Il mondo in cui si sono evoluti i social media è riassunto nel passaggio dalla fotografia al selfie: ciascuno vuole anzitutto l'immagine riflessa di se stesso. L'obbiettivo non è rivolto verso il mondo esterno ma verso l'utente, in un'autoconfessione permanente, in cui esterno quello che sento, minuto per minuto. A Facebook affidiamo la cronaca delle nostre emozioni, non un resoconto oggettivo. Tra l'altro, questa deriva ha contagiato anche i media tradizionali che ormai sono invasi da confessioni, autobiografie. La TV Vice ne è un esempio: perfino i suoi inviati sul fronte di guerra raccontano conflitti lontani attraverso le loro emozioni personali. La comunicazione del vittimismo ha un senso se viene da minoranze veramente oppresse. Ma nell'America di Trump è la maggioranza bianca, il ceto medio benpensante, ad avere copiato le tattiche delle minoranze per descriversi come vittima, bisognosa di protezione di fronte agli immigrati: e così il linguaggio del vittimismo è diventato generale. Abbiamo di fronte ai nostri occhi ciò che succede quando in una democrazia tutti pretendono di essere minoranze oppresse.
(Mark Thompson, direttore del New York Time, parlando del suo ultimo libro "La fine del dibattito pubblico")
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