martedì 29 settembre 2020

PARLANDO DI COSTITUZIONE

 


ARTICOLO 77   DELLA COSTITUZIONE ITALIANA  

“Il governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria. 

Quando, in casi straordinari di necessità e d’urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni.

I decreti perdono efficacia sin dall’inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti”

Regola generale vuole che il governo non possa emanare atti normativi che non siano previamente autorizzati dalle Camere. Questo principio è ribadito dal primo comma dell’articolo settantasette della Costituzione Italiana, che riprende le tematiche dell’articolo settantasei. La nostra è un repubblica parlamentare. Il potere legislativo spetta alle Camere. Queste possono delegarlo al governo in via straordinaria e con legge, denominata, appunto, di delega. La delega vale per un preciso lasso di tempo e per materie e finalità ben circostanziate dall’autorizzazione dell’assemblea. In casi straordinari che richiedono la pronta reazione del Governo, questi può adottare provvedimenti provvisori aventi forza di legge. Insomma il governo può legiferare senza autorizzazione del Parlamento. Ciò può avvenire a patto che l’esecutivo, al momento della firma da parte del Presidente della Repubblica dell’atto, mandi alle Camere il testo, affinché sia convertito in legge parlamentare, grazie al voto del consesso assembleare. È un atto ben diverso dal decreto legislativo. Questo è adottato dal governo a seguito di un’autorizzazione preventiva delle camere. Il Decreto Legge invece è autorizzato, con votazioni, dal parlamento successivamente alla sua entrata in vigore. I decreti legge sono previsti per motivi tassativi. Solitamente sono utilizzati per imporre aumenti d’accise. L’aumento di una tassa su beni di consumo deve essere immediato, per evitare pericolose speculazioni finanziarie durante l’approvazione della norma da parte delle camere. Ma l’esecutivo decreta d’urgenza anche per affrontare calamità di carattere naturale, terremoti e alluvioni. Decreta per fronteggiare imprevisti scenari di crisi politico finanziaria. Decreta per fronteggia eventi imprevisti e inaspettati. Bisogna dire che in passato e anche nel presente, l’esecutivo ha utilizzato la decretazione d’urgenza per attuare la propria politica anche esorbitando i criteri di necessità e urgenza. Il Presidente della Repubblica, che ha  il compito di controfirmare i decreti legge, ha spesse volte denunciato questa pratica contraria alla Costituzione. Ma spetta al Parlamento censurare in maniera efficace la pratica dell’esecutivo, con atti quali la sfiducia al governo. È in ultima istanza l’assemblea degli eletti a censurare l’esecutivo, cosa che quasi mai avviene essendo la maggioranza parlamentare, che dovrebbe censurare il governo, la stessa che lo sostiene. La legge numero 400 del 1988 ha posto una serie di limitazioni all’adozione dei decreti d’urgenza. Questo per chiarificare quale debba considerarsi la “necessari età e urgenza” atta a decretare. Ma anche questa legge è stata spesse volte aggirata, essendo un atto normativo di stessa forza del decreto legge, questi che è posteriore lo può derogare, in virtù del principio nova lex derogat pristinam. Insomma la decretazione d’urgenza è materia delicata e di difficile gestione. La riforma della Costituzione pensata dall’ex ministro Maria Elena Boschi dava garanzie più chiare sulla materia della decretazione d’urgenza, imponeva che il governo chiarisse i motivi per i quali si dovesse utilizzare tale strumento. Nel caso non fossero esplicitati o le motivazioni fossero non veritiere il Presidente della Repubblica doveva non firmare l’atto. Ma si sa i cittadini hanno bocciato tale riforma. Le camere devono ratificare entro sessanta giorni il decreto legge. Se non avviene l’approvazione con voto del testo da parte di entrambe le camere, questi decade. In passato molti decreti legge sono finiti nel vuoto. Non vi è stata alcuna legge di conversione. Tali norme governative sono state esplicitamente volte a tamponare un’emergenza momentanea, che passata, il Parlamento ha scelto di ignorare. È disdicevole che ciò avvenga. È disdicevole che un atto giuridico del governo abbia effetti durante i sessanta giorni previsti e poi cada nel vuoto. Questo è l’abdicazione delle Camere ad adempiere e a svolgere il potere legislativo. È bene che si discuta un decreto e che si bocci o si approvi. È bene spiegare che il Parlamento ha il dovere di normare la materia del decreto, se decide di non ratificarlo deve provvedere con legge a sanare le situazioni giuridiche venutesi a creare a causa dell’atto del governo, che se decaduto non è più valido. È un modo per garantire i cittadini e scongiurare una vacatio legi.  È bene ricordare che il decreto legge è approvato dal Consiglio dei Ministri, firmato dal presidente del Consiglio e controfirmato, a garantirne la legalità costituzionale, dal Presidente della Repubblica. L’atto ha piena forza di legge a meno che non decada per mancata conversione delle camere, in questo caso è inefficace fin dal momento della sua promulgazione. Le Camere possono ratificare il decreto così come è. Non ratificarlo e normare sulla materia del decreto per sanare eventuali situazioni giuridiche sorte a causa del decreto stesso, ormai privi di valore. Può ratificare la legge, pur modificando la norma. Può cioè approvare nella sua teleologia l’atto dell’esecutivo, ma modificarne alcuni punti importanti, così novellando la norma stessa. Il parlamento, nella sua insindacabile potestà legislativa, può modificare il contenuto del decreto, spetterà al governo interpretare tale scelta come un miglioramento gradito o una censura alla propria azione, che potrebbe significare una frattura politica. Comunque la mancata conversione di un decreto non obbliga il governo a dimettersi.  Insomma il decreto legge è un importante strumento dell’esecutivo per normare urgentemente, spetta però che si utilizzi con raziocinio e parsimonia per evitare fratture istituzionali.

EMERGENZA ED EUROPA

 


IL FUTURO DEL VECCHIO CONTINENTE

L’Europa ormai da tempo si trova davanti a un bivio. Le nazioni del Vecchio Continente devono scegliere se continuare una politica di integrazione, cominciata all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, o arrestare questo complesso processo. Parafrasando un termine dell’école de la nouvelle histoire française ci troviamo di fronte a un fenomeno di “Lunga durata” che per compiersi nei decenni  deve affrontare eventi immediati e repentini che si manifestano quasi come uragani a modificare il “paesaggio” che si compie in una lenta e costante costruzione. Eventi certo circoscritti nel tempo e di vibrante potenza storica, ma non certo da considerarsi imprevedibili e casuali.

Appare non azzardato considerare il fenomeno migratorio e la pandemia legata al  Corona Virus due fenomeni di rottura storica che mettono in discussione le fondamenta stesse dell’Unione Europea. Due fenomeni accidentali e circoscritti nel tempo che pongono le promesse per un cambio del processo costruttivo dello stato federale che dovrebbe unire i popoli che in passato si sono visti contrapposti in guerre e competizioni finanziarie ed economiche. La risposta a due emergenze, come oggettivamente sono da considerarsi una malattia pandemica e l’arrivo di un numero consistente di genti da altri continenti, non può attendere i tempi lunghi della storia. Occorrono scelte politiche decise e poderose. Non a caso la governance europea sta approntando politiche di sussidio e di supporto economico ai paesi più colpiti dal Corona Virus e sta provando a dare risposte comuni al fenomeno migratorio che richiede al contempo politiche di accoglienza e di rimpatrio delle persone che non possono poggiare la propria richiesta di vivere nel nostro continente su basi concrete di emergenza e messa in discussione della propria esistenza.

Allora non rimane che provare a chiederci come sarà possibile trovare una voce unitaria dell’Europa davanti alle emergenze del presente. Tutto il nostro tempo appare come uno specchio infranto. Quello che doveva rispecchiare un’immagine chiara, una visione comune del domani, appare come una serie di cocci che riverberano solo una parte della realtà, dando ad essa non un immagine chiara e vivida, ma deformata fino a farla diventare mostruosa. Riusciranno i nostri governanti a costruire un progetto comune, una visione del mondo condivisa, che permetterà di costruire una politica comune europea? È a questa domanda che è necessario dare una risposta. È questo il tassello necessario per proseguire il progetto “di lunga durata” che dovrebbe portarci a una piena integrazione delle istituzioni e delle culture che compongono il nostro continente. Solo affrontando insieme e emergenze, potremmo costruire un futuro realmente fondato sulla convivenza di centinaia di milioni di persone. Bisogna essere coscienti che quello che succede a Lesbo non riguarda solo i migranti che stanno nella piccola isola dell’egeo, non riguarda gli abitanti di quell’atollo fra Asia e Europa, non riguarda solo lo stato Greco, ma riguarda ognuno di noi. Noi in Italia, in questi giorni, stiamo assistendo alla celebrazione del processo legato allo sbarco dei migranti dell’Open arms, la nave carica di migranti che fu fermata davanti al porto di Catania. Imputato è l’allora ministro dell’interno, Matteo Salvini. L’accusa è di avere costretto per troppo tempo all’agghiaccio donne, bambini e uomini. Tutto avveniva nelle noti del 2019. Ma non è difficile, pur piangendo per la sorte di innocenti, non comprendere la difesa del senatore Salvini. Anche lui, come oggi il governo greco, si trovava di fronte a un fenomeno irruente e imprevedibile. Salvini dal giorno all’altro si trovò a fronteggiare una crisi umanitaria, lui che era solito ritrovarsi fra amici e sostenitori al “Papete”, mitica spiaggia della costiera Adriatica ove si incrociano uomini e donne della Lega. Stessa sorte, funesta, accade oggi al leader di sinistra della Spagna, Pedro Sanchez, alle prese con il Corona Virus che sta mietendo troppe vittime nella sua nazione. Grecia, Spagna ed Italia dimostrano che i singoli stati non possono rispondere da soli all’emergenza. I fenomeni irruenti e imprevisti devono essere sprone all’unità.

Bisogna costruire un progetto comune Europeo. Bisogna che tutti ed ognuno si sentano parte di una comunità di persone che vogliono, oltre che devono, vivere insieme. Nessuno stato deve più essere solo. Bisogna aprire un simposio che permetta di porre le basi a un concreto progetto comune che permetta di affrontare ogni singola emergenza. Il modo per arrivare al progetto di “lunga durata” dello Stato Federale Europeo è affrontare insieme le emergenze, gli eventi di accidentale rottura della continuità istituzionale europea. Affinché questi non diventino motivo di messa in discussione del progetto finale, ma al contrario siano risolti al meglio proprio grazie alla solidarietà europea.

domenica 27 settembre 2020

ESSERE O NON ESSERE

 


AMLETO

La tragedia di William Shakespeare “Amleto” è una delle opere letterarie fondamentali nella storia dell’intera umanità. Il motivo è che il racconto è l’esplicazione della tensione umana alla ricerca del Vero, che manifestamente diventa irraggiungibile . La storia è ispirata a un episodio reale del regno di Danimarca. Siamo nel XVI secolo, nella capitale Elisora si piange la morte del re da poco morto. Sulle Torri che cingono il castello il monarca, diventato fantasma, appare al figlio Amleto. Qui inizia la tragedia shakespeariana. Il padre, dolente, racconta al proprio primogenito di come la madre  abbia ordito un complotto per ucciderlo in combutta con il fratello del monarca, Claudio, al fine di prendersi il trono. Amleto è deciso ad indagare. Lo fa chiedendo a dei saltimbanchi di rappresentare a palazzo una tragedia intitolata “L’assassinio di Gonzago”, la cui trama racconta di vili tradimenti familiari. Dopo la recita costringe la madre a confessare. Ma dietro una tenda sente un brusio, pensa che sia lo zio Claudio e impugna la spada e trafigge il cuore, ma l’ucciso non è il fedigrafo ma è il padre della sua amata Ofelia, Polonio. A questo punto la situazione precipita. Dal punto di vista della politica del regno, si vive la grave minaccia del re di Norvegia Marcello, deciso a riconquistare i territori che furono del padre Fortebraccio. Dal punto di vista della tenuta istituzionale interna, si fa manifesto il tradimento dello zio Claudio e della madre Gertrude. Ofelia si lascia morire, disperata a causa della notizia avuta della morte del padre per mano dell’amato Amleto. L’altro figlio di Polonio, Laerte, decide di allearsi con Marcello nella speranza di riportare ordine in Danimarca, abbattendo il regno di Amleto, e, soprattutto, così di vendicare il padre. Intervengono a cercare di moderare due nobiluomini, amici di studio di Amleto,  Rosencrantz eGuidenstern. Il loro adoperarsi è un fallimento, la loro presenza scenica è fondamentale per capire l’animo di Amleto, figura centrale della letteratura mondiale. È allo stesso tempo crudele monarca, al pari degli altri personaggi di potere della storia, ma anche uomo di coscienza alla disperata ricerca del proprio essere e della sua essenza di persona buona. È l’esplicitazione del fallimento umano, il continuo cercare la serenità propria ed altrui che si concretizza in lutti e tragedie. Amleto da giovane studente ambisce a una felicità totale, fatta di serenità e fruttuoso rapporto affettivo con gli altri. È destinato a vedere sbriciolare le sue ambizioni di uomo felice, piangendo la morte della amata Eufelia. Davanti a tale orrore non può che scegliere di morire, di bere e di offrire il terribile veleno alla propria madre, la causa dei tanti lutti e dolori, la ragione della morte del proprio padre. Alla fine dell’opera il re di Norvegia, Marcello, venuto in Danimarca per sconfiggere quello che lui considerava il perfido Amleto, non può che guardare inorridito il povero corpo del principe di Danimarca, disteso inerte sulla tomba di Eufelia, che si è suicidato dopo aver posto fine alla vita della propria madre. Difficile non sentire smarrimento guardando la tragedia “Amleto”. Il tema della morte è presente e si fa centrale nel racconto. I personaggi sembrano essere condannati a un viaggio negli abissi, in cui la dipartita dal mondo non solo sembra essere l’unico percorso possibile in questo orrore della conoscenza e della coscienza, ma anche una fattiva liberazione dal dolore della vita. Essere o  non essere, il famoso monologo di Amleto che deve scegliere di suicidarsi è la lampante manifestazione del dolore che comporta l’esistenza e della irreparabilità della morte, La vita è angoscia ed è patimento. Ma la morte non è la liberazione. È il naturale compiersi della vita, è un aggiungersi tragico di dolore al dolore. La sofferenza non finisce mai. Ecco il messaggio tragico di Shakespeare. L’amore è una lieve carezza che i toni fugaci della brezza che dura un attimo, mentre il caldo e l’arsura della solitudine è perenne. È un momentaneo ristoro al dolore, che appena sparito, ricordiamo la tragica morte di Eufelia, acuisce ancor maggiormente il dolore d’esistere. I sentimenti anche più puri, ad esempio il sentimento di filiale amore di Amleto per il padre, portano solo dolore e morte. L’unica cosa che esiste e persiste nella sua aurea di verità e certezza è la giustizia. Una giustizia che è portata da fuori, è portata da un re straniero, Marcello. Ma la giustizia non può lenire i dolori del cuore, Amleto muore prima che giunga a manifestare il suo potere sulle istituzioni terrene, a peritura prova che le leggi sociali non possono ordinare e lenire i sommovimenti della coscienza interiore di ognuno. Però la giustizia può riordinare i rapporti intersoggettivi. Pensiamo che il ritorno dell’ordine politico in Danimarca per opera di Marcello non abbia certo messo fine ai sommovimenti e alle passioni dei singoli, ma abbia portato pace nelle relazioni istituzionali e riportato un sano governo dello stato. Amleto è il principe del turbamento dell’animo umano. L’inconscio, che Sigmund Freud indagherà secoli dopo, è magistralmente incarnato da lui. Noi rimarremo sempre affascinati e turbati dalle sue passioni così profondamente umane e quindi simili, se non uguali, alle nostre. Ma la speranza è in Claudio, nell’ordine costituito e costituente che riesce a trovare regole di convivenza anche fra cuori in sommovimento e animi turbati. Insomma Amleto è l’Ego che si fa travolgere dall’Es e dall’inconscio. È la parte di noi che quando si trova davanti alle emozioni non riesce a governarle e preferisce l’oblio. È l’autenticità del cuore, travolto dall’eccessivo dolore. È tutti noi quando ci troviamo di fronte a un evento  ineluttabile e insuperabile, un lutto ad esempio. Per questo motivo amiamo Amleto. Ma bisogna credere che l’ordine razionale, le regole sociali, alla fine potranno portare un piccolo soccorso al dolore esistenziale. Ci sarà un re di Norvegia che porterà un pò d’ordine nella nostra Danimarca che è l’anima.

PARLANDO DI COSTITUZIONE

 


ARTICOLO 76 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

“l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione dei principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”.

Nella visione costituzionale il potere legislativo è della Camera. Fare le leggi è un atto complesso, cioè impone che sia Camera che Senato deliberino un testo uguale che diventerà norma dello Stato. Un’eccezione a questo stato di cose è il decreto legislativo. Questo istituto consiste nel potere dell’esecutivo di emanare testi normativi che hanno la stessa forza della legge. Questo atto, al pari del decreto legge che commenteremo quando tratteremo dell’articolo 77 della Costituzione, deroga alla rigida divisione dei poteri, che inibirebbe l’esecutivo a compiere atti equiparabili a leggi. Fare norme dovrebbe essere solo competenza del Parlamento. La funzione legislativa delegata al governo è legittimata da un’apposita norma parlamentare che si chiama legge delega. La delega al governo non può essere approvata con procedimento decentrato, non può essere approvata in commissione, ma deve essere dibattuta e votata nell’aula sia di Montecitorio sia di Palazzo Madama. Non può essere istituita per decreto legge, cioè attraverso l’atto legislativo del governo che istituisce norme per regolamentare situazioni di emergenza, atto che in seguito sarà ratificato entro e non oltre sessanta giorni da un voto delle Camere. Questo è per garantire che una delega non avvenga senza il controllo dell’autorità assembleare. Il governo, se avesse il potere di autorizzare se stesso, attraverso un decreto legge, a compiere decreti legislativi, scavalcherebbe le assemblee. La delega al governo deve essere chiara e ben circoscritta. Il testo delegante deve essere scritto in modo da rendere ben chiare le finalità a cui il governo deve tendere al momento di stendere su pergamena  il decreto legge. Non ci può essere una vaga delega a normare su una materia giuridica. Le finalità dell’atto devono essere ben chiare e già definite dal Parlamento. Solitamente le leggi delega sono utilizzate per ordinare una specifica materia. L’esecutivo, in questo caso, non è chiamato a novellare, a fare nuove leggi. Ha il compito di riordinare un particolare settore legislativo, scrivendo in un unico corpo giuridico, in un unico testo, una serie di norme. È un atto volto a riordinare una legislazione che spesso è frutto di un accumulo di leggi emanate in più di centocinquanta anni di storia della nostra nazione. Questo atto, apparentemente meramente ordinativo, è importantissimo e potenzialmente fonte innovativa del diritto. Un Testo Unico può rinnovare nei fatti un istituto, scegliendo di espellere alcune norme e non altre dal corpo giuridico italiano. Può, attraverso il mero riordinamento in articoli, mutare il senso stesso delle leggi. Per questo motivo è bene che il parlamento e il presidente della repubblica, chiamato a controfirmare i decreti legislativi, veglino sugli atti delegati al governo. Se un decreto legislativo viola i criteri di delegazione è da ritenere incostituzionale. La norma in questo caso può essere contestata e portata al giudizio della Consulta, che dichiarerà l’incostuzionalità del testo emanato dal governo se constaterà “eccesso di delega”, se cioè l’esecutivo ha effettivamente compiuto un atto normativo che esorbita dai paletti imposti dalla legge delega. Ovviamente il ricordo alla Consulta avviene quando una norma è già entrata in vigore. Ben può avvenire che il Presidente della Repubblica rifiuti di controfirmare l’atto legislativo, censurando il governo e imponendogli di mutare il testo, in conformità alla delega ricevuta, ancor prima che entri in vigore. Il parlamento stesso o una sola delle due camere potrebbero censurare l’azione dell’esecutivo con una mozione che ricordi le motivazioni e le finalità con cui è stata affidata la delega, invitando l’organo di governo ad attenervisi.

NATURA MATRIGNA E BELLEZZA

 


IL PASTORE ERRANTE

“Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” è uno dei cosiddetti “grandi Idilli” di Giacomo Leopardi. Nel  Zibaldone dei Pensieri, il diario del pensiero del Poeta di Recanati, Giacomo spiega da quale fonte ha avuto l’ispirazione per scrivere questa opera. Ha letto le memorie di viaggio del Barone de Meyendorff, un nobile Russo che si spostò per tutta l’Asia, mettendo alla luce alcune delle meraviglie di quello che è il continente più esteso dell’orbe terraqueo. Il viaggiatore racconta dei suoi incontri con la gente della steppa. Persone taciturne, che fanno dell’allevamento il loro principale, se non unico, strumento di sostentamento. Da quel ritratto di pastori solitari e abituati ad affrontare una lunga notte, vegliando sui loro greggi, Giacomo Leopardi ha una visione letteraria fra le più belle e significative della letteratura mondiale. Ci pone di fronte un uomo, silenzioso, che nella notte ha come compagnia il cielo stellato e la luna. Allora come un amante che guarda la sua bella da lontano, pronuncia le fatidiche parole: che fai tu, in ciel? Dimmi, che fai, // silenziosa luna? Lo sappiamo tutti, sono i primi due versi del “Canto del pastore”.

Da questo incipit di amore verso la natura inizia a srotolarsi una catena di dubbi e di domande. Che senso ha la vita dell’uomo, che ragione ha di soffrire, di affannarsi. Il poeta fa dire al pastore che il bimbo fa il suo primo vagito e la mamma è costretta a consolarlo di esser nato. La Luna, come la totalità del mondo naturale, rimane indifferente ai dolori dell’uomo. L’amore del pastore, incarnazione dell’intera umanità, verso il mondo naturale è letteralmente ignorato. L’amata, in questo caso la luna, è assolutamente indifferente all’amate. Anzi sembra che il mondo naturale intenda colpire ed annientare l’essere umano. Allora non rimane che continuare a piangere, continuare il lungo vagito, che iniziamo appena usciti dal grembo materno.

Questo canto, alla luce di quanto è stato interpretato e colto dai critici, è considerato l’esplicazione ontologica del cosiddetto pessimismo universale leopardiano. Tutto ciò che ci accade intorno, anche l’apparizione della bellezza dell’astro lunare, è in realtà un agguato che il mondo naturale compie alla nostra persona. Ogni avvenimento che ci riguarda è un propiziarsi ineluttabile alla morte e, cosa più temuta, al dolore. Lo scorrere della vita è il venir meno di amante compagnia, dice il poeta in un verso del Canto. Come dire che il vivere è un continuo spogliarsi di speranze e di progetti, che in realtà sono fievoli illusioni. Ma è veramente questa la poetica leopardiana? È un perdersi ineluttabile verso un pessimismo che non lascia vivere, non lascia battere il cuore alla speranza di una qualche gioia o felicità?

La risposta deve essere che così non è. L’uomo, ovviamente anche la donna, sono chiamati da un cieco giogo della natura alla disperazione. È bene ricordare che per Leopardi non vi è un disegno di un Dio nel mondo, non c’è la divina provvidenza manzoniana, non vi è un disegno immanente che regola le sorti dell’universo. L’uomo è solo. L’uomo cerca nella natura un’entità intelligente che in realtà non esiste. La Luna segue il coniugarsi casuale dell’ordine degli astri, che stanno in cielo seguendo le loro orbite non per volontà superiore, ma solo perché se non lo facessero non esisterebbero, cioè se la luna non avesse quel cammino che la contraddistingue semplicemente sarebbe precipitata sulla terra, come forse è avvenuto in altre galassie ad altri pianeti, non permettendo a essere vivente terrestre di porsi domande sulla sua e sulla nostra esistenza. Insomma vivere o morire, esistere o non esistere, pensare o non pensare sono tutti atti che a noi umani sembrano fondamento di ogni cosa, ma che in realtà sono il frutto accidentale di eventi casuali. Allora che fare davanti al non senso dell’universo? Che fare di fronte a una natura che è assolutamente indifferente non solo ai sentimenti umani, ma anche alla sua stessa esistenza? La risposta del poeta è nei fatti semplice. Bisogna rimanere attaccati alla vita, anche se è senza un senso. Bisogna fare come la ginestra, pianta che vive in prossimità dei crateri dei vulcani e protagonista assoluta di un altro Canto leopardiano, che si attacca con le sue radici alla terra, che non si erge verso il cielo, come fanno altri alberi, ma che si sviluppa lungo le increspature del suolo ove è nata, per poter affrontare impavida e determinata i terremoti, lo sgorgare della lava. Insomma deve rimanere attaccata al terreno, e raggiungere le sommità del cielo, ad esempio l’amata luna, solo con il pensiero, solo con l’anima, che per il poeta di Recanati non è la manifestazione del divino nell’uomo, ma è l’essenza stessa, il senso vero, dell’essere umanità. L’anima è ciò che ci spinge ad amare, a voler bene, a cogliere la bellezza anche nel dolore. È il moto che spinge il pastore dell’Asia a scollarsi di dosso il fardello dell’esistenza, anche se solo un attimo, a levare gli occhi dalla pesantezza del vivere terreno e a volgerli al cielo per chiedere all’astro più luminoso “Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi che fai, silenziosa Luna?”

venerdì 25 settembre 2020

PARLANDO DI COSTITUZIONE

 


ARTICOLO 75 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

“È indetto «referendum» popolare per deliberare la abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedano cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.

Non è ammesso il «referendum» per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia o di indulto, di autorizzazione a ratifiche a trattati internazionali.

Hanno diritto a partecipare al «referendum» tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati.

La proposta soggetta a «referendum» è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.

La legge determina le modalità di attuazione del «referendum».”

Il termine giuridico “referendum” si riallaccia alla espressione latina “Convocatio ad referendum”  che vuol dire convocazione per riferire. È una chiamata rivolta a tutti i cittadini per esprimere la propria volontà, per partecipare attivamente alla formazione del corpo giuridico dello stato. Infatti il «referendum» è la principale forma di democrazia diretta prevista dalla Costituzione. Dà il potere al corpo elettorale di modificare quanto stabilito dagli organi rappresentativi. Ha il potere di cancellare norme o parti di esse, assumendo esso stesso valore di atto normativo. È uno degli strumenti di partecipazione attiva della cittadinanza alla vita dello Stato. Il potere di abrogare leggi dà la possibilità di discutere e di confrontarsi collettivamente su materie giuridiche di rilevanza fondamentale. La sentenza della Corte Costituzionale numero 468 dell’anno 1990 definisce il referendum quale manifestazione di volontà definitiva ed irripetibile del corpo elettorale. In passato i cittadini sono stati chiamati ad esprimersi su istituti giuridici fondamentali, quali le leggi che regolamentavano l’uso terapeutico di pratiche abortive oppure il divorzio. Norme che hanno lacerato la società civile. Norme che venivano a toccare tematiche etiche e valoriali che suscitavano ampi dibattiti all’interno della nazione. I «referendum» hanno contribuito allo svolgimento di un confronto dialettico sereno fra le parti in materie delicatissime. Il tema del divorzio e dell’aborto è considerato un tabù da chi proviene da una formazione culturale cattolica. Invece per la cultura laica il poter scegliere di porre termine a un matrimonio oppure di decidere se portare avanti una gravidanza è un atto di libertà. Il referendum ha avuto la capacità di costringere le parti latrici di due tesi, antitetiche e inconciliabili, a discutere e a trovare un modo per confrontarsi. Al di là della valutazione sul tema specifico, i referendum sono stati un reale strumento di democrazia e di libertà. Sono stati lo strumento per esplicitare i sentimenti e le ragioni di tutta la cittadinanza. Davanti a tematiche così delicate gli italiani si sono dimostrati popolo maturo capace di sfruttare appieno gli strumenti di partecipazione diretta che gli offre lo stato.  

Perché la proposta referendaria sia considerata approvata è richiesta la partecipazione alla votazione della maggioranza degli aventi diritto. Inoltre devono dichiararsi favorevoli all’abrogazione la maggioranza dei voti validamente espressi. La Costituzione impone che una legge, ordinaria, dello stato determini le modalità d’attuazione del «referendum». La norma che attualmente svolge questo compito è la legge 352 del 1970: “norme sui referendum previsti  dalla Costituzione e sull’iniziativa legislativa del popolo”. La normativa ha istituito presso la Corte di cassazione l’ufficio centrale per il referendum. Questi è competente ad accertare che la richiesta di referendum, fatta da cinquantamila elettori o da cinque consigli regionali, sia conforme alla legge. La Corte Costituzionale ha un ruolo rilevantissimo. Secondo la legge Costituzionale numero 1 del 1953 e dell’articolo 33 della legge 352/1970 è chiamata a decidere con sentenza, quindi quale tribunale insindacabile, della legittimità del quesito referendario. Deve deliberare se la proposta di abrogazione di legge sia prevista e consentita dalla Costituzione. Deve appurare se la materia di legge in questione rientri fra quelle che lo stesso articolo 75, nel comma due, ritiene non abrogabili con referendum. Queste materie sono le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia ed indulto, di autorizzazione a ratificare i trattati internazionali. A questo proposito suscita spunti di riflessione che alcuni partiti molto votati, quale Lega e Movimento Cinque Stelle, propongano referendum sui trattati dell’Unione Europea, chiaramente non oggetto referendario per il loro carattere internazionale. Come interpretare la scelta dell’elettorato di votare partiti che si propongono di infrangere le regole costituzionali? Come interpretare il fatto che oltre la maggioranza degli italiani, sommando i voti di Lega M5S e Forza Italia, abbiano di fatto votato contro i valori costituzionali? È ora di cambiare? Di modificare in chiave sovranista, cioè nazionalista, le nostre fondamenta giuridiche? L’Italia è Luca Traini, il giovane attivista della lega che ha sparato contro delle persone di colore in nome della sovranità nazionale? Certo è che il suo segretario, Matteo Salvini, si dichiara legittimato ad assumere la carica di Presidente del Consiglio. Per ora la saggezza dei nostri padri costituenti impone che sia rispettato il principio “pacta sunt servanda”, cioè gli accordi fra nazioni vanno rispettati anche dalla sovranità popolare, dagli elettori, in nome dell’articolo 11 della Costituzione che vede nelle organizzazioni internazionali strumenti per promuovere la pace. Staremo a vedere se Lega, M5s e Forza Italia rovesceranno questi principi, forti del consenso popolare.

Bisogna sottolineare che i limiti all’utilizzo del referendum sono stati pensati per salvaguardare gli interessi superiori della nazione e del popolo. Una norma non deve essere abolita, se così facendo si attua un sommovimento tellurico che mina le basi giuridiche della Repubblica. Il referendum, almeno secondo la giurisprudenza  consolidata della Corte Costituzionale in materia, non deve creare vuoti normativi. L’abrogazione di una legge deve comportare che l’istituto novellato deva continuare ad esistere e a funzionare, anche senza la specifica norma cancellata. Il testo referendario deve essere omogeneo, puntuale, concreto ed intellegibile. Non deve contenere una tale pluralità di domande eterogenee, carenti di una matrice razionalmente unitaria, da non poter venir ricondotto alla logica dell’articolo 75 della Costituzione (così si è espressa la Corte Costituzionale con sentenza numero 27 del 1991). Bisogna chela domanda o  le domande (in caso di referendum abrogativi su più norme) poste all’elettorato siano chiare, che sia chiaro il fine e l’effetto prodotto dall’eventuale prevalere del “si”. Questo è importante soprattutto nei casi di abrogazione parziale di norma di legge. Quando non si vuole abrogare un articolo o un comma, ma solo parti di esse, il pericolo di manipolare e non di cancellare una legge è forte. Alcuni referendum sono stati utilizzati non solo per abrogare una legge ma per introdurne una nuova. È l’esempio del referendum abrogativo della legge elettorale del senato, voluto dal comitato presieduto da Mario Segni negli anni ’90 del secolo scorso. Ora la materia è estremamente delicata. La giurisprudenza della corte non ha affatto dichiarato inammissibili tali quesiti. Anzi il referendum voluto da Mario Segni si è svolto e ha prodotto un cambiamento epocale, trasformando il nostro sistema elettorale da proporzionale a maggioritario. La Corte allora ritenne che fosse ammissibile una legge che riducesse e abolisse formule giuridiche, quali quorum elettorali e maggioranze speciali, che rendevano il nostro sistema rigidamente proporzionale. Il motivo fu che il quesito voluto da Segni produceva un sistema elettorale chiaro e facilmente comprensibile dagli elettori. Altra questione sarebbe stata se invece avesse prodotto esiti non facilmente intellegibili, probabilmente la Corte l’avrebbe respinto. Insomma l’articolo 75 della Costituzione istituisce uno strumento fondamentale di partecipazione diretta dei cittadini. Uno strumento che rende attiva la cittadinanza, la rende protagonista. La volontà popolare si esercita anche attraverso questo prezioso strumento che ha avuto una gestazione travagliata. Istituito con la nascita della Costituzione nel 1947, il referendum è stato utilizzato per la prima volta negli anni ’70 del secolo scorso, quando furono varate le norme attuative dell’istituto. Un ritardo gravissimo che ha lacerato la società italiana di allora. Oggi bisognerebbe che il referendum sia utilizzato con saggezza e autorevolezza da parte dell’elettorato per incidere con fermezza sulla realtà politica italiana.

Al conclusione del processo referendario il Presidente della Repubblica  dichiara attraverso decreto l’abrogazione della norma oggetto di quesito.  Lo fa  al termine della tornata elettorale. Promulga un suo decreto in cui dichiara  l’avvenuta abrogazione della legge. che ha effetto dal giorno successivo la pubblicazione. Lo fa dopo che la Corte di cassazione ha dichiarato la vittoria del “si”. Compie l’atto di inchinarsi delle Istituzioni alla superiore volontà popolare, è lo stato, la Repubblica, che si sottomette alla superiore volontà popolare, enunciata e tutelata dall’articolo 1 della Costituzione. Il referendum è un prezioso simbolo e strumento concreto di democrazia, non lo scordiamo mai.

giovedì 24 settembre 2020

IL NUMERO DEI PARLAMENTARI

 


ORA SONO DI MENO

Chi vi scrive ha votato “si” al referendum costituzionale che chiedeva a noi cittadini se volessimo che la proposta di riforma costituzionale approvata in seconda lettura definitivamente dal Senato della Repubblica  l’11 luglio 2019 e dalla camera dei Deputati il 19 ottobre 2019 e pubblicato in gazzetta ufficiale il 12 ottobre 2019 diventasse pienamente parte della nostra Carta Costituzionale e di conseguenza modificasse gli articoli 56 e 57 della nostra carta fondamentale. Come sapete il referendum ha avuto luogo Domenica 20 e lunedì 21 settembre del 2020. Ha vinto il “si”. Si ridurranno i componenti del senato dagli attuali 315 a 200. Saranno meno anche i deputati passeranno dagli attuali 630 a 400. È stata una vittoria schiacciante. Chi, come me, ha votato “si” è stato il 70% di coloro che hanno scelto di votare per il quesito referendario. Una vittoria netta e indiscutibile. I rappresentanti del popolo che siederanno in futuro a Montecitorio e a Palazzo Madama saranno meno degli attuali.

Ma cosa succederà adesso? Come fare in modo che le due camere, da sempre popolate da un numero di senatori e deputati di oltre 1000 persone, continuino a funzionare con 600 membri? Spetta a coloro che sono stati “sforbiciati” fare in modo che la riforma funzioni. Spetta alla legislatura in corso, di cui fanno gli attuali senatori e deputati, compiere le riforme necessarie per garantire la rappresentanza del corpo elettorale e il corretto funzionamento delle future assemblee legislative in quelle future. Il loro fallimento vorrebbe dire il caos.

Il dibattito si concentra sulla legge elettorale che sarebbe necessaria per garantire allo stesso tempo governabilità e adeguata rappresentanza. Come è possibile garantire che le nuove Camere siano in grado di comporre una solida maggioranza capace di votare la fiducia all’Esecutivo venturo e allo stesso tempo garantire che ogni luogo del paese sia adeguatamente rappresentato. Trovare una risposta a questa domanda può apparire semplice, ma non lo è. Lo dimostra il passato. La Cote Costituzionale ha bocciato in passato la riforma elettorale approvata dalle Camere e presentata dall’allora ministro Roberto Calderoli, esponente importante del partito Lega nel 2014. La tesi della massima corte di giustizia italiana che tale legge elettorale non garantiva il legame fra eletto ed elettore, essendo di fatto i componenti delle camere designati direttamente dai partiti. In più dava un irrazionale premio di maggioranza alla coalizione che arrivava prima. Qualunque fosse la sua percentuale, anche solo il 20%, gli dava un “premio di maggioranza” tale da garantire il 55% dei deputati e senatori, un fatto assolutamente considerato incostituzionale dalla corte, perché non garantiva affatto l’espressione della volontà popolare, arrivando al paradosso che un governo potesse essere in carica con l’appoggio di partiti osteggiati dalla stragrande maggioranza degli elettori. La legge si ispirava ad alcune tornate elettorale degli anni ’30 del secolo scorso, in cui gli elettori erano chiamati a dare il loro assenso alle decisioni del leader del partito di governo, che aveva scelto chi dovesse occupare la camera dei rappresentanti. La Corte Costituzione dichiarò che questo modello di legge elettorale era incompatibile con la Costituzione Repubblicana.

Ora il parlamento si trova ancora una volta a dover fare i conti con la legge elettorale. La norma, ancora in vigore,  che sostituisce la Legge Calderoli denominata legge Rosati, dal primo firmatario della sua proposta, approvata ed entrata in vigore nell’ordinamento italiano il 3 novembre 2017, pur non avendo le forti criticità di natura incostituzionale della Calderoli, come traspare dal dire su di lei della Corte Costituzionale, ha molte lacune. Prima delle quali: anch’essa non permette all’elettore di votare una persona, ma una lista. La Corte Costituzionale, però, ha dichiarato che essendo tale lista “più corta”, cioè i nomi dei candidati sono meno rispetto a quelli della legge Calderoli, non intacca in modo grave e duraturo il diritto degli elettori di scegliere i propri candidati. Provo a spiegare: con la legge Calderoli ogni partito presentava nei vari collegi un listone di candidati che il votante poteva solo approvare o no, votando un altro partito. Insomma era chiamato a scegliere solo la lista, e non le persone. Con la legge Rosati, il numero dei candidati minori presenti nei collegi permetteva una rapporto più veritiero con la volontà espressa dal corpo elettorale. Rimane però il fatto che l’attuale legge non è compatibile con la forte riduzione del numero dei parlamentare. Abbisogna di una nuova norma che garantisca che realmente tutti ed ognuno abbia modo di sentirsi rappresentato dai nostri deputati e senatori. Quale legge può andare bene? Un sistema proporzionale, con possibilità di scegliere i singoli candidati, ma con una soglia di sbarramento? È la proposta che sembra auspicata dalla maggioranza che appoggia il governo Conte. Un sistema uninominale – maggioritario con collegi piccoli? È la proposta delle opposizioni Lega e Fratelli d’Italia, che fra l’altro le elezioni locali di domenica confermano che siano maggioranza nel paese. Difficile trovare un bandolo della matassa. Io penso che alla luce degli eventi non solo recenti, ma degli ultimi due decenni, la legge elettorale mista, maggioritario e proporzionale, proposta dall’attuale presidente della Repubblica, quando era sentore, Sergio Mattarella, sia quella che ha dato risultati migliori. Tornare ad essa non sarebbe un peccato.

Insomma pensare al cambiamento, pensare a un sistema parlamentare che vive con un minor numero di componenti, è indispensabile. Non c’è altra strada percorribile che riformare in maniera efficace ed immediata la legge elettorale ed anche i regolamenti delle due assise legislative. I regolamenti sono degli atti ordinativi di autonomia delle Camere che regolamentano il funzionamento delle due assemblee. Rendere questi atti a funzionare anche in presenza di un numero minore di componenti è indispensabile per far vivere ed operare le Commissioni in cui si discutono compiutamente le proposte di legge e, spesso, vengono scritti rilevanti emendamenti ad esse e addirittura, per alcune materie, le norme che diverranno legge dello stato vengono approvate direttamente nelle commissioni, senza passare dalla assemblea parlamentare in forza del terzo comma dell’articolo 72 della Costituzione Italiana. Cambiare le regole parlamentari vuol dire garantire il dibattito nell’aula in modo tale che siano rispettate le istanze di tutti, anche dei partiti minori. Insomma c’è tanto da fare. La riduzione dei parlamentari è un primo passo, indispensabile e fondamentale, ma solo il primo passo per avviare un reale rinnovamento delle assemblee legislative nazionali. Bisogna che i rappresentanti del popolo abbiano a disposizione gli strumenti reali ed efficaci per dialogare con i loro rappresentati. È urgente mettere in moto un articolato progetto di rinnovamento delle istituzioni repubblicane che permetta la partecipazione popolare. Bisogna pensare a potenziare i sistemi di partecipazione popolare: i referendum, le petizioni e le iniziative e proposte di legge popolare. Cambiare è necessario. Le proposte del Movimento Cinque Stelle volte a incrementare la democrazia diretta possono essere  la base per avviare un progetto di riforma condivisa, che non rigetti la Costituzione Vigente, ma che al contrario la renda viva e sentita come strumento di vera democrazia. Suvvia coraggio. Pensiamo al paese. Ora sono di meno (i parlamentari), ma devono compiere un atto di profondo rinnovamento che deve rendere più libero, più giusto, più felice il nostro paese, con l’aiuto di noi cittadini.

mercoledì 23 settembre 2020

LA RAGAZZA DEL SECOLO SCORSO

 


CIAO RAGAZZA DEL SECOLO SCORSO

Rossana Rossanda si era definita in un suo libro di memorie “La ragazza del secolo scorso”. Così aveva intitolato la sua autobiografia intellettuale e di attivista. Si è spenta a Roma il 20 settembre 2020, pochi giorni fa.

Era nata a Pola, quando questa cittadina era ancora italiana, il 23 aprile 1924, suo padre era un notaio con alterne fortune finanziarie. Questa instabilità economica ha caratterizzato la sua fanciullezza, formandola idealmente ai valori e alle esigenze di coloro che faticavano nella vita a trovare di che sfamarsi. Studio a Milano, fino a laurearsi in filosofia alla Statale, ove ebbe come guida ideale il filosofo Antonio Banfi, con cui si legò anche sentimentalmente fino a sposarlo. All’indomani del otto settembre 1943, quando l’Italia scelse di combattere contro il dominio nazista, scelse di essere partigiana. Fu una staffetta, portò le missive e gli ordini in tutto il Nord Italia, occupato, rischiando ripetutamente la vita.

Alla fine della guerra spese la sua intelligenza e versatilità intellettuale al servizio del Partito Comunista Italiano. Era convinta che il PCI fosse in grado di farsi latore di quel bisogno di emancipazione sociale che caratterizzava la società italiana che usciva dai tremendi anni della dittatura fascista. Si impegno a Milano nella edificazione della locale “Casa del popolo”, che diventò grazie a lei luogo di incontro e di formazione di operai, contadini, ma anche di studenti e di scrittori che in futuro saranno i pensatori del Partito Comunista. Col senno di poi fu una delle facitrici di quella “intelighentia di sinistra”, cioè di quel gruppo di pensatori che elaborarono una cultura italiana del XX secolo convintamente di sinistra. Atto che fu ed è disprezzato da persone del passato come Mario Scelba e del presente come Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. Certo quel sommovimento culturale di allora, si parla degli inizi della seconda metà del XX secolo, hanno segnato la storia culturale del paese.

Il lavoro di aggregazione culturale che Rossana Rossanda compiva a Milano, all’indomani del Referendum che fece diventare l’Italia una Repubblica, fu notato dall’allora segretario del partito comunista italiano, Palmiro Togliatti. Il Migliore, come era soprannominato dai suoi il capo dei comunisti, volle Rossanda alla direzione del ramo “Cultura” della segreteria nazionale del partito. In questo ambito la ex partigiana conobbe i più grandi intellettuali dell’epoca. Frequentò Jean Paul Sarte, Bertold Brecht. Anzi fu lei che mise in contatto il PCI con la principale leva intellettuale di sinistra di dell’Europa Occidentale. Sarte ebbe modo di conoscere e di apprezzare la cultura italiana proprio attraverso il dialogo serrato che ebbe con la Rossanda. Il PCI era non solo il più partito comunista occidentale con più consensi, ma anche il più all’avanguardia nel dibattito culturale e ideale, e non solo quindi ideologico, dell’epoca. Rossana Rossanda si mise convintamente all’opera per creare quella cultura popolare che doveva essere il motore del sommovimento sociale, che fosse rivoluzione o vittoria elettorale non contava, che doveva portare al potere il proletariato nel nostro paese. Una cultura popolare che doveva essere la magnifica congiunzione della tradizione rurale e industriale del popolo italiano, irrobustito dal pensiero di alcuni intellettuali formatisi sotto il fuoco redentore e formatore del Marxismo.

Ovvio che questo pensiero oggi fa paura non solo alla “reazione”, come venivano chiamati gli avversari del PCI dalla gente di sinistra, ma anche noi semplici cittadini e persone che hanno visto gli effetti di morte e di persecuzione che il cosiddetto “socialismo reale” ha portato. Rossana Rossanda, come la maggior parte degli attivisti di sinistra del passato in Italia, credevano convintamente che il comunismo avrebbe portato libertà, giustizia sociale e più democrazia. Hanno scelto di guardare dall’altra parte quando era evidente che ciò che succedeva nell’Est Europa e in Cina non era il compimento del mondo di pace tanto agognato, ma una prigione che torturava il corpo e le menti di milioni di uomini. Sia chiaro la Rossanda negli anni 60 e 70 del XX secolo ha denunciato quello che definiva “storture del governo comunista sovietico”, ma non fino alla radicale messa in discussione delle fondamenta ideologiche di quei regimi, non fino al punto da scegliere la democrazia contro la finta democrazia popolare dell’Europa Orientale. Fondò il collettivo e poi il giornale”Il“Manifesto” assieme ad alcune teste importanti della sinistra marxista italiana, fra cui Luigi Pintor, compagno di scelte ideali fino alla fine. Ma la Rossanda non criticò a fondo l’ideologia marxista, sposò anzi le idee di mao Tse Tung, facendo finta di non vendere gli orrori che la “Grande Guida” stava di fatto avallando e concretamente ordinando. Mao diede ordine alla sua “Guardia Rossa” di imprigionare e di uccidere oppositori di ogni genere. Eppure la Rossanda mai denunciò questi fatti fino al 1989, il tempo di Tien an men, ma allora era tardi, Mao era morto da tempo.

Ma se tralasciamo i suoi errori, pur gravissimi, di campo, non possiamo tacere della sua estrema ed efficace forza intellettuale che l’ha resa fra le più grandi giornaliste italiane del XX secolo e del nascente XXI. I suoi articoli erano e sono di una efficacia strabiliante. La sua sensibilità riusciva a tramutare  le sue parole in colpi di rasoio micidiali oppure carezze delicate a seconda che volesse colpire un’idea che reputata assolutamente sbagliata o volesse esaltare un uomo o una donna che considerava meritevole di complimenti. È stata una delle lingue critiche dell’Italia corrotta degli anni 80, dell’Italia indecisa sul suo futuro degli anni ’90 e dell’Italia “populista” di oggi. Fa stringere il cuore il sapere che le ultime cose che ha voluto fare sono state il guardare il mare e assaporare il vento di brezza che spira sulle spiagge vicine a Roma. La sua opera, il suo ingegno, il suo impegno sociale e politico rimarranno per sempre fra gli atti più importanti della comunità filosofica italiana.

martedì 22 settembre 2020

PARLANDO DI COSTITUZIONE

 


ARTICOLO 74 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

“Il Presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione.

Se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata”.

Il Presidente della Repubblica non è un mero notaio. Il suo compito non si riduce a porre una firma su una legge voluta e redatta dal Parlamento. Quando l’ultima camera che approva un disegno di legge la trasmette alla Presidenza della Repubblica chiede che il primo cittadino dello stato si faccia garante che tutto sia avvenuto con rispetto dei principi fondamentali della Repubblica. Il Presidente della Repubblica si erge a garanzia dei cittadini e dei valori fondanti del nostro stato. Per questa ragione può rifiutarsi di porre il proprio sigillo su una proposta di legge e rimandarla alle Camere per una più attenta meditazione sul testo. È un atto di tutela. È una volontà di porre un vincolo di garanzia contro un eventuale atto contrario ai principi fondanti del nostro  stato. Il presidente, firmando e promulgando una legge, la perfezione. Una norma non entra nel nostro ordinamento giuridico senza la sua firma. Ma il presidente della Repubblica non può e non deve scendere nell’agone politico. Il suo giudizio sul testo normativo approvato dalle assemblee parlamentari non deve essere sul merito. Chi decide i contenuti di una legge sono le due Camere. Il suo compito è garantire l’integrità costituzionale.  L’articolo 74 della Costituzione richiama a un dovere di responsabilità dell’inquilino del Quirinale verso la Nazione. I cittadini hanno in lui  un difensore dei principi fondamentali del nostro stato. Ma il presidente della Repubblica non ha potere di veto. Deve chinarsi sempre e comunque alla sovranità popolare che si manifesta nell’autorevolezza delle due camere nelle quali siedono i rappresentanti del popolo. Se un progetto di legge, approvato dalle due Camere, manifesta lampanti incongruenze e divergenze con La Costituzione, il Presidente della Repubblica deve rinviarlo una prima volta alle Camere, ma se entrambe le Camere lo riapprovano, il presidente deve tassativamente promulgarlo. Il testo normativo deve entrare nell’ordinamento giuridico dello stato. Il Presidente della Repubblica non ha il potere di veto. Non può e non deve intralciare le scelte dei due rami del parlamento. Il suo compito, preziosissimo, è quello di sottolineare alcuni aspetti, se li individua, che sono contrari all’ordinamento costituzionale. Sindacare sulla costituzionalità di una legge spetta a un organo appositamente istituito dalla nostra Legge Fondamentale. È la Coste costituzionale, istituita e regolamentata dal Titolo VI della Costituzione, che avrà il compito di analizzare nel merito una legge sospetta di essere incompatibile con il dettato costituzionale ed espellerela, con sentenza, dal nostro ordinamento giuridico. Il Presidente della Repubblica è una sentinella. È colui che grida “allarmi” quando vede un incendio. È colui che censura il Parlamento quando è lampante che il suo operare sia incompatibile con la Costituzione. Se il suo grido è inascoltato, se le due Camere comunque approveranno la norma che ritiene incostituzionale. Se il messaggio scritto che invia alle Camere con le motivazioni del suo rifiuto a firmare la prima volta la legge, viene inascoltato, deve firmare e promulgare la legge. Spetterà alla Corte Costituzionale, eventualmente coinvolta secondo la legge sulla questione, esprimersi. La Repubblica dà al suo Presidente poteri di persuasione e di dialogo. Il compito del Presidente è quello di indurre alla ragione le forze politiche. Se queste rifiutano i suoi ammonimenti non può far altro che accettarne le decisioni. Bisogna dire che nella storia Repubblicana sono stati molti i casi nei quali il Parlamento non è stato sordo agli ammonimenti del Presidente. Molte leggi rinviate alle camere sono state ridiscusse e modificate seguendo gli ammonimenti dell’inquilino del Colle. Molte leggi, grazie ai duri rimbrotti di presidenti quali Sandro Pertini e Carlo Azeglio Ciampi, sono state ridiscusse e modificate. Noto è lo scontro fra Carlo Azeglio Ciampi e l’allora maggioranza di governo  formata da lega e Forza Italia. La destra italiana, forte del consenso popolare, voleva porre leggi a salvaguardia di tutti coloro che avevano commesso illeciti finanziari. La Lega e Forza Italia, che allora si chiamava Popolo delle Libertà, volevano porre fine a tangentopoli, la grande inchiesta giudiziaria che aveva messo alle strette politici e imprenditori. Gli elettori avevano dato mandato a Berlusconi di aiutare chi aveva soldi all’estero detenuti illegalmente, chi aveva lavoratori in nero. Ciampi si oppose a questa politica, in nome della Costituzione che imponeva principi di rispetto delle legalità. Col senno di poi Ciampi aveva torto, Berlusconi ragione. Le ultime elezioni hanno visto votare in massa, soprattutto a Nord Italia, la Lega che si batte per i tanti che finiscono sotto inchiesta per ragioni finanziarie. Rimane il fatto che Ciampi rinviò le leggi “salva ladri”, non per fare un dispetto agli elettori di destra, ma per tutelare valori costituzionali. Salvini e Berlusconi devono mutare la Costituzione. Devono cancellare gli articoli che impongono il rispetto della Legalità, lo devono fare per adempiere al mandato degli elettori e per evitare che altri come Cesare Previti, Umberto Bossi, lo stesso Silvio Berlusconi subiscano l’onta di un’inchiesta giudiziaria o addirittura un processo. Speriamo che lo facciano presto. Speriamo che questo parlamento riesca a fare leggi che tutelino gli uomini di destra dalla magistratura, senza che un presidente della Repubblica possa porre freno alla volontà popolare che vuole difendere chi evade le tasse. Silvio Berlusconi in queste ore ha promesso di mettersi a capo della coalizione. Ha promesso che subentrerà a Salvini nelle trattative per la formazione delle Camere. Sarà un modo per rendere realizzabile quel “patto con gli Italiani” che Lega e Forza Italia hanno firmato finalizzato per difendere chi non rispetta la legge. Sergio Mattarella che farà? Anche lui non promulgherà le leggi salva tangentisti, come fece Ciampi? Staremo a vedere..

lunedì 21 settembre 2020

UNA GIUDICE

 


BEH! C’ERA UN GIUDICE A WASHINGTON

Vi ricordate la storica frase ripresa da Berlod Brecht  in una delle sue opere e, sembra, pronunciata realmente da un mugnaio tedesco nel ‘700 per chiedere giustizia contro i soprusi di un nobile: “c’è un giudice a Berlino?”. Questa frase è diventata la bandiera di chi è convinto che chiunque dal più potente e influente politico all’ultimo cittadino, si direbbe con termine antico e discusso, proletario è sottomesso alle leggi. Anche il re, se si è in una monarchia, anche il presidente della Repubblica devono rispondere dei propri atti davanti a un giudice, se hanno commesso reati. Ora questo articolo vorrebbe evocare la vita e la dirittura morale di un grande giudice statunitense. Si chiamava Ruth Bader Ginsburg. Era un membro della Corte Suprema, la più alta assise giudiziaria degli Stati Uniti. Aveva 87 anni. È morta l’altro ieri, sabato 19 settembre 2020. È stata la prima donna ad essere membro dell’alta corte. Ma c’è di più è stata fra le prime nove donne ad laurearsi ad Harward in Legge, calasse 1933 figlia di modesti immigrati ebrei e già madre a 23 anni.

La sua nomina alla corte suprema è stata voluta dal Presidente Bill Clinton nel 1993. La giudice si era già distinta per una carriera estremamente brillante, volta alla difesa dei diritti civili. La Ginsburg si era impegnata  per la sua indefessa rivendicazione dei diritti delle donne. È sua la storica frase che segna la storia delle lotte liberali per il femminismo: non chiedo favori per il mio sesso, ma solo che i nostri fratelli smettano di calpestarci. È una convita sostenitrice del diritto come strumento reale di difesa dei diritti. Non concepisce l’idea che un avvocato o un giudice siano “Azzecagarbigli”, per dirla alla Manzoni. Insomma non ci sono, o meglio non ci devono essere mezzucci. Il diritto deve essere sinonimo di giustizia. La legge deve essere verità. Se così non è bisogna cambiarla. Questa era la convinzione della Ginsburg. Per lei la Costituzione Americana era lo il baluardo dei diritti di tutti. Considerava i principi da essa enunciati come norme fondamentali che valgono per tutti gli esseri umani, tanto più per le donne. Gli “Emendamenti”, come vengono chiamati gli articoli del preambolo della Costituzione Americana ove vengono enunciati i diritti fondamentali dell’uomo, sono stati la base del suo lavoro e della sua vita da studiosa del diritto. La legislazione americana è allo stesso tempo frutto della combinazione di principi e leggi date fin dalla nascita della Repubblica, scritti durante la convenzione di Filadelfia del 1787, e da ulteriori aggiornamenti della cultura giuridica, ad esempio valori fondamentali come l’abolizione della schiavitù, il diritto di tutti i cittadini ad avere pari diritti e doveri al di là della razza, termine tremendo, del sesso e della provenienza familiare sono stati conquistati in un lento processo normativo e intellettuale che si conclude negli anni ’60 del secolo scorso, proprio quando la Ginsburg si affaccia al mondo del diritto e dei diritti.

Ruth Bader Ginsburg è stato un faro della giurisprudenza e della dottrina non solo nel suo paese, ma nell’intero mondo. In Occidente le sue tesi sono state il motore delle rivendicazioni politiche, sociali e giuridiche di tutte le donne. Anche inconsapevolmente chi manifestava per il diritto all’autodeterminazione giuridica del cosiddetto “sesso debole”, rivendicando il diritto della donna a ricevere in eredità senza la curatela o la tutela di un uomo, di accedere ad alte cariche dello stato e ad ambire a posti di lavoro di vertice, faceva propri i concetti giuridici esposti con caparbietà dalla Ginsburg. La sua presenza alla Corte Suprema America ha segnato una stagione di diritti. Sono storici i suoi “mi oppongo” che pronunciava con decisione, fino ad apparire ostinazione, ad ogni sentenza che violasse i diritti fondamentali delle donne e dei più deboli. La sua battaglia per ribadire con forza il valore assoluto e universale della dignità umana ha dato perfino da torcere al burbero Donald Trump, che si è dovuto, in alcuni casi, arrendere a lei, alla piccola giudice, quando rivendicava il diritto alle giovani madri messicane, ma con figli nati negli USA quindi cittadini degli States, a stare vicino ai propri piccoli, in nome del diritto alla maternità.

 La morte del giudice Ginsburg è un lutto per l’intera umanità, per i fautori del principio che la legge è fatta per gli uomini, e per le donne, e non il contrario. Che i valori assoluti di giustizia, libertà ed eguaglianza devono muovere lo spirito di chi giudica in base alle norme e di chi quelle norme le fa, la politica. Ci sono valori e principi universali che l’interesse di parte non può e non deve ignorare, ecco il monito della giudice morta qualche giorno fa. Alla luce di questo appare veramente poca cosa la polemica in ambito del partito Democratico Americano contro di lei, che scelse pochi giorni prima dell’ascesa alla Casa Bianca di non dimettersi. Le sue dimissioni di allora avrebbero permesso all’allora presidente in carica, barack Obama, di nominare un membro della corte democratico, compito che ora spetta al Repubblicano Donald Trump. Perché questa polemica? Ricordiamo che i giudici della Corte Suprema sono nominati dal Presidente degli Stati Uniti con il consenso del Senato. Hanno una carica a vita, che può essere interrotta solo dalla morte o dalle dimissioni. Oggi insomma il Repubblicano Trump, con il supporto di un senato ancora a maggioranza composta da membri del suo partito, potrà sostituire la liberal Ginsburg con un magistrato conservatore. Ma alla luce del peso morale e giuridico della donna del diritto queste polemiche appaiono poca cosa.

domenica 20 settembre 2020

PARLANDO DI COSTITUZIONE

 


ARTICOLO 73 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

“Le leggi sono promulgate dal Presidente della Repubblica entro un mese dall’approvazione.

Se le Camere, ciascuna a maggioranza assoluta dei propri componenti, ne dichiarano l’urgenza, la legge è promulgata nel termine da esso stabilito.

Le leggi sono pubblicate subito dopo la promulgazione ed entrano in vigore il quindicesimo giorno successivo alla loro promulgazione, salvo che le leggi stesse stabiliscano un termine diverso”.

Dopo che una proposta o un disegno di legge è stato votato e approvato dalle due Camere, per diventare norma vincolante per tutti i cittadini, deve essere promulgata dal presidente della Repubblica. Il primo cittadino dello stato pone un visto, mette la sua firma, sull’atto normativo. È un modo per controllare che la legge nascente sia rispettosa nella forma e nella sostanza ai dettami costituzionali. L’articolo 73 della Costituzione dà all’inquilino del Quirinale l’arduo compito di vigilare che la norma nascente non incrini gli equilibri istituzionali e non sia contrario alla Legge Fondamentale dello Stato. Il Presidente della Repubblica è vincolato temporalmente. La promulgazione non può attendere oltre un mese dall’approvazione delle Camere del testo normativo. Ciascuna Camera a maggioranza assoluta dei propri membri può dichiarare l’urgenza della legge, di conseguenza la nuova norma è promulgata, quindi entra in vigore, nel termine perentorio stabilito dalle assemblee deliberanti. L’a formula della promulgazione è prevista dal’articolo 1 del Decreto del Presidente della Repubblica 1092 del 1985 (testo unico delle disposizioni sulla pubblicazione delle leggi, sull’emanazione dei decreti del presidente della Repubblica e sulle pubblicazioni ufficiali della Repubblica Italiana). La promulgazione delle leggi, secondo il d.p.r. su citato, deve avvenire per decreto del presidente della repubblica. Con la promulgazione il Capo dello Stato costata e garantisce che la legge è stata approvata dalle due assemblee parlamentari. Ordina la sua pubblicazione, dopo che il Guardasigilli(ministro della giustizia) ha posto il suo visto e iscrive nel decreto di promulgazione la formula perentoria: è fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello stato. Il presidente della repubblica può rifiutarsi di promulgare una legge. Può compiere questo gesto di ripulsa se ritiene che l’atto normativo sia contrario alla Costituzione e sia un gravissimo nocumento alla stessa esistenza della Repubblica. Può rimandare la norma alle Camere, con messaggio motivato. Deve spiegare le ragioni del suo gran rifiuto. Spesse volte il Presidente si è rifiutato di firmare una legge e di promulgarla, perché ha ritenuto che violasse l’articolo 81 della Costituzione, cioè ha ritenuto che il parlamento non avesse rispettato l’obbligo di copertura finanziaria. Ma ci sono stati rinvii alle Camere che hanno riguardato altre violazioni costituzionali. Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga rinviò, negli anni ’90 del secolo scorso, una legge sull’obiezione di coscienza. La Legge regolamentava le modalità di servizio allo stato alternative alla leva militare. Il presidente censurò la norma ritenendola incongruente ai principi sanciti dall’articolo 52 della Costituzione, che sancisce l’obbligo di ogni cittadino di compiere il servizio militare. Il rinvio avvenne in concomitanza delle ultimi fasi della legislatura. Il Parlamento si dovette riunire in maniera eccezionale per riapprovare la legge respinta dall’inquilino del colle. Questo fu necessario per evitare che la mancata firma del presidente fosse di fatto equivalente a un veto. Il nostro capo dello stato non può e non deve impedire che una legge sia approvata, non può imporre un veto come è d’uopo fare il presidente degli Stati Uniti. Il rinvio alle camere è una richiesta di un più approfondito dibattito da parte delle Camere, non è una censura. In caso di riapprovazione delle Camere della proposta di legge in seconda lettura il Presidente della Repubblica deve tassativamente promulgare la legge, a meno che questa non leda in maniera lampante le basi fondamentali del nostro stato, insomma non basta che sia incostituzionale ma deve essere eversiva, producente di effetti distruttivi per la Repubblica,in tal caso si può rifiutare anche la seconda volta di promulgarla ma questo è un caso da ritenersi solo di scuola. Le leggi sono pubblicate subito dopo la promulgazione ed entrano in vigore il quindicesimo giorno successivo alla loro pubblicazione. È il terzo comma dell’articolo 73 ad imporlo. La pubblicazione della legge è curata dal ministro della giustizia, come afferma il Decreto del Presidente della Repubblica 1092 dell’anno 1985. La Pubblicazione avviene per mezzo della Gazzetta Ufficiale. La Norma viene inserita anche nella Raccolta Ufficiale degli Atti Normativi della Repubblica, un enorme archivio cartaceo che conserva tutti gli atti normativi dello stato. La legge viene numerata e indicata in base all’anno in cui è stata promulgata dal presidente della repubblica. Questo è un modo per chiarificare il tempo in cui è entrata a far parte dell’ordinamento giuridico italiano. Le leggi inserite con numero superiore saranno dichiarate posteriori alla legge stessa, quelle inserite con numero inferiore invece sono considerate antecedenti. Questa scelta è importante. Infatti una legge può modificare una norma di pari grado anteriore. Se due norme sono in contrasto, ha prevalenza quella entrata a far parte dell’ordinamento giuridico più tardi. Appare lampante quindi che stabilire il giorno della pubblicazione di una norma è importantissimo. Altra cosa è l’entrata in vigore. È norma generale che una legge sia vincolante erga omnes, per tutti, il quindicesimo giorno dopo la sua pubblicazione. È l’articolo 73 ultimo comma della Costituzione a stabilirlo. È una norma generale che disciplina l’entrata in vigore della legge. Però il Parlamento può stabilire deroghe a questo principio. Può anticipare l’entrata in vigore di una norma, fino ad azzerare i tempi di effettività normativa. Questo avviene ad esempio per gli aumenti delle accise. La legge per evitare pericolose speculazioni, fa entrare immediatamente in vigore gli aumenti di benzina, sigarette o di altri prodotti sottoposti a tassazione immediatamente, al momento della promulgazione del decreto. Vi sono casi in cui la legge allunga i tempi di entrata in vigore di un testo di legge, ben al di là dei quindici giorni. Questo avviene soprattutto se la legge necessita di una serie di adeguamenti amministrativi per essere applicata. Ad esempio le norme che hanno bisogno di un regolamento attuativo, che hanno bisogno di testi di attuazione spesso hanno necessità di tempi lunghi per essere pienamente operanti ed entrare in vigore. Esempio è la norma sul cosiddetto “testamento biologico”, approvata nella scorsa legislatura. La legge dà la possibilità di scegliere quali cure seguire, in caso di malattia cronica e irreversibile. Dà la possibilità al singolo cittadino di scegliere, quando si sta bene, se in caso di malattia che conduce irrimediabilmente alla morte, i medici devono continuare a mantenere il soggetto in stato vegetativo, “attaccato a un respiratore”, od accompagnarlo al sonno senza ulteriori sofferenze. Bene questa legge necessita di regolamenti attuativi che istituiscano banche dati, che riescano anche a tutelare la privacy, e un sistema di sportelli pubblici che facilitino le scelte dei cittadini. Una legge con un iter applicativo così complesso necessita di tempi più lunghi. Insomma una legge per entrare in vigore necessita di strumenti tecnico amministrativi che necessitano un ulteriore tempo di “vacanza”, come si dice in gergo il lasso di tempo fra la promulgazione della legge e la sua effettiva entrata in vigore. Insomma è compito del Parlamento stabilire i tempi e i modi di applicazione delle leggi che lui stesso ha votato. È bene che il testo normativo, come afferma la costituzione, contenga le modalità e le linee generali volte alla sua attuazione

ITALIANI AL VOTO




IL REFERENDUM PER IL TAGLIO DEI PARLAMENTARI

 il quesito referendario è inevitabilmente circoscritto. Non si sta facendo una riforma globale della seconda parte della Costituzione, come volevano fare Forza Italia (PDL) e Lega nel 2006, tanto meno una riforma globale del sistema parlamentare, come voleva fare Renzi nel 2016. Si stanno "chirurgicamente" cambiando alcune parole e numeri contenuti negli articoli 57 56 e 58 della carta costituzionale al fine di diminuire il numero dei senatori e deputati. Io sono propenso a darle ragione signor Mario Urbano, le ragioni del "no" sono più corpose e ragionate di quelle del "si". La fragilità degli assunti, purtroppo, è palesemente manifestata dall'atteggiamento parecchio oscillante del PD, che ha votato per tre volte "no" e l'ultima "si" dimostrando, di nuovo dico purtroppo, che il suo voto era legato più che a un ragionamento di natura costituzionale a un sommovimento frutto di un interesse meramente strategico e politico. Così non va bene! Ma io sono dell'idea che la Costituzione debba essere innovata per preservare nella sostanza i suoi principi ispiratori: che sono la solidarietà, l'unità nazionale, il lavoro come strumento per dare dignità a tutti, la tutela della salute di tutti e di ognuno etc. Questa riforma costituzionale che ci apprestiamo a votare può essere l'avvio di un corposo rinnovamento del nostro sistema istituzionale? francamente non lo so, ma me lo auguro. Il parlamentarismo è il fondamento del nostro sistema statuale, senza la sovranità delle due Camere semplicemente non c'è Repubblica Italiana, magari ci sarebbe un'altra forma di stato, ma ben diversa da questa. Allora deve essere chiaro che difendere la costituzione vuol dire difendere il ruolo del nostro Parlamento. Renderlo più efficace e farlo ancor più diventare il "pivot", cioè il regolatore, del libero confronto democratico che non può prescindere da lui, ma che allo stesso tempo è anche esplicitato in altri luoghi pubblici, penso alla Scuola, alle sedi lavorative, ma anche alle associazioni di partito o di volontariato o di altro. Per far questo allora in numero dei parlamentari diventa un concetto relativo. Se il parlamento diventa più efficace, se garantisce un legame con il territorio diminuendo il numero dei parlamentari ben venga, ma potrebbe non essere così. Ecco perché la nostra opinione espressa al referendum di oggi è importantissima, potrebbe decidere in bene o in male i destini di tutti noi

PARLANDO DI COSTITUZIONE

 


ARTICOLO 72 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

“Ogni disegno di legge, presentato ad una Camera è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una commissione e poi dalla Camera stessa, che lo approva articolo per articolo e con votazione finale.

Il regolamento stabilisce procedimenti abbreviati per i disegni di legge dei quali è dichiarata l’urgenza.

Può altresì stabilire in quali casi e forme l’esame e l’approvazione dei disegni di legge sono deferiti a commissioni, anche permanenti, composte in modo sa rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari. Anche in tali casi, fino al momento della sua approvazione definitiva, il disegno di legge è rimesso alla Camera, se il Governo o un decimo dei componenti della Camera o un quinto della commissione richiedono che sia discusso o votato dalla Camera stessa oppure che sia sottoposto alla sua approvazione finale con sole dichiarazioni di voto. Il regolamento determina le forme di pubblicità dei lavori delle Commissioni.

La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale e per quelli di delegazione legislativa, di autorizzazione a ratificare i trattati internazionali, si approvazione di bilanci e consuntivi.”

L’articolo 72 della Costituzione indica quali siano le misure volte all’approvazione di una proposta di legge. La dottrina indica con termine “disegno di legge” una proposta legislativa del governo. Appare chiaro che il termine “disegno di legge” inserito nel contesto lessicale dell’articolo 72 della Costituzione debba invece valere per ogni tipo di proposta di legge. Questa premessa è necessaria, perché deve essere lampante che l’iter legislativo indicato da questo articolo costituzionale vale per l’approvazione di qualsiasi norma ordinaria. Le leggi che modificano materie costituzionali,  che cambiano la stessa costituzione o che vanno a novellare norme equiparate a quelle costituzionali, seguono un diverso iter istitutivo regolamentato dagli articolo  138 e 139 della stessa carta fondamentale. Il tema lo tratteremo in futuro. Oggi parliamo del procedimento di formazione di leggi ordinarie. Il progetto di legge viene preliminarmente esaminato e discusso de una commissione legislativa. La commissione competente per materia esamina il testo in sede referente. Poi la trasmetterà alla assemblea, che dibatterà e approverà il testo. Urge sottolineare che il compito della commissione non è meramente istruttorio,cioè di preparazione al dibattito assembleare, ma può anche proporre modifiche al testo originario e redigere un testo di sintesi che accomuni proposte di leggi simili e di argomento comune. Un’opera di compendio importantissimo che può essere un prezioso aiuto per snellire il lavoro parlamentare. Esaurita l’analisi preliminare la Commissione trasmette all’Assemblea il progetto di legge. Il progetto di legge viene discusso, nelle sue linee generali, al fine di accertare, attraverso il voto, se l’Assemblea sia o meno favorevole allo stesso. La discussione preliminare si chiude con l’approvazione dell’ordine del giorno che mette in programma l’iter legislativo. In caso di bocciatura dell’ Ordine del Giorno, si ritiene che la Camera abbia espresso il suo volere di censurare l’iniziativa di legge. In caso di approvazione, invece, si passa alla discussione e alla votazione articolo per articolo del testo. Approvati tutti gli articoli, si sottopone il progetto nel suo complesso alla votazione finale, per la quale è richiesto lo scrutinio palese, tranne che la materia trattata non sia fra quelle per cui la costituzione e i regolamenti parlamentari prevedono un voto segreto. La votazione finale del progetto di legge non è pleonastica. Non necessariamente l’approvazione dell’iniziale ordine del giorno e l’approvazione dei singoli articoli comportano l’assenso dell’intero corpo della proposta di legge. I singoli articoli e gli emendamenti possono essere stati approvati da maggioranze spurie diverse e contingenti. Potrebbe essersi formato un testo normativo teleologicamente diverso dalle finalità che si erano proposti i proponenti il disegno di legge. È bene che un voto finale sancisca che la Camera approvi nella sua interezza il testo. Questo procedimento appena citato è detto ordinario. Deve essere applicato per alcune norme. Deve essere applicato per disegni di legge in materia di rilevanza costituzionale. Per i disegni di legge elettorale, per quelli di delegazione legislativa, di autorizzazione a ratificare i trattati internazionali, di approvazione di bilanci e consuntivi.

Il procedimento abbreviato è previsto dall’articolo 72, comma 2. Questi dispone che i regolamenti camerali possono stabilire procedimenti abbreviati per i progetti di legge dei quali è dichiarata l’urgenza. In realtà non si tratta di un procedimento differenziato da quello detto ordinario. Vi è solo una riduzione dei tempi di approvazione. Lo può chiedere il governo, se il disegno di legge è di particolare urgenza.

Altra cosa è il procedimento decentrato. Non ci sono riduzioni dei tempi del dibattito, in questo caso. Le commissioni legislative non si limitano (come nel procedimento ordinario) ad esaminare il progetto di legge. Lo approvano in maniera definitiva, senza passare dall’assemblea generale. Per questo si definisce decentrato, non si svolge davanti al plenum della camera bensì in sede decentrata, in commissione. La legge, votata solo in commissione, è considerata approvata dall’intera assise del ramo del parlamento di cui la commissione fa parte. L’assegnazione del testo normativo alla commissione in veste deliberante è affidata ai presidenti delle Camere. Unica differenza è che il presidente del Senato comunica solamente all’assemblea la sua decisione, mentre la scelta del Presidente della Camera deve essere approvata con voto dall’assemblea. Insomma sono la terza e la seconda carica dello stato a decidere se una legge sarà approvata con rito ordinario o decentrato. Come abbiamo detto il procedimento decentrato prevede che tutto il testo di legge sia approvato dalla sola commissione competente, una volta compiuti gli atti di votazione il testo passa o all’altra camera, se deve essere ancora approvato da essa, o alla firma del presidente della Repubblica che ne integra l’efficacia e la rende legge dello stato, attraverso la sua firma, e vincolante per tutti i cittadini. C’è invece un procedimento misto. Consiste nella votazione in commissione degli articoli di legge, ma la votazione finale dell’intero atto normativo è appannaggio dell’assemblea. La scelta fra i due procedimenti è a discrezione dell’assemblea che può scegliere quale sia l’iter più opportuno per garantire allo stesso tempo la celerità dell’approvazione e la pubblicità dell’atto. Ci possono essere norme che per la rilevanza pubblica rendano necessario un voto dell’intera assemblea, pur non essendo fra le leggi che obbligatoriamente debbano essere approvate per norma ordinaria. A chiedere il dibattimento in aula, contro l’eventuale volontà dei presidenti delle assemblee, possono essere 1/10 dei parlamentari o 1/5 dei membri della Commissione. Davanti a tali richieste i presidenti dei due rami del parlamento devono riportare in aula discussione sul disegno di legge. Per diventare norma giuridica il testo deve essere dibattuto con procedimento ordinario. Questa scelta è voluta per garantire le minoranze. In commissione una legge controversa può essere votata anche senza che si manifestino nella loro compiutezza le linee d’ombra che la riguardano. In un convegno ristretto di persone, quale una commissione, gli scontri dialettici e le divergenze vengono assopite. Da una parte è un bene. Molte leggi che sarebbero state approvate con difficoltà dall’intera Camera in commissione vengono approvate celermente, superando le differenze politiche. In casi di dubbi e di incertezze, però, è bene che l’assemblea intera deliberi, al fine di dare contezza delle differenze politiche e delle censure alla legge delle varie forze. Insomma il ritorno in aula di una proposta di legge è un modo per garantire trasparenza e correttezza. Insomma il comma terzo dell’articolo è fonte di celerità, ma allo stesso è una garanzia volto ad evitare che una legge possa essere approvata non in maniera trasparente. È compito di ogni singolo membro della commissione vegliare affinché non avvenga mai che una legge sia approvata in commissione per celare loschi o pochi chiari fini di natura politica o per tutelare gli interessi privati di qualcuno. È bene che una legge sia posta al vaglio pubblico, affinché non sia utilizzata per fini contrari al buon senso e al bene pubblico. Non è un caso che norme di grande importanza, quali i disegni di legge in materia costituzionale, non possano essere approvati in sede decentrata. Queste norme devono godere della massima pubblicità, che solo il dibattimento in aula può garantire. Le leggi di approvazione dei trattati internazionali, mai e poi mai, possono essere approvati in Commissione. Lo stesso vale per le leggi di delega al governo, norme che autorizzano l’esecutivo a produrre atti equiparati alle leggi, come nel caso delle leggi delega che autorizzano l’esecutivo ad emanare decreti legislativi (atti del governo equiparati alle leggi approvate in parlamento), non possono essere approvati né con procedimento decentrato né tantomeno misto. Insomma la Costituzione garantisce che alcune norme, per essere approvate, devono necessariamente seguire il procedimento ordinario. È un modo per garantire i cittadini, per garantire il sano rapporto istituzionale fra organi dello stato e per garantire il corretto funzionamento della Repubblica.

Scritto da Gianfranco Pellecchia

IL GIORNO DEL VOTO


 CAMBIARE

Oggi, 20/09/2020, e domani siamo chiamati ai seggi per partecipare al referendum costituzionale sulla proposta di legge costituzionale , notate bene è solo una proposta di legge anche se è stata approvata per due volte dalle due Camere, che modificando gli articoli 56, 57 e 59 della nostra carta fondamentale ridurrà fortemente il numero dei componenti delle due alte camere legislative della nostra Repubblica: la camera dei deputati e il senato. Se oggi vincesse il “si” dalla prossima legislatura i componenti della camera dei Deputati si ridurranno dagli attuali 630 a 400 e i senatori eletti passeranno da 315 a 200. Certo a primo acchito la voglia di mandare a casa un folto gruppo di parlamentari è tanta. Gli scandali, le indecisioni, i morti che hanno caratterizzato questi mesi spingono a punire la politica. Ormai per le persone la politica è fonte di scandalo, ridurre le sue competenze e il numero dei politici è quasi un obbligo. Per i cittadini diminuire  il numero di politici è quasi un atto liberatorio. Oggi è politica è quello che è successo al Pio Albergo Trivulzio di Milano, in cui la politica regionale ha pensato ai soldi e non alla salute pubblica, per questo votare “si” vuol quasi dire esorcizzare la pandemia, che per molti si è diffusa in maniera incontrollata anche a causa del cattivo funzionamento della struttura sanitaria di regioni del Nord del paese che fino allo scoppio dell’emergenza erano fiore all’occhiello della sanità nazionale.

Ma veramente le cose stanno così? Veramente basterà il taglio dei parlamentari per evitare che la politica si faccia finanziare dai poteri forti della Russia? Che la politica sfrutti l’energia eolica non per creare elettricità pulita ma per distribuire mazzette? Che la politica aiuti a pagare i debiti di giornali di partito? Che la politica agevoli l’evasione fiscale e il riciclaggio del denaro attraverso conti esteri? Difficile dire “si” a queste domande. Un taglio dei parlamentari non cambierà il costume e le modalità di azione dei politici. È una mia opinione personale. Ma gli elettori forse farebbero un’azione di moralizzazione reale se non votassero, ad esempio in Puglia, personaggi che nel passato sono rimasti implicate in complesse e mai chiarite vicende. Fa un po’ specie che si ricandidi Raffaele Fitto nella regione del tacco d’Italia e che perfino abbia serie possibilità di diventare presidente di regione. Non sarebbe bene dire di no a questo? Evitare di far ripiombare la Puglia indietro di quindici anni? Certo per la Lombardia afflitta dal Corona Virus sarebbe un sollievo. Matteo Salvini ha promesso, quando è stato in Puglia, che arriverà con l’eventuale vittoria di Fitto il personale che si è distinto in Lombardia per la lotta al coronavirus.

Insomma il referendum è una prova decisiva per saggiare la maturità di noi elettori. Veramente vogliamo il taglio per mandare a casa i parlamentari puzzoni? O ci accingiamo al voto semplicemente per poter seriamente pensare a un rinnovamento delle istituzioni statuali che sono il fondamento della casa comune? Mi permetto di dire che la seconda opzione è la migliore. Bisogna cominciare da subito, sia se vinca il “no” sia se vinca il “si”, a chiedere ai parlamentari un modo di agire più coerente, più trasparente volto a migliorare la vita di tutti e di ognuno. La politica può e deve essere bene. La politica deve essere cultura di servizio verso la collettività. Che siano 640 i deputati, o che siano 400, devono comunque pensare a risolvere l’emergenza sanitaria, a migliorare la struttura burocratica, a garantire posti di lavoro a tutti, questo è il vero cambiamento.