mercoledì 28 marzo 2018

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: ARTICOLO 81



ARTICOLO 81

“Lo Stato assicura l’equilibrio fra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico.

Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali.

Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte.

Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentato dal Governo.

L’esercizio provvisori del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi.

Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio fra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito complesso delle Pubbliche Amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei principi definiti con legge costituzionale”.

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.
L’articolo 81 della Costituzione è stato modificato in maniera rilevante dalla legge costituzionale del 8 maggio 2012. Questa ha introdotto il cosiddetto “pareggio di bilancio”. L’articolo 81 tratta delle modalità in cui il parlamento autorizza entrate e spese pubbliche attraverso la legge di bilancio. A seguito della riforma la Costituzione impone che non vi possa essere un divario fra entrate e uscite annuali. In base all’articolo 81 della Costituzione novellato è vietato l’indebitamento per partite finanziarie. Insomma se vi sono spese, al netto degli interessi sul debito, debbono avere adeguata copertura. L’indebitamento è permesso alle regioni e agli enti locali solo per investimenti pluriennali soggetti ad ammortamento, cioè con garanzia che il debito venga estinto in un preciso arco di tempo. Insomma l’Italia intende avere un virtuoso rapporto con il proprio bilancio. Vuole che le spese siano adeguatamente coperte da entrate. È una scelta fatta dal ministro delle finanze del IV Governo Berlusconi, Giulio Tremonti. L’esponente politico volle riformare le leggi italiane adattandole alle normative europee di bilancio. Una scelta coraggiosa che non fu premiata dalle forze politiche che di lì a poco fecero cadere l’esecutivo. Giulio Tremonti ebbe l’appoggio morale e politico solo di Matteo Salvini, allora neosegretario della Lega, che lo volle candidare nelle fila del suo partito in segno di profonda stima verso una persona che aveva dimostrato la volontà di conformarsi ai dettami dell’Unione Europea. È importante notare che l’articolo 81 della Costituzione non impone una rigidità assoluta. Consente un incremento delle spese, ci pare, in caso di avverse fasi del ciclo economico. Almeno alla luce del primo comma, non appare azzardata tale interpretazione. La definizione generica di “avversità economiche” potrebbe indurre il parlamento e il governo a utilizzare la spesa pubblica come volano per la crescita, attuando le teorie keneisiane. Certo l’enorme debito pubblico che grava sulle nostre finanze inviterebbe alla prudenza. In questi anni, invece di diminuire, il nostro disavanzo pubblico si è accresciuto. Ciò è avvenuto malgrado le promesse dei governi a guida Partito Democratico di ridurre fortemente il debito. Insomma alla luce degli avvenimenti succedutisi dall’inizio del XXI secolo, i governi di destra e di sinistra hanno deluso sia le attese di crescita economica sia le prospettive di riduzione del debito. Un fallimento a cui hanno contribuito anche gli ingenti sprechi e gli scandali finanziari. Ricordiamo il crac di Bancaetruria, che ha coinvolto direttamente esponenti del PD, e il crac degli istituti di credito veneti e lombardi che hanno coinvolto direttamente la Lega. È ora di cambiare. È ora di pensare al bene dei cittadini, andando al di là degli interessi contingenti dei singoli partiti. È bene che non si sprechi denaro pubblico. È bene che il Parlamento ponderi con accuratezza i disegni di legge di Bilancio proposti dal governo, prima di approvarli. È il caso che non si utilizzino più le manovre finanziarie, le leggi dello stato che introducono nuove spese, per accontentare interessi di parte più o meno legittimi. È il tempo che l’Italia abbia una politica che pensi solo all’interesse generale. È difficile dire se la riforma che impone il pareggio di bilancio abbia effetti realmente benefici. Da una parte è necessario ridurre il debito pubblico che costringe il nostro paese a sottrarre risorse ingenti ad investimenti e a infrastrutture pubbliche per pagare interessi accumulati in decenni. Allo stesso tempo è opportuno pensare di dare la possibilità a Comuni, province e Regioni di compiere opere di ristrutturazione e mantenimento del territorio necessarie, ma che vengono bloccate dai vincoli imposti ai bilanci locali. La Legge di Bilancio è una fonte normativa fondamentale. Come fosse un’impresa lo stato deve dar conto del proprio stato finanziario. Deve guardarsi allo specchio, vedere quali sono le sue entrate e le sue uscite. Ogni settore della Pubblica Amministrazione deve rendicontare il suo operato finanziario. Fra i capitoli del bilancio ci sono le spese per la sanità, per le forze armate, per il funzionamento dei servizi pubblici. Sono settori dello stato che sono importantissimi per l’intera cittadinanza. È bene che il governo, come dice l’articolo 81, debba rendere conto alle Camere e al paese del proprio operato. La crisi economica che attanaglia l’Italia sembra un cappio al collo che soffoca il futuro di milioni di persone, è compito dello stato provare a dare risposte adeguate alle domande di coloro che non vedono nel domani prospettive migliori. La finanza Pubblica deve occuparsi di queste persone. Deve occuparsi di tutti i cittadini, garantendogli servizi adeguati, proteggendo il loro diritto alla salute, alla famiglia, alla sicurezza, in sostanza a vivere una vita dignitosa. I bilanci economici sono meri numeri, sterili diagrammi e partite doppie, che servono a celare inganni e ruberie, se non hanno in sé quella tensione politica al bene comune e al bene generale. I soldi dello stato devono servire a dare un posto a chi non l’ha, favorendo investimenti che incrementino il pil (Prodotto Interno Lordo). I soldi dello stato devono garantire la salute e il benessere generale, adempiendo ai dettami dell’articolo 32. I soldi dello stato devono garantire l’istruzione e la formazione dei piccoli come dice l’articolo 32. I soldi dello stato devono garantire la formazione professionale dei lavoratori, come dice l’articolo 35. Spulciando la Costituzione si può evincere che sono tantissimi gli ambiti in cui la spesa pubblica va fatta e porta beneficio. È invece sotto gli occhi di tutto quanto la Pubblica Amministrazione spreca in soldi ed energie. È tempo di cambiare. È tempo di far rinascere il paese con una finanza pubblica trasparente ed onesta.  

martedì 27 marzo 2018

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: ARTICOLO 80


ARTICOLO 80

“Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni di territorio od oneri alle finanze o modificazioni di legge”

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.
I trattati internazionali sono una delle fonti del diritto internazionale. Assieme ai “principi generali del diritto” (internazionale) e alle “consuetudini” (interstatali) costituiscono l’ordinamento giuridico che regola i rapporti fra gli stati. Sono atti considerati esterni all’ordinamento giuridico italiano. Sono atti normativi che non sono formati secondo le procedure di formazione delle nostre leggi interne. Acquistano efficacia per la nostra Repubblica attraverso un apposito ordine di esecuzione, che normalmente è emanato da decreto del Presidente della Repubblica. Il procedimento di formazione dei trattati si avvia con le negoziazioni. Plenipotenziari, cioè inviati speciali dei governi coinvolti, discutono ed elaborano un testo di accordo. Questa trattativa non vincola giuridicamente le nazioni. Nel nostro ordinamento, in forza dell’articolo 87 della Costituzione, è la ratifica, l’approvazione dell’organo competente, il presidente della Repubblica, a rendere vincolante il trattato. Per altri stati l’organo che ratifica può essere, ovviamente, diverso, anche se in realtà in quasi tutte le nazioni è il Capo dello Stato a ratificare i trattati, esattamente come da noi. L’atto di ratifica, è d’obbligo dirlo, è solo formalmente presidenziale. Sostanzialmente è l’esecutivo che partecipa attivamente alla stesura del trattato ed elabora la ratifica, che il primo cittadino firmerà. Il Parlamento ha un ruolo fondamentale nella elaborazione di accordi internazionali. Come afferma l’articolo 80 della Costituzione è chiamato ad autorizzare il governo a ratificarli. L’esecutivo non è libero di trattare con gli stati stranieri come più gli aggrada. Sa che il proprio comportamento in sede internazionale sarà posto al vaglio delle Camere. Senato e Camera dei Deputati devono autorizzare con legge l’esecutivo a contrarre trattati che abbiano natura politica, prevedano arbitrati o regolamenti giudiziari, importino variazioni di territorio, oneri delle finanze o modificazioni di leggi. I trattati internazionali sono espressione dell’indirizzo politico della nazione. È bene, anzi è indispensabile, che l’organo supremo di rappresentanza popolare, il Parlamento, collabori attivamente alla elaborazione degli accordi. Lo fa in due fasi ben distinte nei tempi e nei modi. Prima dando l’input al governo a condurre accordi con altri stati. Indicando chiaramente le finalità e le prospettive che l’esecutivo deve raggiungere in scala internazionale. Il Governo non può e non deve esercitare una propria politica estera. Le sue relazioni internazionali devono essere frutto del lavoro sinergico con il parlamento. L’esecutivo deve agire in simbiosi con il potere legislativo. Il parlamento, o meglio la maggioranza parlamentare che sostiene il governo, deve determinare l’indirizzo politico dell’esecutivo. È opportuno precisare che la politica internazionale italiana non può essere lasciata alla assoluta discrezione del governo e della maggioranza parlamentare che lo sostiene. È bene, prima di tutto, che anche l’opposizione sia coinvolta nelle decisioni di grande rilevanza. Ma cosa ancor più importante è che la politica internazionale della nostra Repubblica non deve mai essere in contrasto con i valori e le norme incise nella nostra Carta Costituzionale. L’Italia non può e non deve compiere accordi con altri stati che siano in contrasto, ad esempio, con l’articolo 11 della nostra Carta Fondamentale. La pace, il quieto convivere delle nazioni, sono le finalità che i nostri padri costituenti hanno voluto fossero il fine teleologico di ogni accordo internazionale. Un accordo internazionale finalizzato a compiere atti di guerra, sarebbe da considerarsi incostituzionale, inammissibile, moralmente censurabile. È cosa giusta ricordare che l’Italia è una nazione di pace. Tutti i suoi gesti rivolti alle altre nazioni devono essere atti volti alla pacificazione delle genti. Le nostre missioni all’estero, compiute dall’esercito, sono volte a portare la pace.  Quindi sarebbe inammissibile un’alleanza militare con altri stati volta alla conquista e alla colonizzazione di terre e di genti.
Bisogna ricordare che l’atto di ratifica di accordi parlamentari è solitamente considerato un atto formalmente normativo, ma non materialmente. In quanto non suscita una innovazione, ma si limita ad accertare la legittimità di un accordo stipulato da un altro potere dello stato, il presidente della Repubblica. Al pari della Legge di Bilancio non avrebbe la capacità di novellare l’ordinamento giuridico dello stato, di conseguenza non avrebbe la vis della norma. In realtà la l’atto che solitamente viene normalmente votato in parlamento in questi casi è il trattato internazionale firmato dal governo con gli esponenti delle potenze straniere  anticipato da una succinta formula che ha questo tenore: piena ed intera esecuzione sia data al trattato. Questo non esclude, come abbiamo detto, che il Parlamento vegli sulle scelte di politica internazionale dell’esecutivo. In politica estera il governo non ha carta bianca, deve coinvolgere il potere legislativo, quest’ultimo ha il dovere e il potere di indirizzare la politica nazionale anche in campo internazionale

lunedì 26 marzo 2018

MORTO FABRIZIO FRIZZI



ADDIO FABRIZIO
No non può essere un addio, sarà un arrivederci. Non posso pensare di aver perso un amico che per più di trent’anni ha allietato la mia vita. Fabrizio Frizzi era più di un semplice presentatore televisivo. Con la sua risata sincera ed aperta ha allietato le mie giornate. Ero giovanissimo, come lo era lui, quando vedevo “Tandem”, una trasmissione per ragazzi da lui condotta. Siamo sul declinare degli anni ’80 del secolo scorso. Mi faceva sorridere, Fabrizio Frizzi mi dilettava con i suoi lazzi e giochi, e poi via a fare i problemi di matematica. Poi le sue trasmissioni diventarono la pausa alle traduzioni di latino e greco. Poi diventarono il divertimento serale dopo gli studi universitari. Sono stati il diletto alla fine del Lavoro. E oggi erano un modo per distrarmi dalle angosce difficoltà del quotidiano. Sono uno dei tanti segnati dalla crisi. Insomma Fabrizio Frizzi è stato un compagno di vita, anche se a distanza. Una persona che sapeva spruzzare simpatia. I suoi modi annullavano le distanze fra il mondo della televisione e il mondo della realtà. Oggi che non c’è più, oggi che un’emorragia celebrale ci ha lasciato privi del suo sorriso, ci sentiamo più soli. Ieri notte, 25/03/2018, la sua morte ha segnato un vuoto incolmabile nell’animo di milioni di telespettatori. Il suo sorriso rimarrà per sempre uno dei ricordi più belli. Un modo per consolarci davanti a una vita che è spesso cattiva. Fabrizio! “Scommettiamo che…” (il titolo di una sua trasmissione) in cielo farai ridere tutti..

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: ARTICOLO 79



ARTICOLO 79

“L’amnistia e l’indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale.

La legge che concede l’amnistia o l’indulto stabilisce il termine per la loro applicazione.

In ogni caso l’amnistia e l’indulto non possono applicarsi ai reati commessi successivamente alla presentazione del disegno di legge”

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.
Per commentare l’articolo 79 della Costituzione è bene riprendere i concetti giuridici di “amnistia” ed “indulto”. Sono atti di clemenza compiuti dalla autorità statuale in favore di chi ha commesso dei reati. Nei tempi passati l’indulto e l’amnistia erano, al pari della grazia, atti propri del capo dello stato. La Repubblica ha modificato questo stato di cose. La grazia, che è la clemenza concessa a un singolo recluso per motivi umanitari, rimane prerogativa del Presidente della Repubblica. Gli altri istituti, che valgono per tutti coloro che hanno compiuto un certo tipo di reato o hanno infranto specifiche normative del codice penale, sono prerogativa del parlamento. Fino alla riforma del 1992 i provvedimenti di clemenza erano concessi dal presidente della Repubblica su delega del Parlamento. L’atto, nei fatti, assumeva la forma di un decreto legislativo. Il parlamento, con legge di delega, dava i criteri generali per la concessione degli atti di clemenza. Il Presidente della Repubblica concedeva l’amnistia e l’indulto, con decreto. La riforma ha eliminato il ruolo del Presidente della Repubblica e del Governo, che di fatto emanava l’atto di clemenza che il capo dello stato controfirmava. Ha inoltre introdotto una maggioranza qualificata per l’approvazione dell’amnistia e dell’indulto. È necessaria la maggioranza dei due terzi di ambedue le camere per l’approvazione dell’atto di magnanimità. Mentre prima era richiesta la semplice maggioranza per l’approvazione della legge di autorizzazione al Presidente della Repubblica. È una scelta voluta per provare a porre un freno allo sdegno dei cittadini che vedevano gli atti di liberalità succitati quasi come una complicità della politica verso i criminali. Infatti spesse volte in passato gli atti di amnistia ed indulto sono stati utilizzati per condonare gli atti dei cosiddetti “colletti bianchi”, cioè coloro che avevano compiuto reati finanziari e corruttivi  appartenevano alla classe dirigente. Il quorum più alto è stato voluto per porre un freno a questo costume e rendere l’amnistia e l’indulto veri e propri atti eccezionali. Oggi la legge di concessione dell’amnistia e dell’indulto richiede che non solo la votazione finale sia fatta dai due terzi dei componenti del parlamento, ma impone che la votazione di ogni articolo abbia eguale numero di votanti favorevoli.
Ricordiamo che l’amnistia è l’istituto giuridico che estingue una condanna, l’esecuzione della stessa e delle pene accessorie. Cioè dal momento della sua approvazione da parte delle camere gli imputati, che rientrano nella tipologia dei rei amnistiati, sono da considerarsi liberi dalla pena, come se avessero già estinto il loro debito con la società. L’indulto, invece condona la pena, senza estinguere il reato, o la commuta in altra minore. Insomma l’amnistia è la cessazione della pena, mentre l’indulto è la sua riduzione. Chi ha ricevuto l’indulto non vede estinguersi gli effetti civili del reato, mentre chi ha avuto l’amnistia è da considerarsi libero da ogni condanna, anche accessoria.
La legge che istituisce l’indulto e l’amnistia deve tassativamente indicare non solo i reati penali oggetto di clemenza, ma anche le eccezioni dovute a particolari condanne. Possono essere esclusi dalla liberalità coloro hanno visto riconosciuti aggravanti al loro reato, quale ad esempio la pervicacia e l’efferatezza, possono essere esclusi particolari tipologie di crimini: ad esempio quelle legate alla corruzione e alla concussione. Possono essere esclusi, cosa giustissima, coloro che sono stati condannati per associazione di tipo mafioso. La scelta degli esclusi non è imposta né dalla legge né dalla Costituzione. I miei esempi sono fatti in base alla lettura degli atti di clemenza emanati in passato dal Parlamento. È bene, però, che il criterio che esclude coloro che sono affiliati ad organizzazioni criminali sia sempre utilizzato. In caso di indulto la legge indica anche di quanto sia “lo sconto” della pena. Come abbiamo già detto infatti questo istituto non la estingue ma la diminuisce. Una questione delicatissima. Infatti sull’entità dello sconto, grande o piccolo che sia, si decide del destino dei reclusi. Insomma questi atti di clemenza sono di un’importanza estrema. Spesse volte avvengono in occasioni di eventi eccezionali, che sono da ritenersi di rilevanza storica. In occasione del Giubileo del 2000, evento religioso che ha coinvolto il nostro paese da sempre di cultura Cattolica, il parlamento decise di concedere un indulto generale. L’atto di clemenza fu voluto dall’intero arco parlamentare, con l’eccezione della Lega e di alcune altre forze politiche di estrema destra. Gli effetti dell’amnistia furono oggetto di campagna elettorale. La sinistra fu accusata di aver permesso l’aumento indiscriminato dei crimini. Berlusconi, leader di Forza Italia, si “dimenticò” di aver votato la clemenza, cavalcò la paura e vinse le elezioni. L’effetto fu deleterio. Da allora gli estremisti di destra videro nella Lega e in Forza Italia un punto di riferimento. Si legarono alla destra elementi come Massimo Carminati, ideologo del neofascismo, che faceva della violenza contro immigrati e deboli il suo credo. Entrarono nella lega e continuano ad entrare persone come Luca Traini, esponente leghista di Macerata che il 3 febbraio 2018 ha sparato su un gruppo di immigrati, considerati colpevoli di aver ucciso una ragazza solo perché di colore. Ora è bene dire che la violenza non è solo in Lega e Forza Italia. Anche i centri sociali usano la forza, come ha giustamente ricordat6o Silvio Berlusconi in una importante intervista politica a Bruno Vespa. È profondamente sbagliati non equiparare la violenza dell’estrema sinistra a quella di Lega e Forza Italia. Rimane il fatto che i violenti a sinistra non hanno consensi, mentre lega e Forza Italia uniti sono la prima coalizione del paese. Quanti Luca Traini ci sono in Parlamento, eletti nelle fila della destra? Ce lo dobbiamo chiedere! Come ci dobbiamo chiedere il perché l’elettorato che fino al 1994 si considerava moderato, da allora in poi vota le coalizioni di destra, di estrema destra. La risposta a queste domande potrebbe essere decisiva per i destini della nazione. È d’obbligo che l’istituto dell’amnistia e dell’indulto sia usato con estrema cautela. È bene che valga il principio dell’effettività della pena. Chi commette un reato deve pagare il fio. Deve essere perseguito e condannato. Gli atti di clemenza devono rimanere eccezionali. La certezza di vivere in un paese sicuro è strumento di progresso sociale e politico. I cittadini non devono sentirsi in pericolo. Se questo principio viene meno è inevitabile il decadimento ideologico verso posizioni estremiste. La politica, le forze democratiche, il Movimento Cinque Stelle, vero vincitore dell’ultima tornata elettorale, deve farsi carico di tutte le paure e trovare una risposta adeguata, cosa che non ha fatto il Partito Democratico nella scorsa legislatura, in caso contrario si rischia di cadere nell’estremismo propugnato da Silvio Berlusconi e Matteo Salvini.
L’ultimo comma dell’articolo 79 della Costituzione è strumento essenziale per garantire la certezza del diritto. Gli atti di clemenza possono valere solo per i reati commessi prima della presentazione del disegno di legge. Non prima dell’approvazione delle Camere, ma prima della presentazione in parlamento della proposta. Questo è importantissimo chi commette un reato non può farlo nella speranza di non pagare il fio. Se una persona commette una colpa, sapendo che in Parlamento si discute un atto di clemenza, agisce nella prospettiva di “farla franca”. Questo è inaccettabile. Lo stato perdona, ma non chi approfitta della sua “bontà”. Insomma l’amnistia e l’indulto sono atti volti a soccorrere coloro che, per proprie colpe, si trovano in uno stato di cattività. La prigione è bruttissima. La carcerazione è un atto disumano. Certo è necessaria per garantire l’ordine pubblico, ma è bene che si cerchino altri strumenti per evitare il proliferare di atti criminosi, quale l’inserimento sociale, l’utilizzo di pene alternative, il lavoro socialmente utile. Gli atti di clemenza possono essere efficaci per il miglioramento della società, se saggiamente inquadrati in una politica che scongiuri gli atti criminosi, operando nei quartieri e nelle località ove il degrado sociale favorisce il commettere reati. L’integrazione sociale, l’attuazione dell’articolo 3 della Costituzione, potrebbe essere un modo concreto per migliorare la società. È vero oggi tutto ciò è utopia. La crisi ha creato un solco sociale che sembra insanabile. I disabili, i più deboli sono esclusi e perfino oggetto di derisione, figuriamoci se in una società del genere ci può essere una politica inclusiva. La società italiana è a pezzi. È considerato normale deridere i più deboli, i meno fortunati, escluderli dal mondo del lavoro, negargli i necessari strumenti per vivere una vita dignitosa. Il disabile, soprattutto in un meridione sempre più degradato, è escluso dalla realtà sociale, lavorativa e culturale. Allora perché dare una possibilità al condannato? Perché una società migliore si costruisce attraverso l’inclusione. Bisogna dare la possibilità a tutti di rinascere, di avere un ruolo sociale, una dignità. Questo vale sia per i migranti sia per i disabili sia per coloro che hanno commesso reati. Coloro che sono affetti da dipendenza di alcool e droghe devono essere aiutati, con istituzioni e ambulatori attrezzati e supportati dalla politica e dalla società. Nel nostro paese si arriva al paradosso che si frequenta un delinquente quando opera per commettere reati e gli si volta le spalle quando viene “beccato”. Questa è una vergogna. È giunto il tempo di riscoprire il valore della socialità. Riscoprire che è bene porgere una mano a chi è caduto. È bene rifuggire l’ipocrisia, che ci fa complici dell’illegalità e ci porta ad isolare chi ha già pagato il conto alla giustizia. Fa rabbia vedere condannati, disabili, migranti abbandonati a se stessi e alla azione caritatevole di poche associazioni. La società italiana potrà rinascere solo partendo dall’inclusione.

scritto da Gianfranco Pellecchia

domenica 25 marzo 2018

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: ARTICOLO 78



ARTICOLO 78

“Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.
Caspita! L’articolo 11 della Costituzione Italiana dice di ripudiare la guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali. L’articolo 78 indica come un potere del parlamento il deliberare lo stato di guerra. Come mai? Perché questa contraddizione? Perché, la Repubblica contempla la possibilità di entrare in guerra. Una prima risposta è che il nostro stato potrebbe subire un invasione. È opportuno quindi che dichiari guerra all’oppressore e si prepari alla strenua difesa del suolo patrio. Non ci sono dubbi in proposito. È compito di ogni cittadino difendere la patria. È un dovere sacro, ricorda l’articolo 52 della nostra legge fondamentale. Allo stesso modo è chiaro che è alto compito dello stato predisporre adeguati strumenti di difesa per tutelare se stesso e i propri cittadini dalla violenza bellica di uno stato straniero. È dovere morale di una classe politica prevedere misure adeguate alla difesa nazionale, anche in stato di pace. È dovere avere un esercito pronto e capace di affrontare crisi internazionali e rispondere alle altrui aggressioni. È dovere quindi contemplare l’idea che l’Italia, suo malgrado, debba entrare in guerra. Bisogna che l’atto bellicoso sia legittimato da un atto parlamentare. Camera e Senato ricordiamo sono il tempio della rappresentanza. È in loro che la sovranità popolare si esplicita. È giusto che siano loro a deliberare un atto solenne e grave, quale una dichiarazione di guerra. Il Parlamento è il sommo custode della Democrazia anche nei momento tristi e gravi per la patria. Ricordiamo le drammatiche assemblee parlamentari, con la strenua battaglia politica del fronte pacifista, che portarono l’Italia monarchica nella Prima Guerra Mondiale. In quei drammatici anni, siamo nel secondo decennio del XX secolo, le forze politiche hanno grandemente dibattuto sull’opportunità di entrare in guerra e alla fine prevalse la scelta interventista. Oggi la costituzione repubblicana vieterebbe l’ingresso dell’Italia in guerra, se non invasa. Ricordiamo come, agli inizi del XXI secolo Forza Italia e lega, al governo, dovettero mascherare l’ingresso del nostro paese in guerra al fianco dell’America di Bush adducendo che fosse una missione di pace. Cosa ridicola. I tanti morti italiani a Nasseria, città irachena, ricordano che è stata una bugia. Fa impressione constatare che a quindici anni dal tremendo evento solo in Italia le forze politiche che hanno voluto la guerra in Iraq rimangono sulla scena elettorale. Bush, in America, Bleare, in  Inghilterra, sono stati bocciati elettoralmente mentre Lega e Forza Italia, ancor oggi, riscuotono consensi. Fa orrore, se si pensa che l’Italia e gli italiani dovrebbero ripudiare la guerra. Cosa è successo al nostro paese? Perché sono decaduti i valori di pace e solidarietà che dovrebbero essere il fulcro del nostro vivere sociale? Come è possibile che la Lega, che incita all’odio, sia diventato il baricentro della politica della nostra Penisola? Difficile trovare una risposta a questo interrogativo.
 In caso di guerra, assieme alla dichiarazione il parlamento deve dare i poteri necessari al governo. Questo è lampante. Il Governo spesso deve compiere atti che in condizioni normali richiederebbero la forma di leggi. I cosiddetti bandi militari, ad esempio, sono degli atti compiuti dai comandi militari che regolano la vita dei cittadini e normano il loro vivere sociale. Sono atti extra legem, atti che travalicano le normali procedure legislative contemplate dalla Costituzione. In Italia, grazie a Dio, non è mai sopraggiunta la necessità di adottarli da quando siamo Repubblica. Durante la Prima e la Seconda guerra mondiale, però, il comando supremo li ha utilizzati, ha indetto proclami e novato gli ordinamenti giuridici al fronte. Appare non peregrino pensare che in caso di emergenza si possa fare lo stesso. Ma l’esercito non può e non deve agire senza l’assenso del potere governativo, non può, ad esempio, fucilare indiscriminatamente traditori o presunti tali, dopo un ridicolo processo militare, come fecero i generali della Grande Guerra.  Anche perché è stata abolita la pena di morte anche in caso di guerra in forza della legge de 13 ottobre 1994. Il governo deve guidare le scelte delle forze armate affiancato dal saggio aiuto del Presidente della Repubblica che rimane comunque capo dell’esercito, in forza dell’artico 87 della Costituzione.  Presiede il supremo consiglio di difesa (un istituto composto dal Capo dello stato, che lo coordina, dal presidente del consiglio e da alcuni ministri e l’alto comando delle forze armate), oltre che dichiarare lo stato di guerra in caso di delibera delle Camere. La Costituzione non muore in caso di guerra. I diritti inviolabili dell’uomo che contempla e difende permangono anche in caso di chiamata alle armi. Questo deve essere chiaro. La repubblica non si può snaturare. I principi di solidarietà, di rispetto verso l’altro, di difesa della dignità umana devono restare cardini della vita civile anche in caso di guerra. Ora è chiaro che bisogna saper utilizzare i precedenti storici per poter ipotizzare quello che potrebbe succedere se, malauguratamente, il nostro paese subisse l’ardua prova di una guerra combattuta all’interno dei propri confini. Il regime fascista, entrato in guerra nel 1940, aveva già esautorato il potere parlamentare. Con le leggi fascistissime, così le chiamò Benito Mussolini, era stato ridotto il parlamento ad un mero convitto di varie rappresentanza del lavoro, tutte legate al regime. Il potere legislativo era in mano all’esecutivo e al Gran Consiglio del Fascismo, organo di partito istituzionalizzato. Con la caduta del Regime nel 1943, i governi che seguirono durante la guerra continuarono a utilizzare la decretazione d’urgenza per legiferare. Non c’era la possibilità di indire elezioni e ripristinare il potere parlamentare. Forse non è azzardato pensare che anche in caso di futura guerra il governo potrebbe vedersi ampliati i suoi poteri di decretazione d’urgenza. In questo caso non per un arbitrio del Duce, di Mussolini, come avvenne nel secolo passato, ma per scelta del parlamento che potrebbe dare più ampi poteri all’esecutivo. Una scelta non censurabile, vista l’eccezionalità e la gravità del momento. Insomma potrebbe avere poteri simili a quelli che avevano i governi De Gasperi e Badoglio a cavallo fra la fine della guerra e l’inizio del dopoguerra. Poteri grandi, ma in questo caso controbilanciati dall’effettiva presenza di un potere parlamentare anche se privato di alcune prerogative. Un esempio di cosa potrebbe succedere è ricavabile esaminando il rapporto fra governo e Assemblea Costituente  dopo il 2 giugno del 1946. In quel caso la guerra era finita. Comunque, per poter dare all’assemblea popolare il tempo e il modo di redigere la Carta Costituente, l’esecutivo continuava ad avere un ampio potere di decretazione d’urgenza per iniziare la rinascita del paese prostrato dalla guerra. In quel caso la Costituente vegliava. Il Presidente del Consiglio non poteva cadere nell’arbitrio, i costituenti ponevano gli occhi su di lui ed erano pronti a censurarlo imponendo che si dimettesse, come è avvenuto in alcuni casi. La stessa cosa potrebbe succedere in caso di guerra. L’esecutivo avrebbe un grande potere certo, ma sarebbe comunque sottoposto alla Costituzione e alla rigida censura del Parlamento che potrebbe intervenire in caso di palesi atti illegali o di scelte sbagliate. È chiaro che la responsabilità politica dell’esecutivo davanti al senato, alla camera e all’intero paese rimarrebbe. In caso di gravi mancanze ed errori è giusto che rimetta la carica e lasci ad altri la guida della collettività, anche se la guerra infuria. Che dire? Speriamo che guerre non ci siano mai. Speriamo che l’Italia repubblicana non debba mai sperimentare situazioni di eccezionalità ed urgenza che giustifichino deroghe ai principi costituzionali. L’Italia ripudi la guerra. L’Italia deve essere un paese pacifico e di pace. Questo è l’unico articolo della costituzione che ci auguriamo rimanga lettera morta, che ci auguriamo che non debba mai essere utilizzato per modificare o adattare all’emergenza il nostro ordinamento repubblicano.

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: ARTICOLO 77



ARTICOLO 77    

“Il governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria. 

Quando, in casi straordinari di necessità e d’urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni.

I decreti perdono efficacia sin dall’inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti”

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.
Regola generale vuole che il governo non possa emanare atti normativi che non siano previamente autorizzati dalle Camere. Questo principio è ribadito dal primo comma dell’articolo settantasette della Costituzione Italiana, che riprende le tematiche dell’articolo settantasei. La nostra è un repubblica parlamentare. Il potere legislativo spetta alle Camere. Queste possono delegarlo al governo in via straordinaria e con legge, denominata, appunto, di delega. La delega vale per un preciso lasso di tempo e per materie e finalità ben circostanziate dall’autorizzazione dell’assemblea. In casi straordinari che richiedono la pronta reazione del Governo, questi può adottare provvedimenti provvisori aventi forza di legge. Insomma il governo può legiferare senza autorizzazione del Parlamento. Ciò può avvenire a patto che l’esecutivo, al momento della firma da parte del Presidente della Repubblica dell’atto, mandi alle Camere il testo, affinché sia convertito in legge parlamentare, grazie al voto del consesso assembleare. È un atto ben diverso dal decreto legislativo. Questo è adottato dal governo a seguito di un’autorizzazione preventiva delle camere. Il Decreto Legge invece è autorizzato, con votazioni, dal parlamento successivamente alla sua entrata in vigore. I decreti legge sono previsti per motivi tassativi. Solitamente sono utilizzati per imporre aumenti d’accise. L’aumento di una tassa su beni di consumo deve essere immediato, per evitare pericolose speculazioni finanziarie durante l’approvazione della norma da parte delle camere. Ma l’esecutivo decreta d’urgenza anche per affrontare calamità di carattere naturale, terremoti e alluvioni. Decreta per fronteggiare imprevisti scenari di crisi politico finanziaria. Decreta per fronteggia eventi imprevisti e inaspettati. Bisogna dire che in passato e anche nel presente, l’esecutivo ha utilizzato la decretazione d’urgenza per attuare la propria politica anche esorbitando i criteri di necessità e urgenza. Il Presidente della Repubblica, che ha  il compito di controfirmare i decreti legge, ha spesse volte denunciato questa pratica contraria alla Costituzione. Ma spetta al Parlamento censurare in maniera efficace la pratica dell’esecutivo, con atti quali la sfiducia al governo. È in ultima istanza l’assemblea degli eletti a censurare l’esecutivo, cosa che quasi mai avviene essendo la maggioranza parlamentare, che dovrebbe censurare il governo, la stessa che lo sostiene. La legge numero 400 del 1988 ha posto una serie di limitazioni all’adozione dei decreti d’urgenza. Questo per chiarificare quale debba considerarsi la “necessari età e urgenza” atta a decretare. Ma anche questa legge è stata spesse volte aggirata, essendo un atto normativo di stessa forza del decreto legge, questi che è posteriore lo può derogare, in virtù del principio nova lex derogat pristinam. Insomma la decretazione d’urgenza è materia delicata e di difficile gestione. La riforma della Costituzione pensata dall’ex ministro Maria Elena Boschi dava garanzie più chiare sulla materia della decretazione d’urgenza, imponeva che il governo chiarisse i motivi per i quali si dovesse utilizzare tale strumento. Nel caso non fossero esplicitati o le motivazioni fossero non veritiere il Presidente della Repubblica doveva non firmare l’atto. Ma si sa i cittadini hanno bocciato tale riforma. Le camere devono ratificare entro sessanta giorni il decreto legge. Se non avviene l’approvazione con voto del testo da parte di entrambe le camere, questi decade. In passato molti decreti legge sono finiti nel vuoto. Non vi è stata alcuna legge di conversione. Tali norme governative sono state esplicitamente volte a tamponare un’emergenza momentanea, che passata, il Parlamento ha scelto di ignorare. È disdicevole che ciò avvenga. È disdicevole che un atto giuridico del governo abbia effetti durante i sessanta giorni previsti e poi cada nel vuoto. Questo è l’abdicazione delle Camere ad adempiere e a svolgere il potere legislativo. È bene che si discuta un decreto e che si bocci o si approvi. È bene spiegare che il Parlamento ha il dovere di normare la materia del decreto, se decide di non ratificarlo deve provvedere con legge a sanare le situazioni giuridiche venutesi a creare a causa dell’atto del governo, che se decaduto non è più valido. È un modo per garantire i cittadini e scongiurare una vacatio legi.  È bene ricordare che il decreto legge è approvato dal Consiglio dei Ministri, firmato dal presidente del Consiglio e controfirmato, a garantirne la legalità costituzionale, dal Presidente della Repubblica. L’atto ha piena forza di legge a meno che non decada per mancata conversione delle camere, in questo caso è inefficace fin dal momento della sua promulgazione. Le Camere possono ratificare il decreto così come è. Non ratificarlo e normare sulla materia del decreto per sanare eventuali situazioni giuridiche sorte a causa del decreto stesso, ormai privi di valore. Può ratificare la legge, pur modificando la norma. Può cioè approvare nella sua teleologia l’atto dell’esecutivo, ma modificarne alcuni punti importanti, così novellando la norma stessa. Il parlamento, nella sua insindacabile potestà legislativa, può modificare il contenuto del decreto, spetterà al governo interpretare tale scelta come un miglioramento gradito o una censura alla propria azione, che potrebbe significare una frattura politica. Comunque la mancata conversione di un decreto non obbliga il governo a dimettersi.  Insomma il decreto legge è un importante strumento dell’esecutivo per normare urgentemente, spetta però che si utilizzi con raziocinio e parsimonia per evitare fratture istituzionali.


venerdì 23 marzo 2018

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: ARTICOLO 76



ARTICOLO 76

“l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione dei principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”.

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.
Nella visione costituzionale il potere legislativo è della Camera. Fare le leggi è un atto complesso, cioè impone che sia Camera che Senato deliberino un testo uguale che diventerà norma dello Stato. Un’eccezione a questo stato di cose è il decreto legislativo. Questo istituto consiste nel potere dell’esecutivo di emanare testi normativi che hanno la stessa forza della legge. Questo atto, al pari del decreto legge che commenteremo quando tratteremo dell’articolo 77 della Costituzione, deroga alla rigida divisione dei poteri, che inibirebbe l’esecutivo a compiere atti equiparabili a leggi. Fare norme dovrebbe essere solo competenza del Parlamento. La funzione legislativa delegata al governo è legittimata da un’apposita norma parlamentare che si chiama legge delega. La delega al governo non può essere approvata con procedimento decentrato, non può essere approvata in commissione, ma deve essere dibattuta e votata nell’aula sia di Montecitorio sia di Palazzo Madama. Non può essere istituita per decreto legge, cioè attraverso l’atto legislativo del governo che istituisce norme per regolamentare situazioni di emergenza, atto che in seguito sarà ratificato entro e non oltre sessanta giorni da un voto delle Camere. Questo è per garantire che una delega non avvenga senza il controllo dell’autorità assembleare. Il governo, se avesse il potere di autorizzare se stesso, attraverso un decreto legge, a compiere decreti legislativi, scavalcherebbe le assemblee. La delega al governo deve essere chiara e ben circoscritta. Il testo delegante deve essere scritto in modo da rendere ben chiare le finalità a cui il governo deve tendere al momento di stendere su pergamena  il decreto legge. Non ci può essere una vaga delega a normare su una materia giuridica. Le finalità dell’atto devono essere ben chiare e già definite dal Parlamento. Solitamente le leggi delega sono utilizzate per ordinare una specifica materia. L’esecutivo, in questo caso, non è chiamato a novellare, a fare nuove leggi. Ha il compito di riordinare un particolare settore legislativo, scrivendo in un unico corpo giuridico, in un unico testo, una serie di norme. È un atto volto a riordinare una legislazione che spesso è frutto di un accumulo di leggi emanate in più di centocinquanta anni di storia della nostra nazione. Questo atto, apparentemente meramente ordinativo, è importantissimo e potenzialmente fonte innovativa del diritto. Un Testo Unico può rinnovare nei fatti un istituto, scegliendo di espellere alcune norme e non altre dal corpo giuridico italiano. Può, attraverso il mero riordinamento in articoli, mutare il senso stesso delle leggi. Per questo motivo è bene che il parlamento e il presidente della repubblica, chiamato a controfirmare i decreti legislativi, veglino sugli atti delegati al governo. Se un decreto legislativo viola i criteri di delegazione è da ritenere incostituzionale. La norma in questo caso può essere contestata e portata al giudizio della Consulta, che dichiarerà l’incostuzionalità del testo emanato dal governo se constaterà “eccesso di delega”, se cioè l’esecutivo ha effettivamente compiuto un atto normativo che esorbita dai paletti imposti dalla legge delega. Ovviamente il ricordo alla Consulta avviene quando una norma è già entrata in vigore. Ben può avvenire che il Presidente della Repubblica rifiuti di controfirmare l’atto legislativo, censurando il governo e imponendogli di mutare il testo, in conformità alla delega ricevuta, ancor prima che entri in vigore. Il parlamento stesso o una sola delle due camere potrebbero censurare l’azione dell’esecutivo con una mozione che ricordi le motivazioni e le finalità con cui è stata affidata la delega, invitando l’organo di governo ad attenervisi.

Scritto da Gianfranco Pellecchia