domenica 28 febbraio 2021

ULISSE

 


MA MISI ME PER L’ALTO MARE APERTO

Questo anno è il settecentesimo dalla morte di Dante Alighieri. Il Sommo Poeta italiano che ha scritto la Divina Commedia. Io sono sempre rimasto affascinato dalla sua immane opera poetica, come è avvenuto per i tantissimi che hanno avuto la fortuna di leggerlo, la quasi totalità dell’umanità. Mi sovviene in mente uno dei passi della Divina Commedia più conosciuti. Sto parlando del XXVI Canto dell’inferno in cui il vate fiorentino canta della sorte di Ulisse e Diomede, avvolti in una comune fiamma punitrice perché consiglieri fraudolenti, insomma degli imbroglioni capaci di portare interi popoli al disastro grazie alle loro doti dialettiche affabulanti.

Ma la grandezza di Ulisse non è nella sua capacità di imbrogliare il prossimo. Certo senza la sua astuzia non avrebbe sottratto ad Aiace, il più forte degli eroi greci dopo il Pelide, l’armatura di Achille, morto. Certo non avrebbe sottomesso Troia con il trucco del Cavallo di Legno. Ma non è la furbizia l’esplicazione della valenza intellettuale di Ulisse. È la curiosità. È la voglia di sapere. È la sete di conoscenza. È questo che rende il re di Itaca un eroe universale. Dante lo sa bene. Ecco perché lo condanna all’inferno per la sua fellonia, ma gli fa raccontare dell’ultimo viaggio che ha compiuto, quello oltre le Colonne d’Ercole (l’attuale Gibilterra), appunto, per l’alto mare aperto.

Ecco allora cosa rappresenta nella coscienza dell’uomo “l’alto mare aperto”, è la sete di sapere, la sete di oltrepassare i limiti che apparentemente segnano la vita dell’umanità alla disperata conoscenza dell’intero senso della vita e dell’universo. Ecco perché Dante racconta di come Ulisse scelse di abbandonare la sua amata isola e la sua devota sposa Penelope, pur raggiunta con un viaggio spossante e con una serie di lutti e morti. Ulisse non si accontenta di ritornare a casa. Non si accontenta di avere il giusto riposo del guerriero. Vuole essere lo scienziato, l’esploratore, che non dismette mai la propria veste di ricercatore del vero, ma attraversa le tempeste e le procelle, per vedere ciò che uomo prima di lui non ha mai visto.

Ecco perché Ulisse arriva, secondo Dante Alighieri, a vedere finanche il Purgatorio, la enorme montagna che si trova al centro dell’oceano e che ospita le anime che espiano le proprie colpe per poi salire al cospetto del Creatore. Ulisse lo fa attraverso l’intelletto umano e non grazie all’illuminazione che procura la fede. Perciò fallisce. Perciò è condannato a non farsi testimone al mondo di ciò che ha visto, a differenza del vate fiorentino, che racconterà la sua visione oltremondana attraverso la Commedia, e riuscirà a parlare anche di Ulisse. Però Dante tributa ad Ulisse un riconoscimento di superiore intelletto. La sua sete di conoscenza deve essere osannata come eterno esempio della radicale risolutezza umana a ricercare il Vero. Questa bramosia di conoscenza è ciò che ci spinge “nell’alto mare aperto”. Ciò che ci rende eroi senza macchia. Ciò che ci rende servi al servizio della nostra stessa progenie. Ognuno di noi deve essere pronto a tutto per sapere. Ognuno di noi deve avere lo stesso spirito di Ulisse, che non indietreggia davanti alle difficoltà e ai pericoli, pur di accendere un faro davanti a ciò che prima del suo intervento era oscuro.

Allora andiamo anche noi nell’alto mare aperto. Cerchiamo il senso della nostra esistenza abbeverando la nostra bramosia di conoscenza. Io non sono uno scienziato, non sono un letterato, non so scrivere (lo si vede), ma anche io vorrei cercare l’assoluto, l’Essere, esattamente come Ulisse. Vorrei sfidare le procelle del destino. Guardare le stelle e trovare la rotta del giusto. Forse non sono in grado di farlo. Forse non sono nemmeno in grado di prendere la nave della ricerca, come invece ha fatto Ulisse assieme ai tanti che si sono distinti per il loro studio. Ma vorrei essere parte di quel sogno di grandezza che ci fa essere umani.

domenica 21 febbraio 2021

BASTA INSULTI CONTRO L'ONOREVOLE MELONI


 

CON GIORGIA

Ci lasciano l’amaro in bocca le parole, gli insulti, del professor Giovanni Gozzoni all’onorevole Giorgia Meloni. Il docente dell’università di Siena ha definito l’onorevole con parole irripetibili davanti a milioni di spettatori durante una trasmissione televisiva. Basta non se ne può più di insulti sessisti alle donne. La dottoressa Meloni è solo l’ultima vittima selle ingiurie sessiste che le donne subiscono, ricordiamo gli orribili insulti a Laura Boldrini, ex presidente della Camera dei Deputati, o alla senatrice Liliana Segre.

Quello che sgomenta è proprio l’utilizzo di insulti verso una donna che è stato e continua ad essere il simbolo stesso della cosiddetta seconda repubblica. Si perché Giorgia Meloni inizia a lavorare per il popolo nel 1991, quando cade l’URRS per intenderci, aderendo e dirigendo, prima donna, il Fronte della Gioventù, il movimento giovanile del Movimento Sociale. La sua intelligenza e bravura porta l’allora presidente del Movimento, Gianfranco Fini, a designarla come responsabile delle politiche sociali del partito. Poi c’è l’incontro. Silvio Berlusconi conosce e ammira le sue capacità dialettiche e la sceglie come Ministro della Gioventù, siamo nel 2008. Giorgia Meloni diventa il più giovane ministro della Repubblica Italiana. Anche questa volta Silvio Berlusconi ha dimostrato di avere la vista lunga, di saper scegliere. Giorgia Meloni è protagonista di quei tempi di egemonia di destra capace di gestire i grandi eventi, ricordiamo il g8 di Genova, e i terribili fatti di cronaca, il terribile terremoto in Abruzzo. Ricordiamo che la Meloni nutre fin da allora una profonda stima per Guido Bertolaso, il gestore delle emergenze per conto di Berlusconi, tanto da volerlo, assieme agli altri esponenti della destra, candidato sindaco di Roma nel 2018.

L’onorevole Meloni è stata l’unica inviata alla convention del partito Repubblicano Statunitense ai tempi di Donald Trump presidente. È insomma la persona più influente che l’Italia moderata ha dal punto di vista del palcoscenico internazionale, dopo che Silvio Berlusconi ha scelto di farsi da parte.

Giorgia Meloni ha fondato un partito nel 2012  assieme ad altri volti storici della desta, ad esempio Ignazio Larussa e Guido Crosseto, Fratelli d’Italia che i sondaggi danno in grande ascesa, fino al punto da poter scalzare il Partito Democratico da secondo partito e rimanendo dietro solo al grande alleato: La Lega.

Alla luce di questa brillante e ultradecennale carriera appare indecoroso l’insulto di Gozzoni. Nessuna donna deve essere vilipesa, sia chiaro. Ma ancor di più non si deve toccare una signora, quale Giorgia Meloni, che per decenni è stata la politica italiana e si appresta a rimanervi per altrettanti anni. Le donne non si insultano mai.


venerdì 19 febbraio 2021

RAPPORTI DI FORZA

 

UN GOVERNO, MA DI CHI?

Guardando l’esito della votazione della “fiducia” al novello governo presieduto da Mario Draghi, il centro destra è fondamentale per la maggioranza parlamentare su cui si fonda. In senato il dissenso di una folta schiera di eletti dal Movimento Cinque Stelle, ha reso indispensabile il voto dei partiti guidati da Matteo Salvini e Silvio B
erlusconi. Ministro della funzione pubblica è Renato Brunetta, il simbolo di quella destra che vuole cambiare il paese. Guido Bertolaso è il motore oggi del rilancio sanitario della regione Lombardia. Tutti ricordano i suoi successi all’inizio della pandemia nella primavera scorsa. Mentre le terre lombarde erano scosse dal virus, il suo ospedale alla fiera di Milano era lindo, pulito, privo di affollamento. Era quello il modello. Era la linea da percorrere. Allora il governo dovrebbe prendere esempio dalla destra. Dovrebbe avere il coraggio di rimettere le lancette indietro, esattamente come sta facendo oggi Attilio Fontana presidente della Lombardia affidando il controllo dell’emergenza sanitaria a persone come la dottoressa Letizia Moratti e il dottor Guido Bertolaso. Il modello centro destra, con la leadership sicura di Silvio Berlusconi e Matteo Salvini,può essere la strada vincente. Il modello è li da prendere ad esempio, riuscirà Mario Draghi a farsi proficuo emulatore dei successi della Lega e di Forza Italia? Staremo a vedere. È il momento che la destra entri in campo. Che metta a disposizione le sue menti migliori. Il pensiero è a Denis Verdini, oggi chiamato first suocero scherzosamente dal popolo leghista, perché sua figlia è la compagna del Capitano. Ma non scordiamo il passato illustre di Danis Verdini, al fianco di Silvio Berlusconi nei momenti decisivi della storia del centro destra. Denis Verdini assieme a Giorgia Meloni, anche essa nella squadra dei governi di Silvio Berlusconi, sapranno dare all’attuale centro destra lo stesso slancio che hanno contribuito a dare al centro destra del passato. Ecco la sfida da intraprendere, il governo Draghi deve essere testa di ponte a una nuova maggioranza di destra che saprà riportare ai tempi belli nei quali, poco prima dei fatti di Wall Streat del 2008, Silvio Berlusconi diceva “l’Italia è il paese che cresce di più”

domenica 14 febbraio 2021

IL SANTO DEGLI INNAMORATI

 

SAN VALENTINO

San Valentino nacque a Nahars, l’attuale Terni. Venne al mondo nel 176 Dopo Cristo. Era il rampollo di una nobile famiglia romana di provincia. Possedeva un tenore di vita sostanzialmente da benestante.

Da Cittadino Romano fece la scelta, allora radicale, di convertirsi al Cristianesimo. La sua caratura etica, la sua cultura lo fece diventare repentinamente Vescovo della comunità locale dei credenti in Gesù. Questa sua posizione di preminenza nell’ambito ecclesiale lo fece entrare in contrasto con l’autorità imperiale romana. L’imperatore Claudio II detto il gotico, tale appellativo lo conquistò combattendo aspramente con l’omonima popolazione germanica, gli impose di abiurare alla sua fede. Valentino rifiuto. La somma autorità imperiale, però, non  lo fece giustiziare. Diamo che lo “graziò”, affidandolo alla tutela, quasi fosse un non emancipato, di una nobile famiglia romana.

San Valentino, in realtà, continuò indefessamente la sua missione di guida spirituale e sociale della comunità dei fedeli di Terni. Si distinse per le sue predicazioni, animate e sostenute, volte a rendere diffuso il Vangelo, la lieta novella che Dio ha dato agli uomini attraverso suo figlio Gesù.

Bisogna dire che Valentino continuò per lungo tempo la sua missione di fede. Fino al 273 Dopo Cristo. In un inverno duro e implacabile Valentino fece l’atto fatale. Decise di disubbidire platealmente a un ordine imperiale. Sposò due persone perdutamente innamorate l’una dell’altra. Erano la giovane, bella e soprattutto, cristiana Serapia e il legionario romano Sabino. La giovine era gravemente malata. Per questo motivo si decisero di celebrare le nozze cristiane alla svelta. Secondo la tradizione i due nubendi sarebbero morti insieme, l’uno nelle braccia dell’altro, proprio mentre Valentino benediceva la loro unione eterna. Ovviamente non sapremo mai, vista la pochezza dei documenti contrapposta alla numerosa ageografia posteriore, la verità dei fatti. Quello che è certo è che Valentino per tale atto fu condannato a morte dall’imperatore romano Aureliano, che era succeduto a Claudio II.

L’atto d’eroismo di Valentino, che affrontò la morte per tutelare l’amore eterno di Serapia e Sabino, consacro il martire a protettore dei fidanzati e degli sposati e in generale al protettore dell’amore fra uomo e donna. Ogni anno, il 14/02, tutti i legati da un sentimento di affetto, si sento di porre un omaggio di devozione al santo che è diventato loro patrono. Festeggiare San Valentino vuol dire festeggiare l’amore nella sua ineffabile essenza che il donarsi gratuitamente all’altro. Ogni anno le giovani e le meno giovani coppie rinnovano il loro giuramento di fedeltà in nome del Santo. Il martirio di Valentino, giustiziato sulla via Appia, è epifania del valore assoluto che è nell’amore.

Difficile non abbinare, oggi, San Valentino ai riti dell’amore, ai Baci Perugina, ai bacetti e alle cene, quando si poteva, di amanti. Ma ricordiamo che San Valentino fu un difensore strenuo dei principi Cristiani quando professarli poteva portare alla morte. Per parafrasare, scusate l’ardire, una canzone di Fabrizio De Andrè, l’amor sacro e l’amor profano trovano in San Valentino la tanto ricercata riconciliazione.

giovedì 11 febbraio 2021

AMOR CH'AL COR GENTIL RATTO S'APPRENDE


 

AMOR CHE A NULLO AMATO

Il canto V dell’inferno, scritto da Dante Alighieri, racconta al lettore della struggente e dannata storia di amore fra Paolo e Francesca. Francesca era figlia di Guido da Polenta, signore di Ravenna a cavallo fra i secoli XIII e XIV. Paolo è il fratello di Giacomo Malatesta, il reggitore di Rimini in quegli stessi anni. Francesca era stata promessa sposa dal padre Guido a Giacomo. Il matrimonio doveva suggellare l’alleanza fra le
due potentissime signorie italiane. Ma il destino e il cuore aveva voluto che Paolo e Francesca si innamorassero perdutamente. Il matrimonio fra Paolo e Guido comunque si celebro. Come comunque visse, perdutamente consumata, la storia d’amore fra Paolo e Francesca. Il marito della giovine, scoperta la leason adulterina, uccise brutalmente e ferinamente i due.

Dante, accompagnato dalla sua guida Virgilio, incontra le due anime frementi, quelle di paolo e Francesca, ne secondo cerchio dell’Inferno, quello ove sono puntiti i lussuriosi. I dannati che hanno perso la luce di Dio perché inebriati dalla voluttà della carne, sono puniti sbattuti da un vento feroce e distruttivo. Come da vivi non sono riusciti a sfuggire alla forza naturale della sessualità e della sensualità, non riuscendo a contenersi, dopo la morte sono ancora oggetto della violenza della natura, in questo frangente non quella propria, ma quella naturale. Un vento tremendo li sbatte gli uni contro l’altro, incontrollabile come non fu controllata la loro passionalità nella loro stagione mortale. Fra i condannati a questo tormento c’è Didone, la fondatrice di Cartagine che amò insanamente Enea fino al punto di morire suicida e di porre le basi di inimicizia fra Cartagine, la sua città, e Roma, di cui Enea fu il progenitore. C’è anche la perfida Semiramide, che aveva fondato il suo potere sul regno assiro babilonese non solo sull’inganno ma anche sulla seduzione e la perdizione sessuale. Ma Il cuore del Canto V, il fulcro del racconto sui lussuriosi scritto da Dante, è la perduta vita di Paolo e di Francesca. Francesca parla al poeta. Gli racconta la loro triste storia. Dice come prima cosa al pellegrino di Firenze: O animal (essere vivente) grazioso e benigno.. se fosse (a noi due, Paolo e Francesca) il re dell’universo, noi pregheremmo per la tua pace. Nobili parole che appaiono contraddittorie con lo stato di condanna eterna di Francesca. Insomma paolo e Francesca sono esseri nobili, che hanno perso la propria salvezza perché non hanno saputo trasformare il loro sentimento in simulacro dell’amore divino, ma si sono lasciati trasportare dai sensi.

Siamo a uno dei temi cruciali non solo della dialettica dantesca, ma anche della Teologia Cristiana. Il dato che un sommo bene, l’amore, possa condurre due anime belle, Paolo e Francesca, verso la vertigine vergognosa della condanna eterna. È un dato incontestabile che strugge il cuore del Poeta. Anche lui ama, ama Beatrice, come può pensare che un tale sentimento che riesce ad innalzare l’uomo e la donna alle sublimi soavità della poesia, possa essere strumento di dannazione eterna? “Amor che a nullo amato, amor perdona”, spiega Francesca al poeta è la causa per cui lei e Paolo si sono lasciati cadere nella perdizione della sensualità. Ma veramente non c’è scampo? L’amore conduce necessariamente al peccato? Dante non lo crede affatto. Ha come punto di riferimento la sua Beatrice, che non la condotto alla perdizione, ma al contrario lo sta portando, attraverso il cammino dell’oltretomba, alla contemplazione di Dio. Allora Dante piange e sviene, commuovendosi per la struggente storia d’amore di Paolo e Francesca. Piange per la loro struggente fine, assassinati dal fratello e marito Guido, a cui spetta la Caina cerchia, ove sono puniti gli assassini dei propri consanguinei, uno dei luoghi più orrendi e in cui vi sono le anime più nere dell’oltretomba disegnato e pensato da Dante. L’Alighieri non contemplava il delitto d’onore fra le cause di attenuazione di pena, cosa che purtroppo invece era nel Codice Penale Italiano fino a pochissimi decenni fa.

Ma il tema del canto V dell’inferno non è l’omicidio ferale. Il tema è l’amor cortese. Sono gli scritti su Lancillotto e Ginevra, che Paolo e Francesca leggevano assieme avidamente. È la passione che diventa letteratura. È il racconto di come un sentimento fra uomo e donna, possa diventare poesia e bellezza e incantare i cuori di chi legge e di chi scrive. È il racconto di come la letteratura possa essere galeotta, ricordiamo che Galeotto era colui che fece conoscere all’amore Lancillotto e Ginevra. Galeotto fu quel libro e chi lo scrisse, dice Francesca a Dante dichiarando così che la letteratura cortese aveva fatto perdura temente innamorare lei e il suo Paolo. È il dato oggettivo, che Dante costata, la letteratura e la poetica può portare sia alla somma beatitudine sia alla somma perdizione. Come poter ovviare ai pericoli che il leggere comporta? Come cercare la soavità della salvezza e non la bellezza della perdizione? Come evitare che la letteratura sia “Galeotta”. La risposta è nella Divina Commedia stessa. Dante ha colto il meglio della letteratura eterna, incarnata da Virgilio. La sua Beatrice ha scelto per lui una guida sicura, che non lo condurrà alla perdizione, ma alla salvezza. Insomma la letteratura, qualsiasi testo, non va censurato ma saputo leggere nell’ottica di salvezza che Dio ha offerto all’intera umanità. Per fare un esempio biblico la donna elevata ad esempio non deve essere Eva, ma Maria, madre di Gesù. Nella letteratura il modello positivo non è Didone, amante non ricambiata di Enea, ma è Lavinia, la sua sposa dalla quale ebbe la progenie che posero le basi per costruire i gloriosi destini di Roma. Lo stesso vale per gli uomini, non deve essere esaltata la lascivia di Alessandro o di Ciro o di Antonio, ma la probità di Augusto. Anche se Dante ha comunque un profondo senso di compassione per coloro che si sono lasciati perdere dalla soavità dei sensi, ma soprattutto dall’amore. Non è un caso che Francesca e Paolo, pur dannati per sempre, sono fra le figure più commoventi e belle della Divina Commedia.

Noi dopo secoli abbiamo difficoltà a condannare in maniera assoluta Paolo e Francesca, come invece fa Dante Alighieri. Abbiano sotto gli occhi, nel quotidiano, immagini di persone che si perdono e si ritrovano. Si innamorano e si disinnamorano. È difficile per noi concepire che questo loro battere il cuore, sia strumento di perdizione eterna. Ma è così, ed è ancor oggi, per la religione e la sensibilità cristiana. Farci i conti vuol dire confrontarsi con quello che è per noi l’epifania dei valori portanti del nostro essere. Innamorarsi di un altro o di un’altra che non sia il proprio marito o moglie è peccato, lo rimarrà per sempre per la cultura e la teologia cristiana, anche se non è più elemento di condanna statuale, come, posso aggiungere purtroppo (?), ma si lo aggiungo con convinzione, lo è in alcuni paesi di religione musulmana, ma anche cristiana.  Lo stato deve essere laico. Cioè deve distinguere fra reato, atto tremendo che offende l’altro e la società, e il peccato, atto che può e deve essere censurato solo dalla propria coscienza indirizzata da principi etici, legittimi e giusti, ma estranei all’ordinamento statuale. Allora coraggio. L’adulterio è peccato, forse conduce all’inferno o, forse, il Dio buono lo perdona, non lo sapremo mai. Ma non può e non deve essere strumento per condurre alla condanna statuale e sociale. Questo è una promessa che dobbiamo farci, noi cittadini del XXI secolo che rifiutiamo di giudicare il nostro prossimo in base alle “corna” (scusate il termine) che fa o riceve dal proprio coniuge. Ne risponderà prima di tutto alla propria coscienza, alla propria/o partner e, se ha fede, a Dio.

PARLANDO DI COSTITUZIONE

 


ARTICOLO 97 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

“I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione.

Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari.

Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”.

La seconda sezione del titolo terzo della seconda parte della Costituzione è composta da soli due articoli. Sono l’articolo novantasette e l’articolo novantotto. Ambedue regolano e disciplinano il funzionamento della pubblica amministrazione. Dettano le regole generali di buona e corretta conduzione della cosa pubblica. Ricordiamo che già l’articolo 57 secondo comma della Costituzione afferma solennemente che è compito inderogabile di coloro che hanno funzioni pubbliche adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge. Ricordiamo che i ministri del governo sono chiamati a giurare nelle mani del Presidente della Repubblica al momento di entrare nell’esercizio delle loro funzioni. Insomma i pubblici funzionari, impiegati della pubblica amministrazione o esponenti della politica, sono chiamati a compiere le loro mansioni pubbliche non solo rispettando le leggi e dimostrandosi buoni e onesti cittadini, compito che spetta a tutti noi, ma anche di avere quel senso alto dello stato, quella coscienza del proprio ruolo, che li porta ad essere integerrimi, trasparenti nel loro agire e con un assoluto senso di servizio nei confronti della nazione e degli italiani. L’articolo 97 impone che gli uffici pubblici siano organizzati per legge. La norma deve essere colei che detta il funzionamento della pubblica amministrazione. Non deve essere il capriccio del funzionario, l’ordine del politico amministratore o del dirigente a dettare il funzionamento della cosa pubblica. Lo stato deve far funzionare il suo apparato in base a criteri normativi che hanno forza di legge e valgono per tutti e in ogni tempo. L’obbiettivo è garantire l’imparzialità della Pubblica Amministrazione. L’utente deve essere garantito. Chiunque abbia bisogno dei servizi della Pubblica Amministrazione, tutti noi, deve essere trattato con la stessa attenzione e professionalità, a prescindere se sia miliardario o nullatenente. I pubblici uffici devono funzionare. Bisogna che sia garantito il buon andamento dell’amministrazione. Questi principi di efficienza e di imparzialità sembrano lontani dalla realtà italiana, fatta di scandali e privilegi. Le inchieste giudiziarie hanno fatto luce su una serie di malvessazioni che hanno visto protagonista proprio la Pubblica Amministrazione. Bisogna cambiare. Bisogna riscoprire il senso della legalità. Bisogna che i pubblici amministratori siano animati da senso d’onestà. La legge, il senso dello stato, deve essere la guida il faro che determina l’azione di ogni funzionario pubblico. Bisogna che siano fugati i dubbi sul comportamento dei ministri. Le ombre su Maria Elena Boschi, sottosegretario alla presidenza del consiglio, legate alla vicenda del crac della banca Etruria ci devono far pensare. È necessario che la politica faccia chiarezza. È necessario, ad esempio, che la Lega spieghi il perché di alcune operazioni finanziarie che hanno fatto “sparire” un’ingente quantità di denaro pubblico. Il Partito Democratico deve spiegare il proprio comportamento e quello dei propri dirigenti agli elettori, che l’hanno abbandonato a seguito degli scandali. La Lega e Forza Italia non hanno questo problema. Malgrado le inchieste a loro carico sono comunque la prima  coalizione del paese. Berlusconi e Salvini sono amati, nonostante le inchieste. Ma rimane il fatto che il comportamento dei loro partiti e dei politici che ne fanno parte è contrario ai principi costituzionali di legalità, bisogna fare i conti con questo dato di fatto. L’elezione alla presidenza del senato dell’avvocato Maria Elisabetta Casellati. Esimio avvocato e sottosegretario alla giustizia nei governi Berlusconi ne  è la manifestazione delle ambiguità che da sempre caratterizzano la destra berlusconiana. È stata  ispiratrice delle cosiddette leggi ad personam, le leggi che sono servite quale mezzo per risolvere i problemi giudiziari del cavaliere.

La soluzione a tutte le contraddizioni della nostra pubblica amministrazione è nel secondo comma dell’articolo 97. Le Pubbliche amministrazioni devono funzionare in modo che sia chiaro il ruolo e le funzioni dei singoli uffici. La razionalità del sistema burocratico è l’unica via d’uscita all’illegalità e al malfunzionamento. Ogni lavoratore della pubblica amministrazione deve avere un obbiettivo da compiere, non solo quello momentaneo di svolgere la mansione affidatagli al momento,ma quello da raggiungere nell’intero arco della sua vita lavorativa. Un Pubblico amministratore deve avere bene in mente il compito che lo stato gli ha dato fin dal momento della sua assunzione e compierlo con disciplina sapendo adattarsi alle inevitabili evoluzioni che il tempo e la storia procura. Le sfere di competenza devono essere chiare. Ogni ufficio pubblico deve occuparsi di un determinato ambito amministrativo. Il lavoro deve essere finalizzato a raggiungere l’obbiettivo che ci si era preposti istituendo questa branca della Pubblica Amministrazione. Importantissimo è che le responsabilità del singolo dipendente pubblico siano ben chiare. Gli obbiettivi da raggiungere e le modalità per farlo devono essere una strada certa e sicura. Se il dipendente o l’amministratore devia dal percorso deve essere redarguito e punito. Ma questo rispetto del percorso, come abbiamo detto stabilito per legge, non deve inibire la capacità innovativa e la creatività del singolo uomo o della singola donna. La risorsa umana, il pensiero e il lavoro del dipendente pubblico, devono essere un bene prezioso per la Repubblica, che deve saper far fruttare. Come? È la sfida della politica di oggi. Riformare la Pubblica Amministrazione vuol dire saperla liberare dagli orpelli burocratici che la fanno rigida e poco attenta ai bisogni della gente. Allo stesso tempo riuscire ad applicare con intransigenza i principi di eguaglianza e di non partigianeria che la rendano servitrice di tutti, ma allo stesso tempo impermeabile alla corruzione e alla volontà di favorire qualcuno. Chi sbaglia. Chi non serve lo stato con trasparenza e integrità morale deve pagare. I funzionari pubblici che commettono reati e si fanno corrompere devono essere puniti, devono essere espulsi dalle istituzioni, ovviamente rispettando il loro diritto alla difesa. Solo così l’Italia può superare la crisi. Espellendo dal suo seno i corrotti, sia che siano pubblici funzionari sia che siano rappresentanti infedeli dei cittadini, politici corrotti.

L’ultimo comma dell’articolo 97 spiega come si diventa pubblici impiegati. Si accede alla carica di pubblico amministratore per concorso. Questo è l’unico modo per garantire che tutti possano diventare impiegati pubblici, senza discriminazione di censo e status sociale. Senza che vi sia discriminazione di  genere. Donne e uomini devono liberamente aspirare a cariche pubbliche. Pensiamo che fino agli anni ’60 del secolo scorso, a una donna era preclusa la carriera di magistrato, per quasi vent’anni  si è senza vergogna violato l’articolo 3 della costituzione. L’unico discrimine deve essere la qualità personale, la competenza. Il concorso pubblico serve a garantire che sia funzionario dello stato colui che meglio di altri conosca la branca della pubblica amministrazione in cui sia impiegato. Deve sapere le norme in questione. Deve avere le conoscenze giuridiche, scientifiche e tecniche necessarie a svolgere la mansione. Pensiamo ai docenti universitari che devono essere altamente competenti e preparati nel loro settore. Ma anche agli impiegati dei ministeri economici o di quelli che sono rivolti alla salute sociale. È necessario che i loro dipendenti siano altamente preparati. La Costituzione prevede che la legge possa derogare al principio del concorso come strumento di selezione dei pubblici dipendenti. Questo deve essere un atto eccezionale. Dovuto a motivi ed esigenze specifiche. Ad esempio la statalizzazione, attraverso legge, di un ente privato può comportare l’ingresso nel rango della Pubblica Amministrazione dei dipendenti dello stesso. Oppure per garantire l’accesso nel mondo del lavoro a particolari categorie sociali svantaggiate. Anche se ad onor del vero si preferisce far accedere al lavoro disabili e categorie protette attraverso concorsi, garantendo loro un maggior punteggio in virtù del loro status, oppure lasciando per loro alcuni posti riservati comunque da conquistare attraverso prove d’ammissione. Insomma il principio di trasparenza e d’integrità morale deve essere la caratteristica dell’impiegato pubblico. Per diventare dipendente statale bisogna rispettare le leggi d’accesso e bisogna dimostrare di avere le capacità e le competenze adeguate al ruolo che bisogna svolgere. Anche coloro che per legge hanno una priorità nell’assunzione, si parla di orfani, di invalidi civili di membri dell’esercito in congedo devono dimostrare di essere all’altezza del compito da svolgere, pena la loro rinuncia al servizio. Insomma efficienza, trasparenza, rispetto delle leggi ed integrità morale dovrebbero essere i principi a base del funzionamento dell’intera organizzazione amministrativa dello stato. Su questo vigila il TAR, il tribunale amministrativo, che vigila sulla correttezza degli atti della pubblica amministrazione e sul buon funzionamento dei concorsi pubblici. Ogni atto amministrativo può essere sottoposto ai magistrati che devono garantirne la trasparenza e ove questa non c’è ove la legge non è stata rispettata l’atto della Pubblica Amministrazione deve essere annullato. Bisogna chela ricerca di legalità non rimanga solo un vago intento, ma si realizzi, per il bene di tutti e della nazione.

mercoledì 10 febbraio 2021

RICORDARE FIUME E DANTE

 



ALLA STATUA DI DANTE

Come ogni italiano sa il 10 febbraio 1947 gli abitanti di cultura italiana di Fiume abbandonarono la loro città natale, data alla nascete Repubblica di Jugoslavia. Tale drammatico esodo fu scaturito dagli accordi cosiddetti di Parigi che definirono i confini fra Italia e Jugoslavia. Fiume come parte della penisola istriana era data alla Jugoslavia. I cittadini italiani ovviamente lasciarono le loro case con dolore. Si organizzarono traghetti che condussero gli esuli nei porti italiani di Ancona e Venezia. Il dolore era grande, anche perché le voci, purtroppo confermate dallo studio storiografico successivo, di migliaia di innocenti fucilati e  gettati nelle foibe (fenomeni geologici carsici tipici della penisola istriana, che consistono in voragini, pozzi, naturali) erano terribili e diffuse.

Ma a questo contesto disperato, si affianca una nota di speranza. Gli Italiani si incontrarono, quel drammatico 10 febbraio 1947, in Piazza Dante di Fiume e si genuflessero in maniera unisona davanti alla statua del sommo poeta italiano. In questo anno in cui si ricorda il settecentesimo anniversario della morte dell’autore della Commedia e del Convivio, pensare a quei nostri compatrioti che si riconoscevano italiani perché accomunati dalla letteratura dantesca, ci fa vibrare fortemente il cuore.

Dante è la incarnazione dell’Italianità. Ormai chiunque, se italiano, visto che da decenni la scuola dell’obbligo è fino ai quattordici anni, oggi addirittura ai diciotto, sa non solo dell’esistenza di Dante, non solo delle sue opere, ma anche di concetti come “allegoria” o visione dei “due soli”. Sono termini che ormai fanno parte del linguaggio comune. Anche di quello di un ignorante come me. Ogni genitore lo trasmette con rispetto e dedizione ai propri piccoli. È un scrigno di ricchezza culturale che appartiene ad ogni italiano. Allora alla luce di questo dato inconfutabile, appare chiaro il perché quei fiumani, che dovettero abbandonare la propria amata cittadina, trovarono nel ricordo e nella devozione a Dante  la loro stessa ragione di essere. Dante è l’Italia. Dante è l’amore verso il comune destino nazionale.

Ora probabilmente, nel 2021, la maggioranza di quei cittadini di Fiume che nel 1947 lasciarono la loro città incalzati dall’arrembante avvicinarsi delle milizie di Tito, il capo dell’allora nascente Repubblica di Jugoslavia, sono volati in cielo. Ci sono, anche se pochi, i sopravvissuti ci sono, tanti, i loro discendenti. È a loro che va il nostro pensiero. Noi siamo fratelli, tutti, non solo perché viviamo in suolo patrio, ma anche, e soprattutto, perché abbiamo una comune cultura che ci rende fratelli. Noi siamo italiani perché leggiamo il Decameron di Boccaccio, le rime di Petrarca, le tante opere di Dante. Noi crediamo che il nostro paese potrà avere un destino ridente, perché ha avuto un passato fatto di padri. Fiume forse non tornerà mai all’Italia, ma chi lo sa. Quello che è certo è che abbiamo un destino di libertà e di unione che ci accomuna. Spetta a tutti noi riconoscerlo, per continuare l’opera di edificazione nazionale. Il territorio è un elemento fondante dello stato, di qualsiasi stato. Lo dicono tutti i testi di diritto pubblico. Ma quello che conta veramente è l’anima, l’anima che riposa nel ricordo comune dei letterati del nostro passato che stimolano la spinta a scrivere degli autori di oggi. Fiume, persa all’Italia, è una ferita. I lutti, le morte innocenti nelle Foibe, sono una squarcio dell’anima dell’intera collettività. Quei martiri della guerra, quelle vittime uccise dalla violenza del secondo conflitto mondiale al pari di altre decine di milioni di innocenti, vanno ricordati. Mai più deve succedere. Ma allo stesso tempo il gesto di inchinarsi davanti alla bellezza della letteratura, come hanno fatto gli esuli fiumani il 10/02/1947, ci deve spingere a credere che la bellezza, l’arte, ci salverà, e saremo salvati non solo noi italiani, ma tutta l’umanità. Intanto questo giorno triste, questo 10 febbraio, dobbiamo e vogliamo ricordare chi non c’è più, chi è stato ucciso dalla furia titina e chi è stato costretto a lasciare le sue case per vivere. Un ricordo sentito.

martedì 9 febbraio 2021

RIFLESSIONI SFACCENDATE SUL SAPERE


 

LA RICERCA DI SAPERE

In questi giorni si sta discutendo animatamente su come uscire dalla crisi sociale, economica e sanitaria provocata dalla pandemia. Ovviamente la risposta più immediata è: aumentare i soldi alla sanità. Il morbo si può sconfiggere con un sistema sanitario efficiente e capillare. C’è bisogno di più medici, di più infermieri di più personale addetto alla cura delle persone in difficoltà. C’è poco da discute su questa affermazione.

Ma non basta fare, bisogna conoscere. Cioè una società per essere più inclusiva, più produttiva, più efficiente deve avere una popolazione con una base culturale solida. Perché? La risposta, a mio parere, è che prendersi cura degli altri non può essere un atto meccanico. Bisogna saper condividere passioni, emozioni e dolori. Bisogna saper costruire una prospettiva di futuro felice per tutti. Ecco perché la scuola è importante. Non solo per conoscere le nozioni di letteratura, di matematica, di scienze e di lingua straniera, ma anche per costruire un processo di inclusione che permetta di porre le fondamenta di una comunità nazionale che vibra di comuni sentimenti, che palpita per comuni passioni. Passioni e sentimenti positivi. Mi spiego. Non ha alcun senso costruire una comunità sociale fondata sull’odio e risentimento. Certo avviene! Ma quando insultiamo, quando ci poniamo in assoluto inascolto dell’altro viene a mancare la base di convivenza sociale.

Ecco perché la scuola, e in generale anche l’istruzione di più alto livello (penso all’università), deve portare quel modello inclusivo, plurale, quel senso di rispetto verso l’altro che nel nostro vivere quotidiano manca. Ecco a cosa dovrebbero servire i fondi UE diretti alla scuola. Per porre le basi di una istruzione, ovviamente, sicura anche dal punto di vista sanitario (non si va a scuola per contrarre il corona virus o altre malattie), ma anche per porre le basi di una società fondata sul sapere, sulla competenza e sulla possibilità di dialogare. Troppo spesso nella quotidianità è fatta di prese di posizione assolute, bisogna provare a fare una rivoluzione copernicana, capire che la dialettica dialogica è il fondamento della vita relazionale. Ci possiamo provare. Possiamo provare a cambiare il punto di vista teleologico che fonda la nostra quotidianità.

Bisogna che la scuola si attrezzi, già lo fa adeguatamente, ma non deve accontentarsi e puntare di più sui bimbi, su tutti i bimbi, per costruire un modello di insegnamento in cui nessuno sia escluso. Penso a modelli di inclusione nelle aule scolastiche, di bambini con disabilità. L’Italia è già modello mondiale di questo approccio all’insegnamento a bambini diversamente abili. Ma bisogna fare ancora di più. Perché crescere insieme, non solo fa bene alle persone speciali, il mio non vuole essere un eufemismo ma una forte convinzione, ma anche ai loro compagni che la scienza e la dialettica euristica, con tonalità forse non adeguate, chiama “normodotati”. Costruire una classe in cui tutti abbiano un ruolo nel cammino di conoscenza comune è una vittoria fondamentale per tutti. Lo stesso ragionamento vale per bimbi figli di genitori non di madre lingua italiana, le difficoltà di dialogo possono essere superate, ponendo il fondamento di un modello di istruzione nuovo e più efficace. La diversità pone le basi per una conoscenza non pedante e fondata sulla memorizzazione dei dati, ma basata sull’analisi della complessità dei fatti e delle tesi lette e studiate.

Insomma puntare sulla ricerca e sulla attività pedagogica può essere salutare come il prendersi cura dei degenti. La scuola è uno strumento fondamentale per difendersi. Per trovare uno scudo davanti alle dicerie, ai luoghi comuni, che oggi vendono denominati fake news, e così avere un’idea per comprendere pienamente la realtà che ci circonda. La scuola fa bene anche a noi adulti. I fantasmi che annebbiano la nostra mente possono essere dipanati ponendo orecchio alla ricerca euristica dei nostri figli, dei nostri piccoli. Cambiare la società è possibile mettendo al centro della vita socio culturale la scuola. Bisogna ripartire, bisogna riprendere a conoscere.

domenica 7 febbraio 2021

CAMMINO DI REDENZIONE

 


IL CAMMINO

Quest’anno ricorrono settecento anni dalla morte di Sante Alighieri. Il poeta fiorentino spirò a Ravenna nel settembre del 1321. Dante, lo sappiamo tutti, ha scritto il sommo poema in lingua italiana, la Divina Commedia. Cosa è la Divina Commedia? Il racconto in versi di un viaggio. Il grande menestrello fiorentino immagina il suo cammino attraverso i luoghi dell’oltretomba cristiano. Immagina di visitare l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. In questo viaggio incontra personaggi e persone di grande caratura intellettuale, morale, storica e caratteriale. I personaggi della Commedia sono di una levatura ideale ed estetica incomparabile.

Ma quello che mi preme sottolineare in questa breve scrittura è l’aspetto costante di tutte le tre cantiche, è il muoversi, il camminare. Dante nell’inferno procede verso il basso, fino ad incontrare il male assoluto, l’entità così addentra al peccato da perdere ogni individualità ontologia e a essere Male assoluto, cioè Lucifero. Dopo questo oscuro e terribile incontro, Dante, per grazia divina, rivede le stelle, ricordiamo lo straordinario ultimo verso della prima cantica. Da lì, finalmente osiamo dire, ricomincia a salire. Dante comincia ad attraversare, o meglio a scalare,  il Purgatorio, una enorme montagna che diventa la rappresentazione allegorica di una via crucis che tutta l’umanità deve intraprendere per trovare redenzione. Lì incontra uomini e donne di una dirittura etica e morale forte, ma che si sono fatti forviare da fugaci passioni perdendo, per un attimo fatale, l’amore di Dio. Ecco perché, ravvedute dal peccato, compiono un cammino di espiazione che li porterà a rivedere Dio. Possiamo dire che i protagonisti del Purgatorio siamo tutti noi che viviamo la vita mondana, tutti noi sbagliamo, tutti noi perdiamo la strada, tutti noi siamo come Dante persi nella selva oscura, ma come il poeta possiamo trovare la salvezza riconoscendo nell’etica e nel bene collettivo la nostra stessa ragione d’essere. Ecco i purganti, chi è del Purgatorio, letteralmente eliminano le brutture che hanno segnato la loro vita. Chi vi scrive è un ignorante appassionato (sarei io). Il suo riferimento, volgare, al purgante come liberatore delle vie intestinali è voluto. Come il nostro apparato rettale ci libera dalle impurità corporee, anche il purgatorio ha il compito di liberarci dall’impurità che incrostano le nostre anime. Insomma nel Purgatorio si cammina, si scala la montagna, per lasciare il fardello del peccato che ci è ostacolo nella contemplazione di Dio.

L’ultima cantica, il Paradiso, è l’esplicazione stessa dell’intero viaggio. Il pellegrino penitente, Dante, e anche noi che lo leggiamo, mondato dal peso della propria colpa si può issare, volare, verso la sommità del cielo, guidato da Beatrice che è la teologica che indica il sommo benne. Così può vedere l’empireo, può vedere i beati, i santi. Può vedere Maria, colei che è tanto splendida che il sommo fattore non disdegnò di farsi sua fattura. Scusate se parafraso maldestramente uno dei passi più belli ed ineffabili della Divina Commedia. Dopo aver visto la bellezza della beatitudine, Dante può addirittura vedere la causa della Santità, cioè Dio stesso, la cui luce infinita illumina i volti dei santi e delle sante.

Insomma la Divina Commedia è un cammino. È un avvicinarsi al senso vero ed ultimo della vita attraverso un viaggio. È un percorso di formazione del poeta, ma anche di tutti noi, per scoprire il senso profondo del suo /nostro essere umani. È un modo per conoscere i lati oscuri di noi stessi, l’Inferno, trovare gli strumenti per combatterli, Il Purgatorio, e trovare la felicità contemplativa del bene, il Paradiso. Ecco perché Dante Alighieri, a 700 anni dalla sua morte, non solo è un grandissimo poeta e intellettuale, ma è anche un maestro di vita, è una persona che ci può dire il senso ultimo delle cose e di noi stessi.

MARIO DRAGHI E I DESTINI DEL PAESE

 


SCEGLIERE

In questi giorni le sorti e i destini dell’Italia sembrano affidate alle robuste braccia di Mario Draghi. L’ex governatore della Banca Europea ha avuto l’incarico da parte del Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, di formare un nuovo governo. Oggi Draghi è chiamato a prendere decisioni, che se avranno l’avvallo del Parlamento, segneranno i destini di ognuno di noi. Il Presidente del Consiglio Incaricato sta conducendo un intenso dialogo con i rappresentanti delle forze politiche del paese. Sta incontrando la Lega, il partito che amministra le regioni che più seriamente sono rimaste colpite dalla perdurante tragedia della pandemia. I contatti con Matteo Salvini sono intensi. Ma ovviamente sono anche gli altri attori politici ad essere interpellati, il pensiero è al Partito Democratico, a Italia Viva, a Liberi e Uguali e, soprattutto, al Movimento di maggioranza relativa in parlamento: I Cinque Stelle. Bisogna fare in fretta. È tassativo trovare i numeri in parlamento per costruire un progetto di governance che permetta al paese di uscire dalle sacche prodotte dall’emergenza sanitaria ed economica.

Ecco è arrivato il momento di scegliere. Mario Draghi deve scegliere le politiche di un potenziale governo da lui guidato. Deve designare le persone che dovranno sedere nel suo Gabinetto. Dovrà individuare i ministri che il Presidente della Repubblica nominerà, ottemperando all’articolo 92, secondo comma, della Costituzione Italiana. Ma in questa fase di acuta crisi e di angoscia crescente i partiti e la politica sono chiamati ad assumersi un fardello di scelte e di responsabilità non indifferenti. È arrivato il tempo in cui è bene superare gli elementi divisivi, così ingombranti da inficiare ogni forma di dialogo fra le parti. È bene che tutti ed ognuno porti il suo contributo, espliciti le proprie idee, senza però che ciò gli impedisca l’ascolto delle  tesi altrui. Mario Draghi deve essere, non ci sono altre possibilità, l’uomo che è in grado di trovare una sintesi fra le diverse posizioni. È bene ad esempio che le richieste di democrazia diffusa e di partecipazione collettiva, che sono l’essenza stessa delle posizioni del Movimento Cinque Stelle, vengano ascoltate. Conciliare gli interessi economici pubblici e privati con un sistema inclusivo è possibile. Basta rileggere e studiare le elaborazioni euristiche sull’argomento che il compianto professore Stefano Rodotà ci ha lasciato nei suoi libri.

Rodotà ci ha insegnato che diritto ed economia non sono argomenti delle elite. Non sono materie che si studiano in polverose biblioteche ove pochi hanno accesso. Sono, non dico dovrebbero essere, ma sono elementi di dibattiti propri di tutti i cittadini. Quando parliamo di Corona Virus, di rischio di contagio, quando ricerchiamo le modalità per difenderci, parliamo dei nostri diritti (diritto alla salute ad esempio, contemplato nell’articolo  32 della Costituzione Italiana) e discutiamo di come farli valere. Dobbiamo esserne consapevoli. Ecco perché Mario Draghi deve includere nel suo programma di governo quella che viene chiamata, forzando il termine, democrazia diretta. Che è invece uno strumento partecipativo di tutta la popolazione alla scelta della politica che tuteli destini collettivi della nazione. Bisogna rompere la logica dell’elite quale piccola quota di cittadini che si arroccano davanti ai bisogni dei più. Ma è bene che l’elite sia, seguendo la visione di Antonio Gramsci sull’argomento, il volano che rende tutte la comunità delle persone protagonista dei propri destini. Insomma l’elite, il governo i partiti, non devono essere l’esplicazione degli interessi dei ricchi e dei privilegiati, ma devono essere la guida di un popolo che marcia verso un futuro, se non è possibile felice, almeno sereno. Ecco perché bisogna provare a dare fiducia a Mario Draghi, perché è il tempo che si abbia consapevolezza che o ci salviamo tutti o precipitiamo tutti. Allora Draghi non deve essere il tecnico sordo ai bisogni dei più. Deve essere l’orecchio che ascolta i bisogni di tutti, inevitabilmente poli formi, e ne deve trovare la sintesi. L’obbiettivo è che, per parafrasare una fondamentale frase di Hanna Arendt tanto cara a Stefano Rodotà, Tutti abbiano il “diritto di avere diritti”. Cioè che tutti siano parte di un concetto di stato che si fa comunità e che non lascia indietro nessuno. In questo momento storico prendersi allegoricamente tutti per mano, per evitare di cadere, è un bisogno oltre che un dovere. Mario Draghi è una speranza per il paese. Ma il fine non è e non può essere la nascita del suo governo. L’esecutivo Draghi, o al limite di qualche altro, deve avere come motore il cuore vibrate della comunità nazionale e lo scopo di regalare serenità e progresso al paese ed ad ognuno di noi.

lunedì 1 febbraio 2021

PARLANDO DI COSTITUZIONE

 


ARTICOLO 96 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

“Il Presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge Costituzionale”.


L’articolo 96 della Costituzione Italiana, novellato dalla Legge Costituzionale del 16 gennaio 1989, regolamenta le procedure volte a chiarire eventuali responsabilità penali dei singoli ministri. Prima della riforma dell’articolo 96, i titolari dei dicasteri erano giudicati per i loro crimini dalla Corte Costituzionale integrata da sedici membri tratti a sorte da un elenco di cittadini aventi i requisiti di eleggibilità a senatore, tale elenco è rinnovato ogni nove anni dal Parlamento riunito in seduta comune. Il procedimento era simile a quello previsto nel caso in cui il Presidente della Repubblica è accusato di Alto Tradimento della Patria o Attentato alla Costituzione, in base al dettame dell’articolo 90 della Costituzione. Non a caso l’elenco dei cittadini che integrano la Corte Costituzionale è ancora valido, il Parlamento si riunisce in seduta comune per compilarlo, proprio nell’eventualità che il Presidente della Repubblica possa essere incriminato. Oggi i ministri della Repubblica sono incriminati senza alcuna autorizzazione delle Camere se hanno commesso reati al di fuori delle loro funzioni. Il compito di metterli sotto inchiesta è della magistratura ordinaria, insomma i titolari dei dicasteri sono posti alla stessa stregua dei comuni cittadini. Questa scelta politica fu dovuta all’indignazione dei cittadini che chiedevano un agire più trasparente della politica e un metodo meno macchinoso per imputare i membri del governo se sospettati di crimini. A subire le conseguenze di tale scelta è stato Silvio Berlusconi. Ricordiamo che il capo di Forza Italia e della coalizione di destra, pur ricoprendo a lungo le vesti di Presidente del Consiglio, fu incriminato per reati di natura fiscale, per l’aver creato fondi neri all’estero e per aver fatto patti leonini. Tutti gesti che chi vota Lega e Forza Italia considera atti veniali e facilmente scusabili, ma che purtroppo fanno parte del codice penale italiano. Oggi, infatti, il 35% degli italiani, coloro che votano Forza Italia e Lega, certamente non applaudirebbero alla riforma del 1989. Ad onor del vero anche un ministro del governo di Romano Prodi, presidente del consiglio di sinistra, fu indagato per una vicenda di tangenti. Il governo cadde per lo scandalo, anche se alla fine i ministri indagati, Prodi compreso, furono scagionati. Nessuno a sinistra invocò leggi speciali, leggi che tutelano gli indagati, come invece chiesero Lega e Forza Italia. Insomma i ministri della Repubblica sono indagati, come tutti i cittadini, se commettono reati comuni. Sono perseguiti dalla giustizia ordinaria, previa autorizzazione della camera di cui fanno parte se parlamentari, oppure della Camera dei Deputati se non sono membri del parlamento, nel caso commettano reati nell’esercizio delle loro funzioni di Ministro della Repubblica. Bisogna annotare una cosa. In caso di reati si natura ministeriale. Se la procura costata che un membro del governo potrebbe essere coinvolto in una inchiesta, deve, attraverso il Procuratore della Repubblica, inviare la notitia criminis ad un collegio di tre magistrati, estratti a sorte ogni due anni nel distretto della procura. Tale collegio, se non ritiene la questione infondata e non archivia l’inchiesta, la trasmette al presidente della camera competente che sarà chiamata a dare l’autorizzazione a procedere con voto a maggioranza assoluta dei suoi membri. Bisogna notare che la legge del 7 aprile 2010 aveva introdotto il legittimo impedimento, cioè il diritto del Presidente del Consiglio e dei singoli Ministri di addurre inderogabili esigenze politiche che impediscano di comparire in udienza. Questa norma di fatto bloccava i processi, costringendo a rinviarli per impossibilità dell’imputato a presenziare. Questa norma è stata ritenuta parzialmente incostituzionale dalla sentenza della Consulta numero 23 del 2011, nella parte in cui dava assoluta discrezionalità al ministro nell’addurre eventuali impedimenti a presenziare al processo, poi la norma è stata abrogata dal referendum che si è tenuto nel 2012. Insomma l’articolo 96 della Costituzione è volto a moderare il giusto diritto alla giustizia con il bisogno che siano garantite le prerogative di sicurezza dell’esecutivo in nome della divisione dei poteri che vieta un’indebita ingerenza della politica sulla magistratura e viceversa. Il Ministro non deve essere perseguito penalmente quale ferma di persecuzione contro le proprie convinzioni e attività politiche. Allo stesso tempo non può e non deve utilizzare la propria carica per impedire che vi sia un processo a suo carico. È deprecabile l’azione di Lega e Forza Italia che, durante gli anni che sono stati al governo, hanno scritto ed emanato leggi volte solamente ad impedire inchiesti a carico di propri aderenti. Ricordiamo la norma denominata “processo breve”, che in realtà impediva di indagare su reati di corruzione. È bene ricordare che l’articolo 117 della Costituzione impone al magistrato di esercitare l’azione penale, a prescindere da chi sia l’imputato. Difendere ministri e presidenti del consiglio dal loro giusto processo è atto politicamente disdicevole, anche se a farlo sono forze che coalizzate hanno raggiunto alle ultime elezioni il 35% dei voti dimostrandosi prima forza del paese.

Bisogna aggiungere che in caso di richiesta d’arresto i ministri come i parlamentari possono essere messi in cattività dalla magistratura solo ed esclusivamente se tale grave atto processuale è avallato da voto parlamentare. Non è ammesso che un membro del governo sia privato della propria libertà senza l’avvallo assembleare.

La legge denominata Severino, dal nome del ministro della giustizia che l’ha presentata alle Camere le quali l’hanno approvata, prevede che in caso di condanna definitiva di un ministro o di un parlamentare questo decada dalla propria carica a seguito di un voto, che ha mero carattere di controllo di legittimità, da parte del ramo del parlamento di cui il reo fa parte. Al momento nessun ministro in carica è stato oggetto della nuova norma. Solo l’ex presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, è decaduto dalla carica di senatore a seguito di una vicenda legata a fondi neri ed evasione fiscale. Urge notare che la decadenza ha una durata di sette anni. Attualmente Silvio Berlusconi, libero cittadino perché ha espiato la pena, ma ineleggibile alla carica di parlamentare, è entrato al Quirinale quale componente della delegazione di Forza Italia che partecipa alle consultazioni per il nuovo governo. Al prossimo incontro si presenterà al fianco di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni quale esponente del centrodestra unito. Questo fa trasparire come ben poco appele abbiano le norme anticorruzione su un elettorato che comunque vota una coalizione politica in cui si promette che un incandidabile, perché condannato per reati fiscali.

 

 

PARLANDO DI COSTITUZIONE

                                                              

  


NOTE A MARGINE DELL’ARTICOLO 96 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

“il presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale.”

Questo articolo della Costituzione Italiana è uno dei più latori di tensione politica. I fatti di cronaca giudiziaria, ormai è noto, si intrecciano spesso con l’attività politica. L’ultimo ministro messo sotto processo è stato Matteo Salvini, che nell’esecutivo “Conte 1” rivestiva il ruolo di Ministro degli Interni.

Ricordiamo succintamente la vicenda. Nell’estate del 2019 c’erano diverse imbarcazioni precarie che partivano dall’Africa, trasportando persone che volevano raggiungere i lidi europei, in buona sostanza la Spagna, la Grecia e, soprattutto, l’Italia. Erano barche destinate a un tragico destino, il naufragio e il conseguente bilancio di tragici lutti. Per evitare il peggio, navi private, di organizzazioni umanitarie e perfino navi militari italiane issavano a bordo i naufraghi. Matteo Salvini, in veste di ministro degli interni, vietò l’attracco nei porti italiani di queste navi, perfino navi che facevano parte del corpo militare italiano.

La procura di Catania e di Palermo quella aprirono un fascicolo per “sequestro di persona”. Il tribunale dei ministri, l’organo giudiziario istituito in ogni mandamento per avviare l’iter in caso di coinvolgimento nell’inchiesta di organi apicali dello strato, dei due capoluoghi siciliani chiese l’autorizzazione a procedere al Senato, camera parlamentare di cui l’onorevole Salvino fa parte. La richiesta della procura di Palermo fu negata. Quella di Catania fu accolta, e il processo è oggi ancora in corso.

Difficile valutare la questione giuridica da parte mia. Spetta agli organi giudiziari giudicare, almeno nel caso di Catania. Mentre la questione giuridica di Palermo è stata chiusa dalla scelta del Senato della Repubblica di non concedere autorizzazione. Quello certo è che la vicenda l’epifania di uno scontro fra politica e magistratura. Non possiamo scordare che Salvini è solo l’ultimo ministro colpito dal provvedimento di autorizzazione a procedere. In anni passati anche Bettino Craxi, esponente del PSI, anche Silvio Berlusconi, anima della coalizione del centro destra, anche esponenti di sinistra, ad esempio Romano Prodi, furono colpiti da tale provvedimento. Come non ricordare Danis Verdini indagato dai magistrati toscani e simbolo della destra di sempre, prima collaboratore di Silvio Berlusconi e oggi parte integrante della famiglia di Matteo Salvini, che è fidanzato della figlia del grande consigliere della destra.

“Non ci faremo processare” è il grido di battaglia rivolto agli elettori dal segretario della lega. Matteo Salvini chiede solidarietà agli elettori non solo per sé ma anche per i tanti martiri della Lega. Difficile leggere compitamente la realtà. Difficile capire dove è il torto e dove è la ragione. Lo scontro fra giustizia e politica ormai si dipana nella storia Repubblicana. Gli episodi in cui la magistratura ha chiesto l’autorizzazione a procedere per ministri e parlamentari sono veramente tanti. Quello del processo “Open arms” è solo uno dei tanti ricordiamo solo che l’articolo 96 è stato modificato con legge costituzionale del 16 gennaio 1989, per rendere più facile l’azione giudiziaria. Prima per avere l’autorizzazione a procedere di un ministro della repubblica era necessari il pronunciamento del parlamento in seduta comune, esattamente come avviene se si dovesse mettere sotto accusa, come dicono in America l’impicment, il Presidente della Repubblica secondo i dettami dell’articolo 90, 2 comma, della Costituzione Italiana.

E’ bene ricordare che recentemente anche un altro ministro è stato coinvolto in una questione giudiziaria complessa. È il ministro Luca Lotti, attualmente deputato, coinvolto in una vertenza giudiziaria su fatti che sarebbero avvenuti quando svolgeva la funzione di responsabile del dicastero dello Sport sotto i governi di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. È bene dire che non si è, ancora, arrivati alla richiesta di autorizzazione a procedere. L’inchiesta è ancora aperta. Allo stato di cose i magistrati non sembra vogliano coinvolgere quale imputato l’ex ministro. Ma appare chiaro che la questione politica rimane. La questione è il rapporto dialettico, spesso di scontro, fra la politica e la magistratura. Ricordiamo che il ministro Lotti sarebbe legato da amicizia con il magistrato Luca Palamara, e questi è indagato per aver gestito in maniera impropria alcuni processi influenzandone gli esiti. Se ciò fosse vero, ovviamente, sarebbe un reato gravissimo. Insomma l’articolo 96 della Costituzione italiana deve diventare un’arma fondamentale per garantire l’integrità morale dei politici e della politica. Speriamo che così presto avvenga.                 

Capire cosa sia il meglio per il paese è complesso. Si intersecano questioni Istituzionali, giuridiche e politiche. Indagare un esponente, per giunta di spicco, della politica italiana ha senza dubbio ripercussioni anche nel quotidiano contendersi dell’egemonia elettorale. La Costituzione in ultima analisi si presenta come pietra d’inciampo. È l’esplicitazione di come sia necessario affrontare le questione, anche etiche e morali, senza tirarsi indietro dietro futili schermaglie giuridiche degne di un manzoniano Azzeccagarbugli. Bisogna aver ben chiaro che giudicare penalmente e civilmente l’operato di qualsiasi persona, tanto più di un esponente politico, non spetta né ai comuni cittadini, noi, né ai colleghi dell’indagato, ma solo e unicamente alla magistratura che è sottoposta solo e unicamente alla legge. La Camera, in ottemperanza al rispetto delle garanzie costituzionali, è chiamata solo e unicamente ad appurare se ci sia un Fumus pesecutionis, cioè se il procedimento giudiziario non sia posto su basi assolutamente infondate. Ma dirimere la questione spetta solo al tribunale.  

PARLANDO DI COSTITUZIONE

 

NOTE A MARGINE DELL’ARTICOLO 96 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

“il presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale.”

Questo
articolo della Costituzione Italiana è uno dei più latori di tensione politica. I fatti di cronaca giudiziaria, ormai è noto, si intrecciano spesso con l’attività politica. L’ultimo ministro messo sotto processo è stato Matteo Salvini, che nell’esecutivo “Conte 1” rivestiva il ruolo di Ministro degli Interni.

Ricordiamo succintamente la vicenda. Nell’estate del 2019 c’erano diverse imbarcazioni precarie che partivano dall’Africa, trasportando persone che volevano raggiungere i lidi europei, in buona sostanza la Spagna, la Grecia e, soprattutto, l’Italia. Erano barche destinate a un tragico destino, il naufragio e il conseguente bilancio di tragici lutti. Per evitare il peggio, navi private, di organizzazioni umanitarie e perfino navi militari italiane issavano a bordo i naufraghi. Matteo Salvini, in veste di ministro degli interni, vietò l’attracco nei porti italiani di queste navi, perfino navi che facevano parte del corpo militare italiano.

La procura di Catania e di Palermo quella aprirono un fascicolo per “sequestro di persona”. Il tribunale dei ministri, l’organo giudiziario istituito in ogni mandamento per avviare l’iter in caso di coinvolgimento nell’inchiesta di organi apicali dello strato, dei due capoluoghi siciliani chiese l’autorizzazione a procedere al Senato, camera parlamentare di cui l’onorevole Salvino fa parte. La richiesta della procura di Palermo fu negata. Quella di Catania fu accolta, e il processo è oggi ancora in corso.

Difficile valutare la questione giuridica da parte mia. Spetta agli organi giudiziari giudicare, almeno nel caso di Catania. Mentre la questione giuridica di Palermo è stata chiusa dalla scelta del Senato della Repubblica di non concedere autorizzazione. Quello certo è che la vicenda l’epifania di uno scontro fra politica e magistratura. Non possiamo scordare che Salvini è solo l’ultimo ministro colpito dal provvedimento di autorizzazione a procedere. In anni passati anche Bettino Craxi, esponente del PSI, anche Silvio Berlusconi, anima della coalizione del centro destra, anche esponenti di sinistra, ad esempio Romano Prodi, furono colpiti da tale provvedimento. Come non ricordare Danis Verdini indagato dai magistrati toscani e simbolo della destra di sempre, prima collaboratore di Silvio Berlusconi e oggi parte integrante della famiglia di Matteo Salvini, che è fidanzato della figlia del grande consigliere della destra.

“Non ci faremo processare” è il grido di battaglia rivolto agli elettori dal segretario della lega. Matteo Salvini chiede solidarietà agli elettori non solo per sé ma anche per i tanti martiri della Lega. Difficile leggere compitamente la realtà. Difficile capire dove è il torto e dove è la ragione. Lo scontro fra giustizia e politica ormai si dipana nella storia Repubblicana. Gli episodi in cui la magistratura ha chiesto l’autorizzazione a procedere per ministri e parlamentari sono veramente tanti. Quello del processo “Open arms” è solo uno dei tanti ricordiamo solo che l’articolo 96 è stato modificato con legge costituzionale del 16 gennaio 1989, per rendere più facile l’azione giudiziaria. Prima per avere l’autorizzazione a procedere di un ministro della repubblica era necessari il pronunciamento del parlamento in seduta comune, esattamente come avviene se si dovesse mettere sotto accusa, come dicono in America l’impicment, il Presidente della Repubblica secondo i dettami dell’articolo 90, 2 comma, della Costituzione Italiana.

Capire cosa sia il meglio per il paese è complesso. Si intersecano questioni Istituzionali, giuridiche e politiche. Indagare un esponente, per giunta di spicco, della politica italiana ha senza dubbio ripercussioni anche nel quotidiano contendersi dell’egemonia elettorale. La Costituzione in ultima analisi si presenta come pietra d’inciampo. È l’esplicitazione di come sia necessario affrontare le questione, anche etiche e morali, senza tirarsi indietro dietro futili schermaglie giuridiche degne di un manzoniano Azzeccagarbugli. Bisogna aver ben chiaro che giudicare penalmente e civilmente l’operato di qualsiasi persona, tanto più di un esponente politico, non spetta né ai comuni cittadini, noi, né ai colleghi dell’indagato, ma solo e unicamente alla magistratura che è sottoposta solo e unicamente alla legge. La Camera, in ottemperanza al rispetto delle garanzie costituzionali, è chiamata solo e unicamente ad appurare se ci sia un Fumus pesecutionis, cioè se il procedimento giudiziario non sia posto su basi assolutamente infondate. Ma dirimere la questione spetta solo al tribunale.  

RIFLESSIONI SULLA FENOMENOLOGIA DELL'ESSERE

 


SCRIVERE.

Oggi,01/02/2021, mi è capitato di leggere sul quotidiano “La Repubblica” un articolo di Eugenio Scalfari. Il novantasettenne  giornalista fa un’ampia riflessione sulla scrittura. Il titolo del suo articolo è “Quando si arriva alla fine del viaggio”. Come si evince da questa frase il “pezzo giornalistico” vuole essere un bilancio, approssimativo, della propria vita. Inevitabilmente è l’enunciazione del valore che l’autore dà alla scrittura. Infatti Scalfari è “uno che scrive per vivere”. Parlare di come si esplicita il proprio pensiero, fa parte della formazione professionale del vegliardo giornalista.

Eugenio Scalfari arriva alla conclusione che la scrittura può avere una escatologia assolutamente differente a seconda di quale sia il mezzo con cui viene resa noto. Un conto è il pezzo giornalistico, o meglio lo scrivere per raccontare un fatto, esso deve avere uno scopo. Deve esplicitarsi una tesi, una analisi dei fatti. Altro conto è scrivere per quello che si chiama ricerca dell’assoluto. Assoluto, per Scalfari, non è una cosa che è altro da noi. Non è da ricercare nelle “idee” che esplicita Palatone nei suoi trattati, cioè entità esterne alla psiche umana che illuminano l’esistenza delle genti terrestri. Ma è all’interno della nostra mente che va ricercato l’elemento fondante della visione etica di tutti ed di ognuno. Una visione che ovviamente non è altro dalla filosofia di Emmanuel Kant, il filosofo tedesco che ha fondato sulla coscienza individuale la ricerca ermeneutica. Così rompendo la visione rigida fra analisi scientifica e visione etica. Ogni ricerca, scientifica o sulle questioni umane che sia, si basa sull’intelligenza umana. Che vuol dire, partendo dal verbo inteligere latino, leggere i moti che caratterizzano le procelle dell’esistenza.

Lo scrivere che vuole riscoprire l’anziano giornalista è proprio l’esplicitazione di quella capacità dell’intelletto di capire cosa si dipana nel proseguire repentino della vita. Trovare un senso a un susseguirsi di eventi che a primo acchito appaiono il frutto di un caso crudele e indifferente alle esigenze dell’umanità. Invece è bene ricercare in profondità. Quali sono le ragioni profonde che muovono l’esistenza propria e degli altri?. Insomma lo scrivere per esplicitare la propria anima è qualcosa che non solo è diverso da commentare le vicende di cronaca, ma è ontologicamente altro. L’essenza dello scrivere alla ricerca del proprio essere è diverso dal quotidiano commentare le vicende politiche, di cronaca, ma anche di cronaca culturale. È la capacità di mettere a nudo e di far conoscere agli altri il proprio essere, la propria dialettica interiore che si dipana nel diuturno pensare di ogni uomo e donna.

Scrivere come ricerca personale del proprio “Io” è il fine ultimo dell’arte. Ecco quale è la profonda differenza fra un’opera poetica e un saggio euristico. Questo ha il fine di esplicitare e di rendere noto quale sia il processo che ha portato alla creazione di qualche cosa umana, che sia una costruzione o una poesia. Il primo invece e l’esplicitazione dei sentimenti dello scrivente, è la capacità di trasformare delle lettere, delle parole, in forza e passione. La capacità di farsi strumento per arrivare al cuore del lettore, per fargli comprendere la bellezza dell’animo dello scrivente e fargli intuire la maestosità e le infinite possibilità dell’animo anche di chi legge. La scrittura è questo. la scrittura è tempesta e vento. È quell’elemento che travolge un apparente ordine acquisito, per poter creare le premesse per la costruzione di una realtà più bella e più compiuta. Ecco cosa è l’arte. Il riuscire a raccontare se stessi.

RIFLESSIONI SULL'ESSERE E SULLA SUA FENOMENOLOGIA

 


SCRIVERE.

Oggi,01/02/2021, mi è capitato di leggere sul quotidiano “La Repubblica” un articolo di Eugenio Scalfari. Il novantasettenne  giornalista fa un’ampia riflessione sulla scrittura. Il titolo del suo articolo è “Quando si arriva alla fine del viaggio”. Come si evince da questa frase il “pezzo giornalistico” vuole essere un bilancio, approssimativo, della propria vita. Inevitabilmente è l’enunciazione del valore che l’autore dà alla scrittura. Infatti Scalfari è “uno che scrive per vivere”. Parlare di come si esplicita il proprio pensiero, fa parte della formazione professionale del vegliardo giornalista.

Eugenio Scalfari arriva alla conclusione che la scrittura può avere una escatologia assolutamente differente a seconda di quale sia il mezzo con cui viene resa noto. Un conto è il pezzo giornalistico, o meglio lo scrivere per raccontare un fatto, esso deve avere uno scopo. Deve esplicitarsi una tesi, una analisi dei fatti. Altro conto è scrivere per quello che si chiama ricerca dell’assoluto. Assoluto, per Scalfari, non è una cosa che è altro da noi. Non è da ricercare nelle “idee” che esplicita Palatone nei suoi trattati, cioè entità esterne alla psiche umana che illuminano l’esistenza delle genti terrestri. Ma è all’interno della nostra mente che va ricercato l’elemento fondante della visione etica di tutti ed di ognuno. Una visione che ovviamente non è altro dalla filosofia di Emmanuel Kant, il filosofo tedesco che ha fondato sulla coscienza individuale la ricerca ermeneutica. Così rompendo la visione rigida fra analisi scientifica e visione etica. Ogni ricerca, scientifica o sulle questioni umane che sia, si basa sull’intelligenza umana. Che vuol dire, partendo dal verbo inteligere latino, leggere i moti che caratterizzano le procelle dell’esistenza.

Lo scrivere che vuole riscoprire l’anziano giornalista è proprio l’esplicitazione di quella capacità dell’intelletto di capire cosa si dipana nel proseguire repentino della vita. Trovare un senso a un susseguirsi di eventi che a primo acchito appaiono il frutto di un caso crudele e indifferente alle esigenze dell’umanità. Invece è bene ricercare in profondità. Quali sono le ragioni profonde che muovono l’esistenza propria e degli altri?. Insomma lo scrivere per esplicitare la propria anima è qualcosa che non solo è diverso da commentare le vicende di cronaca, ma è ontologicamente altro. L’essenza dello scrivere alla ricerca del proprio essere è diverso dal quotidiano commentare le vicende politiche, di cronaca, ma anche di cronaca culturale. È la capacità di mettere a nudo e di far conoscere agli altri il proprio essere, la propria dialettica interiore che si dipana nel diuturno pensare di ogni uomo e donna.

Scrivere come ricerca personale del proprio “Io” è il fine ultimo dell’arte. Ecco quale è la profonda differenza fra un’opera poetica e un saggio euristico. Questo ha il fine di esplicitare e di rendere noto quale sia il processo che ha portato alla creazione di qualche cosa umana, che sia una costruzione o una poesia. Il primo invece e l’esplicitazione dei sentimenti dello scrivente, è la capacità di trasformare delle lettere, delle parole, in forza e passione. La capacità di farsi strumento per arrivare al cuore del lettore, per fargli comprendere la bellezza dell’animo dello scrivente e fargli intuire la maestosità e le infinite possibilità dell’animo anche di chi legge. La scrittura è questo. la scrittura è tempesta e vento. È quell’elemento che travolge un apparente ordine acquisito, per poter creare le premesse per la costruzione di una realtà più bella e più compiuta. Ecco cosa è l’arte. Il riuscire a raccontare se stessi.