LA NOTTE CELA TUTTO
Piena notte, il suono persistente del campanello. Cavolo ma che ore sono? L’una e trenta! Chi è? La mia risposta vorrebbe essere retorica. Il mio cuore, e anche un altro paio di miei organi sanno chi insiste al campanello. È Giulia. Certo stavo dormendo. Certo è tardi. Certo domani sarà una giornata faticosa. Però! Un rapporto sessuale con Giulia vale la pena di accumulare sonno perduto. Tanto domani, con lo smart working, si può comunque dormire, sogghigno malevolo, facendo finta di essere un impiegato pubblico fannullone. Penso a Renato Brunetta, ai suoi tornelli, una serie di cancellate di ferro create per sua volontà nei vari uffici pubblici, penso alle prigioni in cui gli impiegati non facevano nulla se non guardarsi i piedi. Una cosa è certa. Il macello della canea politica italiana ha reso possibile almeno una cosa, che personaggi del genere, cresciuti per potere ai tempi di Bettino Craxi, legittimati nel loro sistema clientelare nel regime Berlusconiano, oggi non sarebbero più. Se per assurdo Matteo Salvini, l’attuale capo della destra italiana, dovesse imporre nel 2021, faccio un esempio impossibile, Brunetta quale ministro della funzione pubblica a un novello presidente del consiglio, il popolo del nord, i veneti i lombardi i piemontesi i liguri, sarebbero in prima fila ad imprecare contro l’infausta scelta. Sarebbe quasi, dico quasi mi rendo conto che la cosa sarebbe più grave, se Attilio Fontana, presidente della Lombardia scegliesse come responsabile della gestione della crisi Corona Virus Guido Bertolaso. Salvini sa che quelle persone, che tanti danni in passato hanno portato alla nazione, condurrebbero la coalizione Forza Italia, Fratelli di Italia e Lega ad avere lo 0.0.. dei consensi. Il “popolo”, come chiamano noi elettori i leader di destra, non dimentica.
Un altro suono di campanello. Mentre faccio monologhi e soliloqui inutili parlando a me stesso di politica, l’avventrice ha fretta di stare con me. Certo che gli debbo far capire che non può, anche in tarda sera, presentarsi vestita così succintamente nel mio palazzo. I vicini mormorano, non è una frase fatta in questo caso, è proprio così. Apro la porta, anche per farla sparire dal pianerottolo e quindi celarla da potenziali occhi indiscreti. Lei ha una vestaglietta, niente altro, una giarrettiera che non sorregge nulla, le calze non le ha. Penso: cavolo non ha freddo? Non ha neanche la biancheria intima, si vede tutto attraverso la vestaglia chiusa malissimo, o meglio rimasta aperta. Dal suo viso non traspare desiderio, ma paura. Cosa sta succedendo? Mi sconvolge il suo sguardo che per la prima volta scorgo adesso. Chiaramente non c’è voglia di me nei suoi occhi, c’è un desiderio di chiedere aiuto, a qualcuno, a chiunque, non necessariamente a me. Chiedo: cosa è successo?. Ansima. Non riesce a respirare. Gli dico entra. Vado nel mio guardaroba e gli passo un po’ di vestiti miei, gli vanno un po’ stretti, ha spalle più grandi delle mie, e quei seni abbondanti non aiutano certo ad infilare le mie camicie e a chiudere i loro bottoni. I pantaloni della tuta gli vanno larghi, ha comunque gambe più affusolate delle mie anche se tornite al punto giusto. È a questo punto il mio pisello si rifà sentire, nonostante l’atteggiamento sconvolto di Giulia. Si rizza quale soldato sull’attenti. Ma lei comincia a piangere. Ora bisogna capire cosa è successo. Gli accarezzo la folta chioma di capelli corvini. Vorrei che trovasse riposo dall’angoscia che attraversa la sua anima. La tensione sessuale scema, ora voglio solo sapere cosa gli perturba il cuore. Certo non avrei mai immaginato, nonostante conoscessi l’attività, diciamo così, lavorativa di Giulia, una rivelazione così sconvolgente. È morto, disse. Io non capii. Chi? Risposi, Tuo padre? Non ho pensato alla mamma, perché aveva parlato al maschile. Che dici! Grazie a Dio. È mentre pronunciava il nome della divinità superiore il mio pensiero andava al Canto V dell’Inferno Dantesco in cui Francesca da Rimini dice al poeta fiorentino: o animal grazioso e benigno.. se fosse amico il re dell’universo, noi pregheremmo lui della tua pace. Anche io e Giulia, come i personaggi della Commedia, Paolo e Francesca, abbiamo tanto peccato da non poter nemmeno pronunciare la parola che definisce il divino, senza che questo sia considerato bestemmia. Come Francesca dovremmo utilizzare allocuzioni dialettiche per citare la divinità. Ovviamente questo mio pensiero non l’ho esplicitato a Giulia. Però è vero. Siamo oggettivamente in peccato mortale entrambi.
Lei si è vestita con i miei vestiti, l’ha fatto di fronte a me senza alcuna inibizione, si è tolto quel poco che aveva, vestaglia, giarrettiera e niente altro e si è infilata le mie mutande, la mia canottiera, le mie calze, la mia camicetta, che come detto gli va piuttosto stretta non si può nemmeno allacciare i bottoni, i pantaloni che invece gli vanno larghi alle gambe e stretti alle vita. Le scarpe, quei poco credibili tacchi alti portati ad ora tarda, erano rimasti appena all’interno dell’uscio della mia porta, io gli avevo portato le mie pantofole, ma lei portava il 43 io il 41, quindi le andavano un tantino strette, comunque se le è infilate ai piedi, senza chiuderle con i laccetti posteriori.
Ora che si era vestita, mi siedo accanto a lei sul mio divano che è stato in quei momenti il suo spogliatoio. Mi siedo, Mi porgo di profilo a lei, la guardo con occhi fuggenti e il meno indagatori possibili. Non dico nulla. Faccio parlare lei.
Giulia inizia il suo monologo. Erano le undici, dice, niente a buono o di cattivo da segnalare. Tutto normale. Stavo vedendo un film, un poliziesco. Suona il cellulare del lavoro. Io rispondo alla chiamata con un: dimmi amore. Dall’altra parte sento un timido ciao. Beh, vieni a trovarmi o vengo io da te? Gli faccio spavalda. Il mio interlocutore risponde: vengo io, dove sei? Rispondo, come è di routin, In via Tortelli numero 20, quando arrivi chiamami, amore! Spetto qualche tempo. Niente altre chiamate, nottata moscia penso, e mi guardo l’uccello che anche lui di salire non sembra avere intenzione, sogghigno. Bisogna attrezzarsi per accontentare un po’ tutti, ma io non posso stare sempre a prendere quelle schifezze che aumentano il volume e garantiscono l’erezione a comando del pene. Non voglio morire di infarto prima del tempo. Speriamo che almeno questa volta, visto la mancanza di un folto numero di clienti, l’uccello si rizzi senza aiutini. Cavolo, pensa Giulia, sto raccontando queste cose a un tizio che conosco pochissimo, il cui rapporto si limita a due scopate fatte di corsa. Vabbé. Sono fatta così. E continua a parlare.
Racconta. Il cellulare squilla, è lo stesso numero che mi ha chiamato trenta minuti fa. La stessa voce titubante di prima dice : sono al 20, mi apri? Io rispondo: amo, vieni di fronte, al numero 35, suona al citofono Tartadesc, ti aprirò io. Neanche trascorsi tre minuti e sento bussare il campanello. Chi è chiedo io, lo so che è lui, ma non si sa mai. Mi sono distratta. Pensando al film che stavo vedendo, ho detto incurante al cliente di bussare al campanello, invece di richiamarmi sul cellulare. Speriamo che non sbagli pulsante e non disturbi qualche inquilino o proprietario. Spero tanto che abbia bussato solo a me. Comunque gli dico di prendere l’ascensore e salire all’ottavo piano. Arriva davanti al mio appartamento, scede dall’ascensore. Io lo guardo dallo spioncino per farmi un’idea di chi mi porterò “a letto”. Un tipo in là con l’età, ma non in maniera esagerata. Con i tempi che corrono un sessantenne, almeno nelle apparenze, può essere una persona piacevole. E se poi ha settanta o ottanta anni, il fatto che ne dimostri sessanta è un dato a suo favore. Certo è un po’ grassottello, ha una discreta pancetta, diciamo da commendatore, come si dice nei vecchi film di Totò e Fabrizi. Ma il suo aspetto è compito ed elegante, come i suoi abiti, cosa eccezionale in un contesto di sesso a pagamento e per giunta a tarda notte e in pieno lockdown. Poi il problema è anche che se i poliziotti volessero fare una indagine più accurata, scoprirebbero che la signora Emanuela Coviello, nata a Napoli, ha un figlio . Chissà che scusa inventa se lo ferma la polizia? Io quando ho leason fuori dal mio appartamento , metto i miei indumenti da lavoro in una valigetta 48 ore, mi vesto da “educanda”, gonna lunga e camicetta più maglione e cappotto in inverno, così se mi ferma la stradale dico che mia mamma sta malissimo devo andare a trovarla. Povera mamma, spero di non tiragli i piedi. Il problema è che se la polizia volesse guardare i miei documenti, lì troverebbe scritto “Marco Ingome”, non Giulia.
Scusa Fabio, mi dice Giulia, quando racconto mi lascio perdere dalla magia dell’affabulare e parlo anche di cose non rilevanti per il mio interlocutore. A queste parole rispondo, confuso, prego non ti preoccupare. E lei senza preoccuparsi, continua.. Allora lo faccio entrare. Nulla di strano. Gli propongo le tariffe. Cinquanta un pompino, cento mi faccio inculare, centocinquanta se ti piacciono i piaceri forti, ammicco, e vuoi essere inculato. Io queste tariffe le sparo così, disponibilissima a trattare con i clienti. Ma lui, cavolo, tira fuori dieci biglietti da cinquanta. Li mette sul tavolo. Dice: divertiamoci. Beh, io sorrido, un sorriso vero, alla Paperon dei Paperoni quando vede i verdoni. Corro dietro un separé, dico che mi devo un attimo rinfrescare, ma afferro i soldi e li metto.. beh in un mio posto segreto, che scusa Fabio, ma non dico neanche a te. Rientro nella camera dell’alcova con la vestaglia slacciata, con il reggi calze in evidenza, così tanto per dimostrare che è vero che mi ero andata a preparare e far dimenticare al cliente che sono andata a nascondere i soldi che mi aveva appena dato.
Beh ora, caro Fabio, ti dico la verità. Mi devo impegnare, devo fare in modo che questo munifico cliente ritorni volentieri e mi regali un’altra valanga di soldi. Comincio ad accarezzagli il corpo, mentre lui è ancora vestito. Comincio a spogliarlo. Gli tolgo la giacca. Gli tolgo la cravatta. Gli comincio a sbottonare la camicia. Prima ancora di sbottonarla completamente, comincio a baciargli il petto, villoso e con i peli brizzolati, mi fa un po’ schifo, ma i soldi.. Appare divertirsi ai miei modi. Si sta eccitando. Lo vedo dalle forme dei suoi pantaloni, che all’altezza del pube sanno acquistando la forma di montagne. Mentre gli bacio il petto, abbasso le mie mani sul suo cazzo. Ora a esporre i miei pensieri sono io, Fabio: pensare che questa donna si ecciti anche con altri uomini e non solo con me mi dà fastidio e mi fa arrabbiare. Comunque ora do voce a Francesca. Lei continua. Continua la narrazione di cosa è avvenuto in questa notte, ove lei è giunta al mio uscio a implorare aiuto.
Le mie mani aprono la patta. Prendono il pisello ritto del mio cliente. Un po’ accarezzano il gambo. Giungono alle palle. Le accarezzano lievemente, sento i peli che radi crescono su di loro, rizzarsi quasi a compartecipare al piacere del signore che è venuto nel mio appartamento. Ora mi sembra pronto. Io mi inginocchio sul sui bacino e prendo in bocca il suo pisello. Non è grandissimo, ma non è nemmeno dei più piccoli che ho incontrato. Vado “a braccio”, ops a Bocca, cioè faccio quel che voglio visto che lui non mia ha dato indicazioni precise su quello che vuole da me. Dopo che ho preso tutto lo stelo, fuin quasi a vomitare, mi concentro sul glande, rosso e bello grande. Prima lo bacio, con un bacio “casto”, che ridere, cioè semplicemente accostando le mie labbra sul suo prepotente rosso scarlatto. Poi lo mordicchio. Lui è felice.
Giulia smette di parlare. Capisco che questo è l’apoteosi, il climax, del racconto. Qualcosa succede che cambia i destini del sessantenne in cerca di emozioni forti, e, forse, anche della transessuale che si paga da vivere avendo incontri con sconosciuti. Giulia continua a parlare. Cambia tono. Per me i racconti delle sue scopate sono di per sé un fatto eccezionale. Ma capisco che per lei quello che ha raccontato è la norma, il normale lavoro che può avere una qualche variazione, ma che è in fin dei conti lo stesso con il mutare dei giorni, dei mesi e, forse, degli anni. Quello che racconterà da adesso in poi invece è l’eccezionale, l’orribile e lo spaventevole. Mentre gli stavo facendo un bel bocchino, e quel “bel” si capisce vuole ancora sottolineare che quel che sta succedendo in quella casa è per lei la normalità, parla di bocchino come il potrei parlare con Francesca di pratiche esattoriali, di un bel lavoro concluso con ottimi risultati, penso: però che tristezza. Ma intanto continua a parlare. Dice. Si spalanca improvvisamente la porta del mio appartamento. Tre uomini afferrano il mio cliente. Un quarto mi prende letteralmente per il culo e mi solleva dalla posizione “a pecorina” che avevo assunto. Mi dà un forte pugno in faccia, mi assesta un forte calcio all’inguine. Io rimango per terra dolorante, tramortita, quasi svenuta dal dolore. I tre uomini cominciano a martellare, con calci e pugni, il corpo del mio amante a pagamento. Gli vogliono rovinare il viso, il corpo, lo voglio far diventare sangue. Uno di loro prende perfino una spranga di ferro, che nascondeva sotto il cappotto, la usa come un randello che cade con fare sistematico e continuo sulla testa senza soluzione di continuità. Io intanto mi riprendo pian piano dal terribile colpo che quell’individuo mi ha inferto. Dovrebbe tenere gli occhi su di me, ma lo vedo distratto dal “lavoro” degli altri uomini. La porta è aperta. Scappo. Lui mi vede. Mi afferra il braccio. Ride. Si abbassa i pantaloni. Accosta il suo cazzo sui miei glutei scoperti, lasciati nudi dalla vestaglia che è ormai lacera. Gli altri tre alzano gli occhi dal loro lavoro di morte, dicono, lasciane un po’ anche per noi e sghignazzano. Il mio “custode” dice: Brutto ricchione ora ti faccio sentire cosa vuol dire essere donna inculata da un forte maschione. Sento il suo pisello che entra nel mio ano. Non ho mai provato una sensazione del genere. E’ allo stesso tempo un dolore fisico e una sensazione di pura paura. Uno stato di stress psicologico che si abbina a una percezione di male concreta. Continua a spingere. Sento il suo uccello entrare nel mio ano, e mi fa male. Mi afferma i seni e li stringe con violenza. Mi procura solo dolore, niente altro. Cerco di divincolarmi, non ci riesco. Lui spinge, su e giù, con ritmica frenesia. Poi arriva, sento il suo sperma penetrare nei miei interpizi. Sento che si sta rilassando. La sua presa si allenta. I suoi amici, lasciato atterra immobile il poveruomo, vorrebbero fare lo stesso. Si stanno muovendo verso di me. Il scappo a precipizio, esco dalla porta di casa, di casa mia, come se fossi io l’intruso scoperto, mi precipito a rotta di collo per le scale. I carnefici si affacciano sul pianerottolo, desistono ad inseguirmi. Mezza nuda e con tanto dolore sono giunta da te
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