IL LAVORO NON C'E'
I dati istat di Giugno 2018 sono sconfortanti. La crescita del prodotto interno lordo si è fermata. Tra marzo e giugno il paese si è fermato a un modestissimo più o.2% rispetto all'anno precedente. L'occupazione cala. I lavoratori in due mesi sono diminuiti di 49mila unità. Diciamolo subito. Le responsabilità non sono da imputare all'attuale governo Conte. I dati sono il frutto di scelte politiche ed economiche imputabili al governo precedente, quello guidato da Gentiloni. Il decreto dignità voluto dall'onorevole Di Maio non c'entra nulla con le disastrose statistiche occupazionali. Il problema è capire il motivo per cui l'Europa e l'America crescono, il nostro paese no. Perché la nostra Repubblica non beneficia dell'onda di crescita che ha portato a far segnare un aumento del pil americano di 4 punti solo in questo trimestre? Le risposte forse vanno ricercate nei numeri. Se il coefficiente Giunti, il parametro che misura il numero delle famiglie povere, è sorprendentemente stabile. Malgrado la crisi economica nel decennio trascorso il numero dei nuclei familiari indigenti non è aumentato. Coloro che hanno fatto un passo indietro nella scala sociale sono i facenti parte di alcune categorie sociali abitualmente messi al margine: disabili, migranti, persone con malattie croniche. Questi soggetti hanno perso la stabilità del passato. Davanti a una popolazione che invecchia, e quindi deve fare i conti con gli acciacchi, questi dati non possono che produrre incertezze. Anche le fasce d'età giovanile, si parla di soggetti under 35, sono fortissimamente colpite dalla crisi. L'Italia ha una disoccupazione giovanile inferiore solo alla Grecia e alla Spagna. In questo contesto è difficile prospettare la possibilità che si formino nuove famiglie. Insomma la crisi non colpisce l'intera società, non colpisce una classe sociale, colpisce alcuni soggetti il cui status di incertezza diventa permanente. Faccio un esempio. Il giovane ha sempre trovato nei lavori stagionali un modo per sbarcare il lunario. Oggi per intere generazioni, anche per quelle non composte da giovanissimi, il lavoro precario non è una situazione momentanea, ma diviene permanente. Nello stesso ambito lavorativo, a parità perfino di istruzione e di mansione lavorativa, una persona vive nella sicurezza di reddito e magari il suo compagno di scrivania, che ha pari mansioni e compiti, ha un contratto a termine e senza certezze. L'Italia appare un puzzle i cui pezzi sono sparsi e che nessuno riesce a ricomporre. Ognuno potrebbe avere un ruolo nella crescita della nostra nazione, ognuno potrebbe cooperare con il proprio prossimo per costruire un domani migliore, il modello, il disegno da comporre, è lì , sembra che basti poco per ricostruire un quadro comune. Eppure rimaniamo sempre soli, ognuno a pensare a se stesso, ognuno a guardare il proprio orticello, senza una visione collettiva del paese che potrebbe far star meglio tutti e ognuno. Speriamo che la politica economica del nuovo governo cambi questo stato di cose. Una politica che faciliti l'incontro fra capitale e lavoro, che potenzi la capacita sinergica dei lavoratori di produrre insieme. Bisogna uscire dalla logica competitiva. Non si diventa più ricchi a discapito dell'altro, ma si diventa più ricchi assieme all'altro. Un benessere diffuso, la garanzia di un lavoro dignitoso per tutti, la tutela di ogni categoria sociale è la via del progresso. Proviamo a percorrerla.
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