MA MISI ME PER L’ALTO MARE APERTO
Questo anno è il settecentesimo dalla morte di Dante Alighieri. Il Sommo Poeta italiano che ha scritto la Divina Commedia. Io sono sempre rimasto affascinato dalla sua immane opera poetica, come è avvenuto per i tantissimi che hanno avuto la fortuna di leggerlo, la quasi totalità dell’umanità. Mi sovviene in mente uno dei passi della Divina Commedia più conosciuti. Sto parlando del XXVI Canto dell’inferno in cui il vate fiorentino canta della sorte di Ulisse e Diomede, avvolti in una comune fiamma punitrice perché consiglieri fraudolenti, insomma degli imbroglioni capaci di portare interi popoli al disastro grazie alle loro doti dialettiche affabulanti.
Ma la grandezza di Ulisse non è nella sua capacità di imbrogliare il prossimo. Certo senza la sua astuzia non avrebbe sottratto ad Aiace, il più forte degli eroi greci dopo il Pelide, l’armatura di Achille, morto. Certo non avrebbe sottomesso Troia con il trucco del Cavallo di Legno. Ma non è la furbizia l’esplicazione della valenza intellettuale di Ulisse. È la curiosità. È la voglia di sapere. È la sete di conoscenza. È questo che rende il re di Itaca un eroe universale. Dante lo sa bene. Ecco perché lo condanna all’inferno per la sua fellonia, ma gli fa raccontare dell’ultimo viaggio che ha compiuto, quello oltre le Colonne d’Ercole (l’attuale Gibilterra), appunto, per l’alto mare aperto.
Ecco allora cosa rappresenta nella coscienza dell’uomo “l’alto mare aperto”, è la sete di sapere, la sete di oltrepassare i limiti che apparentemente segnano la vita dell’umanità alla disperata conoscenza dell’intero senso della vita e dell’universo. Ecco perché Dante racconta di come Ulisse scelse di abbandonare la sua amata isola e la sua devota sposa Penelope, pur raggiunta con un viaggio spossante e con una serie di lutti e morti. Ulisse non si accontenta di ritornare a casa. Non si accontenta di avere il giusto riposo del guerriero. Vuole essere lo scienziato, l’esploratore, che non dismette mai la propria veste di ricercatore del vero, ma attraversa le tempeste e le procelle, per vedere ciò che uomo prima di lui non ha mai visto.
Ecco perché Ulisse arriva, secondo Dante Alighieri, a vedere finanche il Purgatorio, la enorme montagna che si trova al centro dell’oceano e che ospita le anime che espiano le proprie colpe per poi salire al cospetto del Creatore. Ulisse lo fa attraverso l’intelletto umano e non grazie all’illuminazione che procura la fede. Perciò fallisce. Perciò è condannato a non farsi testimone al mondo di ciò che ha visto, a differenza del vate fiorentino, che racconterà la sua visione oltremondana attraverso la Commedia, e riuscirà a parlare anche di Ulisse. Però Dante tributa ad Ulisse un riconoscimento di superiore intelletto. La sua sete di conoscenza deve essere osannata come eterno esempio della radicale risolutezza umana a ricercare il Vero. Questa bramosia di conoscenza è ciò che ci spinge “nell’alto mare aperto”. Ciò che ci rende eroi senza macchia. Ciò che ci rende servi al servizio della nostra stessa progenie. Ognuno di noi deve essere pronto a tutto per sapere. Ognuno di noi deve avere lo stesso spirito di Ulisse, che non indietreggia davanti alle difficoltà e ai pericoli, pur di accendere un faro davanti a ciò che prima del suo intervento era oscuro.
Allora andiamo anche noi nell’alto mare aperto. Cerchiamo il senso della nostra esistenza abbeverando la nostra bramosia di conoscenza. Io non sono uno scienziato, non sono un letterato, non so scrivere (lo si vede), ma anche io vorrei cercare l’assoluto, l’Essere, esattamente come Ulisse. Vorrei sfidare le procelle del destino. Guardare le stelle e trovare la rotta del giusto. Forse non sono in grado di farlo. Forse non sono nemmeno in grado di prendere la nave della ricerca, come invece ha fatto Ulisse assieme ai tanti che si sono distinti per il loro studio. Ma vorrei essere parte di quel sogno di grandezza che ci fa essere umani.