove sono puntiti i lussuriosi. I dannati che hanno perso la luce di Dio perché inebriati dalla voluttà della carne, sono puniti sbattuti da un vento feroce e distruttivo. Come da vivi non sono riusciti a sfuggire alla forza naturale della sessualità e della sensualità, non riuscendo a contenersi, dopo la morte sono ancora oggetto della violenza della natura, in questo frangente non quella propria, ma quella naturale. Un vento tremendo li sbatte gli uni contro l’altro, incontrollabile come non fu controllata la loro passionalità nella loro stagione mortale. Fra i condannati a questo tormento c’è Didone, la fondatrice di Cartagine che amò insanamente Enea fino al punto di morire suicida e di porre le basi di inimicizia fra Cartagine, la sua città, e Roma, di cui Enea fu il progenitore. C’è anche la perfida Semiramide, che aveva fondato il suo potere sul regno assiro babilonese non solo sull’inganno ma anche sulla seduzione e la perdizione sessuale. Ma Il cuore del Canto V, il fulcro del racconto sui lussuriosi scritto da Dante, è la perduta vita di Paolo e di Francesca. Francesca parla al poeta. Gli racconta la loro triste storia. Dice come prima cosa al pellegrino di Firenze: O animal (essere vivente) grazioso e benigno.. se fosse (a noi due, Paolo e Francesca) il re dell’universo, noi pregheremmo per la tua pace. Nobili parole che appaiono contraddittorie con lo stato di condanna eterna di Francesca. Insomma paolo e Francesca sono esseri nobili, che hanno perso la propria salvezza perché non hanno saputo trasformare il loro sentimento in simulacro dell’amore divino, ma si sono lasciati trasportare dai sensi.

Siamo a uno dei temi cruciali non solo della dialettica dantesca, ma anche della Teologia Cristiana. Il dato che un sommo bene, l’amore, possa condurre due anime belle, Paolo e Francesca, verso la vertigine vergognosa della condanna eterna. È un dato incontestabile che strugge il cuore del Poeta. Anche lui ama, ama Beatrice, come può pensare che un tale sentimento che riesce ad innalzare l’uomo e la donna alle sublimi soavità della poesia, possa essere strumento di dannazione eterna? “Amor che a nullo amato, amor perdona”, spiega Francesca al poeta è la causa per cui lei e Paolo si sono lasciati cadere nella perdizione della sensualità. Ma veramente non c’è scampo? L’amore conduce necessariamente al peccato? Dante non lo crede affatto. Ha come punto di riferimento la sua Beatrice, che non la condotto alla perdizione, ma al contrario lo sta portando, attraverso il cammino dell’oltretomba, alla contemplazione di Dio. Allora Dante piange e sviene, commuovendosi per la struggente storia d’amore di Paolo e Francesca. Piange per la loro struggente fine, assassinati dal fratello e marito Guido, a cui spetta la Caina cerchia, ove sono puniti gli assassini dei propri consanguinei, uno dei luoghi più orrendi e in cui vi sono le anime più nere dell’oltretomba disegnato e pensato da Dante. L’Alighieri non contemplava il delitto d’onore fra le cause di attenuazione di pena, cosa che purtroppo invece era nel Codice Penale Italiano fino a pochissimi decenni fa.

Ma il tema del canto V dell’inferno non è l’omicidio ferale. Il tema è l’amor cortese. Sono gli scritti su Lancillotto e Ginevra, che Paolo e Francesca leggevano assieme avidamente. È la passione che diventa letteratura. È il racconto di come un sentimento fra uomo e donna, possa diventare poesia e bellezza e incantare i cuori di chi legge e di chi scrive. È il racconto di come la letteratura possa essere galeotta, ricordiamo che Galeotto era colui che fece conoscere all’amore Lancillotto e Ginevra. Galeotto fu quel libro e chi lo scrisse, dice Francesca a Dante dichiarando così che la letteratura cortese aveva fatto perdura temente innamorare lei e il suo Paolo. È il dato oggettivo, che Dante costata, la letteratura e la poetica può portare sia alla somma beatitudine sia alla somma perdizione. Come poter ovviare ai pericoli che il leggere comporta? Come cercare la soavità della salvezza e non la bellezza della perdizione? Come evitare che la letteratura sia “Galeotta”. La risposta è nella Divina Commedia stessa. Dante ha colto il meglio della letteratura eterna, incarnata da Virgilio. La sua Beatrice ha scelto per lui una guida sicura, che non lo condurrà alla perdizione, ma alla salvezza. Insomma la letteratura, qualsiasi testo, non va censurato ma saputo leggere nell’ottica di salvezza che Dio ha offerto all’intera umanità. Per fare un esempio biblico la donna elevata ad esempio non deve essere Eva, ma Maria, madre di Gesù. Nella letteratura il modello positivo non è Didone, amante non ricambiata di Enea, ma è Lavinia, la sua sposa dalla quale ebbe la progenie che posero le basi per costruire i gloriosi destini di Roma. Lo stesso vale per gli uomini, non deve essere esaltata la lascivia di Alessandro o di Ciro o di Antonio, ma la probità di Augusto. Anche se Dante ha comunque un profondo senso di compassione per coloro che si sono lasciati perdere dalla soavità dei sensi, ma soprattutto dall’amore. Non è un caso che Francesca e Paolo, pur dannati per sempre, sono fra le figure più commoventi e belle della Divina Commedia.

Noi dopo secoli abbiamo difficoltà a condannare in maniera assoluta Paolo e Francesca, come invece fa Dante Alighieri. Abbiano sotto gli occhi, nel quotidiano, immagini di persone che si perdono e si ritrovano. Si innamorano e si disinnamorano. È difficile per noi concepire che questo loro battere il cuore, sia strumento di perdizione eterna. Ma è così, ed è ancor oggi, per la religione e la sensibilità cristiana. Farci i conti vuol dire confrontarsi con quello che è per noi l’epifania dei valori portanti del nostro essere. Innamorarsi di un altro o di un’altra che non sia il proprio marito o moglie è peccato, lo rimarrà per sempre per la cultura e la teologia cristiana, anche se non è più elemento di condanna statuale, come, posso aggiungere purtroppo (?), ma si lo aggiungo con convinzione, lo è in alcuni paesi di religione musulmana, ma anche cristiana.  Lo stato deve essere laico. Cioè deve distinguere fra reato, atto tremendo che offende l’altro e la società, e il peccato, atto che può e deve essere censurato solo dalla propria coscienza indirizzata da principi etici, legittimi e giusti, ma estranei all’ordinamento statuale. Allora coraggio. L’adulterio è peccato, forse conduce all’inferno o, forse, il Dio buono lo perdona, non lo sapremo mai. Ma non può e non deve essere strumento per condurre alla condanna statuale e sociale. Questo è una promessa che dobbiamo farci, noi cittadini del XXI secolo che rifiutiamo di giudicare il nostro prossimo in base alle “corna” (scusate il termine) che fa o riceve dal proprio coniuge. Ne risponderà prima di tutto alla propria coscienza, alla propria/o partner e, se ha fede, a Dio.

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