BEH! C’ERA UN GIUDICE A WASHINGTON
Vi ricordate la storica frase ripresa da Berlod Brecht in una delle sue opere e, sembra, pronunciata realmente da un mugnaio tedesco nel ‘700 per chiedere giustizia contro i soprusi di un nobile: “c’è un giudice a Berlino?”. Questa frase è diventata la bandiera di chi è convinto che chiunque dal più potente e influente politico all’ultimo cittadino, si direbbe con termine antico e discusso, proletario è sottomesso alle leggi. Anche il re, se si è in una monarchia, anche il presidente della Repubblica devono rispondere dei propri atti davanti a un giudice, se hanno commesso reati. Ora questo articolo vorrebbe evocare la vita e la dirittura morale di un grande giudice statunitense. Si chiamava Ruth Bader Ginsburg. Era un membro della Corte Suprema, la più alta assise giudiziaria degli Stati Uniti. Aveva 87 anni. È morta l’altro ieri, sabato 19 settembre 2020. È stata la prima donna ad essere membro dell’alta corte. Ma c’è di più è stata fra le prime nove donne ad laurearsi ad Harward in Legge, calasse 1933 figlia di modesti immigrati ebrei e già madre a 23 anni.
La sua nomina alla corte suprema è stata voluta dal Presidente Bill Clinton nel 1993. La giudice si era già distinta per una carriera estremamente brillante, volta alla difesa dei diritti civili. La Ginsburg si era impegnata per la sua indefessa rivendicazione dei diritti delle donne. È sua la storica frase che segna la storia delle lotte liberali per il femminismo: non chiedo favori per il mio sesso, ma solo che i nostri fratelli smettano di calpestarci. È una convita sostenitrice del diritto come strumento reale di difesa dei diritti. Non concepisce l’idea che un avvocato o un giudice siano “Azzecagarbigli”, per dirla alla Manzoni. Insomma non ci sono, o meglio non ci devono essere mezzucci. Il diritto deve essere sinonimo di giustizia. La legge deve essere verità. Se così non è bisogna cambiarla. Questa era la convinzione della Ginsburg. Per lei la Costituzione Americana era lo il baluardo dei diritti di tutti. Considerava i principi da essa enunciati come norme fondamentali che valgono per tutti gli esseri umani, tanto più per le donne. Gli “Emendamenti”, come vengono chiamati gli articoli del preambolo della Costituzione Americana ove vengono enunciati i diritti fondamentali dell’uomo, sono stati la base del suo lavoro e della sua vita da studiosa del diritto. La legislazione americana è allo stesso tempo frutto della combinazione di principi e leggi date fin dalla nascita della Repubblica, scritti durante la convenzione di Filadelfia del 1787, e da ulteriori aggiornamenti della cultura giuridica, ad esempio valori fondamentali come l’abolizione della schiavitù, il diritto di tutti i cittadini ad avere pari diritti e doveri al di là della razza, termine tremendo, del sesso e della provenienza familiare sono stati conquistati in un lento processo normativo e intellettuale che si conclude negli anni ’60 del secolo scorso, proprio quando la Ginsburg si affaccia al mondo del diritto e dei diritti.
Ruth Bader Ginsburg è stato un faro della giurisprudenza e della dottrina non solo nel suo paese, ma nell’intero mondo. In Occidente le sue tesi sono state il motore delle rivendicazioni politiche, sociali e giuridiche di tutte le donne. Anche inconsapevolmente chi manifestava per il diritto all’autodeterminazione giuridica del cosiddetto “sesso debole”, rivendicando il diritto della donna a ricevere in eredità senza la curatela o la tutela di un uomo, di accedere ad alte cariche dello stato e ad ambire a posti di lavoro di vertice, faceva propri i concetti giuridici esposti con caparbietà dalla Ginsburg. La sua presenza alla Corte Suprema America ha segnato una stagione di diritti. Sono storici i suoi “mi oppongo” che pronunciava con decisione, fino ad apparire ostinazione, ad ogni sentenza che violasse i diritti fondamentali delle donne e dei più deboli. La sua battaglia per ribadire con forza il valore assoluto e universale della dignità umana ha dato perfino da torcere al burbero Donald Trump, che si è dovuto, in alcuni casi, arrendere a lei, alla piccola giudice, quando rivendicava il diritto alle giovani madri messicane, ma con figli nati negli USA quindi cittadini degli States, a stare vicino ai propri piccoli, in nome del diritto alla maternità.
La morte del giudice Ginsburg è un lutto per l’intera umanità, per i fautori del principio che la legge è fatta per gli uomini, e per le donne, e non il contrario. Che i valori assoluti di giustizia, libertà ed eguaglianza devono muovere lo spirito di chi giudica in base alle norme e di chi quelle norme le fa, la politica. Ci sono valori e principi universali che l’interesse di parte non può e non deve ignorare, ecco il monito della giudice morta qualche giorno fa. Alla luce di questo appare veramente poca cosa la polemica in ambito del partito Democratico Americano contro di lei, che scelse pochi giorni prima dell’ascesa alla Casa Bianca di non dimettersi. Le sue dimissioni di allora avrebbero permesso all’allora presidente in carica, barack Obama, di nominare un membro della corte democratico, compito che ora spetta al Repubblicano Donald Trump. Perché questa polemica? Ricordiamo che i giudici della Corte Suprema sono nominati dal Presidente degli Stati Uniti con il consenso del Senato. Hanno una carica a vita, che può essere interrotta solo dalla morte o dalle dimissioni. Oggi insomma il Repubblicano Trump, con il supporto di un senato ancora a maggioranza composta da membri del suo partito, potrà sostituire la liberal Ginsburg con un magistrato conservatore. Ma alla luce del peso morale e giuridico della donna del diritto queste polemiche appaiono poca cosa.
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