IL PASTORE ERRANTE
“Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” è uno dei cosiddetti “grandi Idilli” di Giacomo Leopardi. Nel Zibaldone dei Pensieri, il diario del pensiero del Poeta di Recanati, Giacomo spiega da quale fonte ha avuto l’ispirazione per scrivere questa opera. Ha letto le memorie di viaggio del Barone de Meyendorff, un nobile Russo che si spostò per tutta l’Asia, mettendo alla luce alcune delle meraviglie di quello che è il continente più esteso dell’orbe terraqueo. Il viaggiatore racconta dei suoi incontri con la gente della steppa. Persone taciturne, che fanno dell’allevamento il loro principale, se non unico, strumento di sostentamento. Da quel ritratto di pastori solitari e abituati ad affrontare una lunga notte, vegliando sui loro greggi, Giacomo Leopardi ha una visione letteraria fra le più belle e significative della letteratura mondiale. Ci pone di fronte un uomo, silenzioso, che nella notte ha come compagnia il cielo stellato e la luna. Allora come un amante che guarda la sua bella da lontano, pronuncia le fatidiche parole: che fai tu, in ciel? Dimmi, che fai, // silenziosa luna? Lo sappiamo tutti, sono i primi due versi del “Canto del pastore”.
Da questo incipit di amore verso la natura inizia a srotolarsi una catena di dubbi e di domande. Che senso ha la vita dell’uomo, che ragione ha di soffrire, di affannarsi. Il poeta fa dire al pastore che il bimbo fa il suo primo vagito e la mamma è costretta a consolarlo di esser nato. La Luna, come la totalità del mondo naturale, rimane indifferente ai dolori dell’uomo. L’amore del pastore, incarnazione dell’intera umanità, verso il mondo naturale è letteralmente ignorato. L’amata, in questo caso la luna, è assolutamente indifferente all’amate. Anzi sembra che il mondo naturale intenda colpire ed annientare l’essere umano. Allora non rimane che continuare a piangere, continuare il lungo vagito, che iniziamo appena usciti dal grembo materno.
Questo canto, alla luce di quanto è stato interpretato e colto dai critici, è considerato l’esplicazione ontologica del cosiddetto pessimismo universale leopardiano. Tutto ciò che ci accade intorno, anche l’apparizione della bellezza dell’astro lunare, è in realtà un agguato che il mondo naturale compie alla nostra persona. Ogni avvenimento che ci riguarda è un propiziarsi ineluttabile alla morte e, cosa più temuta, al dolore. Lo scorrere della vita è il venir meno di amante compagnia, dice il poeta in un verso del Canto. Come dire che il vivere è un continuo spogliarsi di speranze e di progetti, che in realtà sono fievoli illusioni. Ma è veramente questa la poetica leopardiana? È un perdersi ineluttabile verso un pessimismo che non lascia vivere, non lascia battere il cuore alla speranza di una qualche gioia o felicità?
La risposta deve essere che così non è. L’uomo, ovviamente anche la donna, sono chiamati da un cieco giogo della natura alla disperazione. È bene ricordare che per Leopardi non vi è un disegno di un Dio nel mondo, non c’è la divina provvidenza manzoniana, non vi è un disegno immanente che regola le sorti dell’universo. L’uomo è solo. L’uomo cerca nella natura un’entità intelligente che in realtà non esiste. La Luna segue il coniugarsi casuale dell’ordine degli astri, che stanno in cielo seguendo le loro orbite non per volontà superiore, ma solo perché se non lo facessero non esisterebbero, cioè se la luna non avesse quel cammino che la contraddistingue semplicemente sarebbe precipitata sulla terra, come forse è avvenuto in altre galassie ad altri pianeti, non permettendo a essere vivente terrestre di porsi domande sulla sua e sulla nostra esistenza. Insomma vivere o morire, esistere o non esistere, pensare o non pensare sono tutti atti che a noi umani sembrano fondamento di ogni cosa, ma che in realtà sono il frutto accidentale di eventi casuali. Allora che fare davanti al non senso dell’universo? Che fare di fronte a una natura che è assolutamente indifferente non solo ai sentimenti umani, ma anche alla sua stessa esistenza? La risposta del poeta è nei fatti semplice. Bisogna rimanere attaccati alla vita, anche se è senza un senso. Bisogna fare come la ginestra, pianta che vive in prossimità dei crateri dei vulcani e protagonista assoluta di un altro Canto leopardiano, che si attacca con le sue radici alla terra, che non si erge verso il cielo, come fanno altri alberi, ma che si sviluppa lungo le increspature del suolo ove è nata, per poter affrontare impavida e determinata i terremoti, lo sgorgare della lava. Insomma deve rimanere attaccata al terreno, e raggiungere le sommità del cielo, ad esempio l’amata luna, solo con il pensiero, solo con l’anima, che per il poeta di Recanati non è la manifestazione del divino nell’uomo, ma è l’essenza stessa, il senso vero, dell’essere umanità. L’anima è ciò che ci spinge ad amare, a voler bene, a cogliere la bellezza anche nel dolore. È il moto che spinge il pastore dell’Asia a scollarsi di dosso il fardello dell’esistenza, anche se solo un attimo, a levare gli occhi dalla pesantezza del vivere terreno e a volgerli al cielo per chiedere all’astro più luminoso “Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi che fai, silenziosa Luna?”
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