venerdì 25 dicembre 2020

LA RES PUBLICA NEL MEDIOEVO

 


IL SENSO DELLO STATO

Stavo riflettendo insieme a un gruppo di amici sul valore della Res Publica nella cultura medievale. Un cittadino nell’epoca di mezzo era componente di una città, di un comune, era parte dell’impero universale ed era un componente della comunità dei credenti. Insomma un abitante della comune medievale era componente contemporaneamente di diverse entità istituzionale, con leggi e regolamenti propri e spesso in contrasto fra di loro. Bisognava servire lo Stato, ma chi era il capo dello Stato? L’imperatore? Il Papa? Le autorità del comune?

Questa è una domanda che si faceva quotidianamente ogni uomo e donna che avesse una coscienza politica. Dante Alighieri ha scritto un trattatello fondamentale, il de Monarchia, proprio su questo argomento. Il sommo poeta è sempre stato consapevole della natura triplice, locale e universale, mondana e religiosa, del potere. Insomma il potere, per Dante e per i suoi contemporanei, ha bisogno di una guida universale religiosa, il papa, di una guida universale e politica, l’imperatore, e di un sistema di governo democratico locale, il Comune. Insomma il potere era multiforme. Era autoritario, quando si incarnava nel potere del Sommo Pontefice e del sommo Dux. Era democratico quando si trattava di condurre la quotidianità della vita della gente comune, attraverso il potere comunale. Dante non metteva affatto in dubbio che il senso ultimo delle istituzioni fosse unitario. Pur nella parcellizzazione del potere, il senso di appartenenza alla Universitas Cristiana rendeva ogni cittadino parte di un corpo unico, unitario come era fin dalla visione romana, ricordiamo il famosissimo e leggendario apologo di Menenio Agrippa. Insomma tutto il mondo era come un corpo che aveva bisogno per vivere di due soli, la Chiesa e l’Impero, che dovevano illuminare la via di tutti i pellegrini della terra, e doveva avere un comune sistema nervoso, le autorità comunali che reggevano la vita sociale quotidiana. Era una visione allo stesso tempo teologica, cioè fondata sulla certezza che la struttura sociale era determinata direttamente dalla volontà divina e le sue storture e brutture erano dolorosi frutti del peccato umano, e teleologica, cioè finalizzata a un fine di comune convivenza.

Questa era la visione di Dante. Il mondo era destinato da Dio all’armonia. Le guerre, i dolori, le torture, le iniquità erano il frutto umano della ribellione alla divina provvidenza. Il disegno di Dio per l’uomo era costantemente presente in ogni atto. Dio era per Dante costantemente presente nella vita di ognuno. Ricordiamo il fenomenale incipit della Divina Commedia. Dante era perso nella Selva Oscura. Era braccato da tre perfide e feroci fiere: il leone, la lonza e la lupa. Il leone era l’allegoria del potere che si fa sopruso. La Lonza era l’allegoria della cupidigia, della sete di denaro ed averi. La lupa era l’allegoria del desiderio sessuale insano. Dio non lascia indietro nessuno. Perfino un uomo “qualunque” come Dante Alighieri era così caro al Divino, da chiamare la Teologia, allegoricamente rappresentata dalla donna amata dal poeta Beatrice, a salvarlo. In realtà sono tutte donne coloro che si muovono a salvare il poeta, c’è Maria, madre di Gesù, c’è santa Lucia e in fine, appunto, Beatrice. Tutti chiamano in soccorso Virgilio, il poeta latino che allegoricamente rappresenta la ragione umana non accecata dal peccato, a ricondurre Dante sulla retta via. Simbolicamente Dante ci dice che non è solo lui ad essere salvato dalle miserrime passioni umane, che portano al caos sociale, ma lo è l’intera umanità. Attraverso la Commedia, attraverso la salvezza e la redenzione che avviene attraverso il viaggio nei tre luoghi dell’aldilà, non si salva solo il fiorentino che cantò il Dolce Stil Novo, ma l’intera società del suo tempo, e anche noi che leggiamo il sommo poema anche dopo secoli dalla sua stesura. Insomma l’equilibrio sociale si può ritrovare attraverso un viaggio di redenzione che riconosce i poteri costituiti, mai come nemici, ma come guide sicure per una vita serena. Come Dante si affida a Beatrice, così ognuno di noi deve affidarsi alla autorità costituita, il ribellarsi crea disordine e morte. Dante non sta dicendo che non bisogna combattere per ciò in cui si crede. Era stato soldato anche lui, sconfitto ma valoroso, nella fratricida guerra fra Bianchi e Neri, fra componenti della stessa parte Guelfa, che aveva segnato nel dolore la sua Firenze. Ma Dante è consapevole che la guerra non è la cura delle malefatte, e al contrario la tragica epifania di queste. Se scoppia un conflitto il male è già dentro le istituzioni, e in fin dei conti già dentro il cuore di ognuno. Dante propone ai suoi contemporanei, a se stesso, ed in ultima analisi anche a noi, una soluzione alla guerra. La risoluzione è nell’armonia. Ognuno deve essere consapevole di essere parte di un tutto. Ognuno deve avere la certezza che le proprie idee e la propria opera è preziosa se si fonda sul principio di armonia con gli altri. Si può trovare il modo per convivere se si acquista la certezza che ogni nostra azione deve essere finalizzata a uno scopo più alto, al bene comune. Questo bene comune è il senso dello stato, che non è solo il rispetto dell’autorità e delle istituzioni, è anche la certezza di essere parte di un disegno corale, di cui il Papa e l’Imperatore non sono i facitori, il fattore è solo Dio, ma sono gli elementi più importanti, che devono vivere in armonia e non in conflitto come vorrebbero i due partiti: Guelfi e Ghibellini.

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