venerdì 30 luglio 2021

UNA STORIA SBAGLIATA

 

LA COGNIZIONE DEL DOLORE

Il racconto di Giulia mi ha sconvolto. Le violenze ripetute che ha subito in quella discarica in periferia sono l’epifania di un dolore e di un rancore profondo che è presente nella società e nei singoli esseri umani. Che senso ha fare scempio del corpo dell’altro? Apparentemente non ne ha alcuno! Eppure sono milioni al giorno, non credo di esagerare, gli episodi di violenza gratuita simili a quelli che ha subito Giulia. Quello che l’è successo mi fa venire in mente un libro di Carlo Emilio Gadda. È intitolato “La cognizione del dolore”. È stato pubblicato nel 1963, ma l’autore, nato a Milano nel 1893, lo aveva scritto a cavallo fra il 1938 e il 1941, proprio quando scoppiava la Seconda Guerra Mondiale. Il libro è ambientato in un immaginario paese andino. Gadda utilizza lo stesso espediente letterario di una terra immaginata, ma legata alla realtà latino americana, che sarà l’aspetto connotante dello stile letterario di un altro grande romanziere, questa volta colombiano, Gabriel Garcia Marquez. Un territorio, una città, una regione che non esistono, ma che potrebbero essere riconosciute in una delle tante campagne e terre amerinde. Insomma Gadda in questo libro è per certi versi l’anticipatore del cosiddetto verismo magico, l’elemento costitutivo di tutta la letteratura del Sud America del XX e, ormai, anche del XXI secolo. Ma la cognizione del dolore non è solo il racconto di quello che succedeva dall’altra parte del mondo, in un porto lontano migliaia di chilometri dall’Italia. Era il racconto di come la violenza è un’irrazionale elemento connotante della natura umana. Come Gaetano Palumbo, il protagonista de “La cognizione del Dolore”, tortura senza una ragione la madre, così il nazismo uccideva crudelmente milioni di innocenti, solo perché ebrei, zingari, diversi. È il racconto della follia umana che è capace di produrre ai danni del prossimo un dolore immane. Conoscere il dolore, averne cognizione, ci dice Gadda, vuol dire, certo, immancabilmente, conoscere le sofferenze di chi lo subisce, ma anche sapere la folle intelligenza oppure la pazzia razionale di chi opera la violenza. Siamo veramente in un ambito orrorifico. La “Banalità del male”, come la definisce Hannah Arendt, cioè il male che diventa un elemento connotante della vita di tutti i giorni dell’assassino, del violentatore, del torturatore di turno, è un dato di fatto che si ripete costantemente nella storia. Soprattutto in queste decadi che viviamo, in cui la tecnologia, la scienza (che orrore che l’intelligenza sia strumento di morte), così facile uccidere, così asettico, quasi l’omicidio fosse niente più di una semplice attività imprenditoriale. Si uccide con la stessa scioltezza e decisione con cui un operaio alla catena di montaggio mette una vite in un ingranaggio. Siamo alla vera follia. Siamo a Srebrenica, ove durante la guerra Jugoslava avvenuta l’ultima decade del XX secolo, gli uomini si uccidevano con la “semplicità” con cui si può svolgere una qualsiasi mansione lavorativa.

Non sai quanto dolore conservo nel mio corpo. Giulia si confessa, mentre io cerco di medicare le sue numerose ferite corporali. Non sai come quegli uomini mi hanno fatto profondamente male, ancor più in queste ore, di quando mi violentarono nel mio appartamento. Mi hanno picchiato brutalmente. Sento tutte le mie ossa rotte. A questo punto io, che la sto medicando, ho un dubbio tremendo. Forse sarebbe meglio andare al pronto soccorso, ove hanno competenze e strumenti adeguati per soccorrere un’inferma. Lei continua a parlare. Non si ferma. Vuole condividere con me tutto il suo dolore, credo per provare a non farsi soverchiare dalla enormità dell’angoscia che sta vivendo. Hanno utilizzato spranghe di ferro per picchiarmi in ogni parte del mio corpo. Mi hanno fatto veramente male alle parti genitali. Hanno usato armi che io neanche conoscevo, oggetti di ogni tipo, tira pugni, addirittura un estintore buttato lì nella discarica, perché, credo, non più utilizzabile. Hanno riso. Hanno riso della mia sofferenza, del mio dolore. Mi hanno spogliato, come si tosa un agnello prima di essere macellato. Mi hanno messo il loro “arnese” a turno nel mio ano, mentre facevano scempio del mio pene, prendendolo a calci violentemente. Era così forte il dolore al mio cazzo, che non avevo la percezione della violenza che subivo al mio culo. È veramente folle quello che mi è successo. L’uomo, chiamiamolo così quell’animale,  dietro di me mi inculava con violenza, mentre avanti c’era uno che mi prendeva a calci l’uccello, e l’altro che alternava i suoi pugni in faccia, che mi hanno rotto gran parte dell’arco dentale, con il suo pene che entrava nella mia bocca. Rideva. Diceva: mi ringrazierai. Sai a quanti clienti piace che gli sia fatto un bocchino da una sdentata. È giù pugni sul mio mento e poi il pisello in bocca e poi ancora pugni e poi il pisello. Una cosa allucinante.

Dopo che l’ho medicata. Dopo che le ho messo bende e cerotti ove è possibile. In realtà ogni parte del suo corpo dovrebbe essere bendata, dovrebbe diventare una mummia le cui garze servono a celare i rigori della morte incombente. Ma che dire. Si direbbe in contesti meno violenti, che sarebbe bene pregare per la malata. Ma.. Tutta questa storia è folle. Mi sovviene una commedia di Edoardo De Filippo. È “Napoli milionaria”. Finisce con i due protagonisti, marito e moglie, che attendono impazienti il passaggio della notte, in attesa e nella speranza che loro figlio guarisca da una terribile malattia, Il personaggio maschile, Gennaro Jovine, guarda la moglie, la debosciata fedifraga e dedita a turpi commerci, Amalia. Ella che l’aveva tradito, che si era arricchita facendo contrabbando con i soldati americani, siamo nella Napoli del 1945, e gli dà una speranza di salvezza per il loro comune figlio ammalato e allo stesso tempo di riscatto etico. Gennaro gli dice: adda passà a nuttata. Deve passare la nottata. L’indomani sapremo se il nostro comune figlio è sopravvissuto al male. Questo è il primo e diretto significato della frase. E penso che anche Giulia “Adda passa a nuttata”. Ma vuol dire anche altro. Vuol dire che ci sarà, ci deve essere, un tempo di riscatto morale. Ci sarà un giorno in cui non vi saranno più bassezze alle quali essere soggiogati. Non ci saranno più torturatori e violentatori. Non ci saranno più magnaccia e strozzini. La vita sarà migliore. Adda passà a nuttata. Ma per far passare questa notte che ci tormenta e ci mette in pericolo di vita, dobbiamo chiarire cosa sia successo nell’appartamento di Giulia, chi ha realmente ucciso il senatore Callispera. E se sono stati loro, i tre violentatori di Giulia, ad assassinarlo, come dice lei, bisogna che siano arrestati immantinente. Più passa il tempo, e più mi convinto che per noi la soluzione migliore sarebbe raccontare tutta la verità agli inquirenti, anche se Giulia, anche perché lei ha ammazzato Igor, teme di farlo. Ma Igor, mi devo anch’io convincere di questo, è stato ucciso da Giulia per legittima difesa. È così che è andata. Basta dubbi, basta perplessità. Bisogna essere fermi nel proferire i fatti e bisogna essere trasparenti.

Sento lo squillo del campanello, o meglio del citofono. Chi sarà? Ora che Giulia è stesa sul letto a riposare, credevo che avremo vissuto un momento di calma. Chiedo: Chi è? Sono Francesca! Ancora, penso, non mi aveva lasciato solo poche ore fa. Comunque mi potrà aiutare a prendermi cura di Giulia. Sale. L’accolgo con fare concitato. Le spiego quello che è successo. Cacchio, fa lei. Corre nella mia camera da letto, senza dire niente altro. Trova Giulia dormiente. Ha paura. Teme che non sia sonno, ma un incipiente coma. Non lo sa. Non è un medico. Lo pensa solo perché ha visto tanti telefilm che parlano di ospedali, mi dice quando intuisce che i miei occhi vogliono conoscere le ragioni delle sue apprensioni. Insomma Francesca ha lo stesso mio pensiero. Bisogna portare Giulia immediatamente in un centro specializzato in traumatologia. Giulia si desta. Ci guarda. Io sono sollevato: stava dormendo, non era in coma. Cosa volete da me? Dice con l’aria di chi vive in uno stato confusionale. Fra l’altro ciò è giustificato da tutto ciò che le sta avvenendo. Francesca la guarda. Diamine, dice, non posso lasciarvi un secondo che succede un quarantotto. Lei rivoluzionaria di natura, tanto è vero che fa l’impiegata statale sorrido, ama citare i grandi sommovimenti  del XVII e XIX secolo. La sua citazione del 1848, i grandi moti popolari che sconvolsero tutta l’Europa post napoleonica, è voluta. Vaffanculo, gli risponde Giulia. Convinta, come può essere decisa chi si sente sottratta improvvisamente da un sonno ristoratore. Francesca sorride. Si sente soddisfatta di essere stata oggetto di un’offesa riservata a chi si considera un amico. Penso io: si sentirà lusingata del fatto che Giulia si fida di lei, oppure sorride perfidamente perché immagina di sfruttare a suo vantaggio questo senso di amicizia e, in ultima analisi, di sottomissione che Giulia nutre per lei, così da danneggiarla? Chi lo sa. Intanto si avvicina a Giulia. Gli guarda le bende. Cerca di riparare ai danni che avevo fatto io. Cerca di rimettere al meglio le garze, che già stavano scivolando dalla pelle della ferita. Sembra rammaricata, credo che lo sia veramente, del dolore che ha sofferto Giulia, il cui corpo è una prova parlante dell’orrore che ha subito.

Possa sapere chi è stato? Tu? Mi guarda con fare indagatore. Come fai a pensare soltanto una cosa del genere, gli rispondo stordito dall’atrocità che Francesca ha soltanto immaginato. Io non sarei in grado, non voglio esserlo, di far male ad alcuno. Giulia dice: sono stati gli stessi assassini del senatore. Ah. Esclama Francesca. E come hai fatto a fuggire? Continua. Come hai fatto a fuggire?, replica Giulia, rispondendo con la stessa risposta che le aveva fatto Francesca. In realtà non sono affatto fuggita ho subito ogni tipo di violenza. Francesca si pente di aver detto quella frase. Ormai, però, non può tornare indietro. Volevo dire, contrae i muscoli del viso, visto che ormai eri nelle loro mani, perché, perdonami la mia brutalità, non ti hanno ammazzata? È intervento Tantalo, il camorrista, li ha fermati. Quindi c’è in mezzo la mafia? Fa Francesca. Credo proprio di si, continua Giulia. O meglio la Camorra napoletana. Francesca alza le spalle. Prende disinfettante, pomate e garze che erano sul comodino. Si siede ai margini del letto ove Giulia giaceva. Gli toglie una a una le garze che io le avevo messo, la medica un’altra volta e la cura con sapienza materna. La medica, cura le sue ferite, ferma le emorragie che io non ero riuscito a fermare. È contristata. Si vede. Stanotte restiamo tutti e tre qui. Domani se tutto andrà per il meglio chiameremo il mio medico curante per una visita approfondita, se dovesse, però, succedere qualsiasi cosa in questo notte, chiamiamo un’autoambulanza. Adda passà a nuttata. Penso io.  

UNA STORIA SBAGLIATA XXIV

 


IL TEMPO CORRE

Giulia si veste, in fretta. Guarda da diversi minuti il suo telefonino con impazienza. Non so cosa le sia successo, quale sia la comunicazione che gli ha scosso l’animo e turbato il risveglio. Dove devi andare? Gli dico nella maniera più dolce possibile, anche se traspare il mio rammarico per quello che sembra un abbandono. Devo fare una cosa importante. Quale? Beh, la verità? Riguarda il mio passato, che spero rimanga presto alle mie spalle! Questa ultima frase l’ha detta per tranquillizzarmi, lo so. Era un messaggio a volermi dire: io voglio rimanere con te, la mia vita sei tu, il passato è solo un triste conto sull’esistenza da chiudere! Ma sarà vero? Circola questo pensiero nella mia testa. Giulia vuole veramente chiudere i conti con la vecchia vita, aprendone un altro con la nuova accanto a me? Poi.. Poi.. A me conviene che ciò accade? Mi faccio questa domanda cattiva. Conviene che un trans, un uomo, rinunci alla sua vita, termine inteso secondo il vocabolario di Pasolini, per avere una nuova esistenza con me. Cosa sarà la mia di esistenza accanto a lei? Questa è la domanda. Ma intanto Giulia esce. Corre per andare chissà dove. È incurante dei divieti di circolazione imposti dalla normativa della Presidenza del Consiglio per arginare la pandemia legata al cosiddetto virus cinese. Insomma per fare i suoi conti con il passato, Giulia se ne infischia delle normative di Conte, inteso come Giuseppe Conte Presidente del Consiglio. Devo correre, mi dice, anzi, aggiunge, bisogna correre. I nodi devono essere sciolti. Tutto ciò che mi lega al passato deve essere cassato come problema definitivamente superato. Devo andare ad incontrare Tantalo. Devo sapere cosa pensa di fare del corpo di Igor. Devo sapere se non abbia intenzione di incastrarci con qualche trabocchetto, facendo riapparire il corpo del romeno e rilevando, con una qualche soffiata, che siamo stati noi ad accopparlo. Il pensiero di Giulia è chiaro, non lascia spazio ad interpretazioni ambigue. Bisogna trovare una soluzione per sciogliere i nodi della vicenda, lei ha deciso che la soluzione spetta a lei trovarla, lo farà a qualunque costo. Io gli dico. Vengo anche io! Lei è secca e decisa: No! Perché? Gli chiedo. Abbiamo avuto già un incontro a tre con Antonio Castelli detto Tantalo, è stato disastroso! Tu hai preso botte, io mi sono presa il cazzo nel culo, con tale violenza che ancora cammino a gambe aperte. Capito allora il motivo per cui non ti voglio con me?! Io ho una stretta al cuore. Mi vergogno della mia impotenza, mi vergogno di me stesso. Certo la violenza sessuale che Giulia ha subito, qui, nella mia casa, da parte del Boss della camorra la ricordo, è stata una cosa orrenda. Io sono di Bari, la criminalità mafiosa è di casa anche nella mia città, ma forse perché non conoscevo le persone “giuste”, cioè i più criminali dei criminali, la violenza mafiosa barese ai miei occhi è stata qualche pistolettata, qualche omicidio, qualche “lezioncina”, cioè botte, a chi alzava la testa. Non ho mai sentito della violenza sessuale come strumento di esplicitazione del potere. Certo è probabile, anzi sicuro, che ciò avvenga anche a Bari, ma io non ne sono stato né testimone oculare né ho sentito di episodi del genere. Forse tali violenze rimangono nelle mura dei fortini dei clan, senza che escano fuori. La violenza la subiscono, almeno a leggere i giornali di cronaca, le immigrate, purtroppo anche questo è fatto orrendo, ma si tace sulla violenza sessuale inferta a uomini o donne italiane. Bari è Savinuccio, il vecchio boss di uno dei quartieri periferici e popolosi cittadini, che va a cavallo per le strade, mostrando il suo dominio. Savinuccio, Savino Parisi, ha smesso di andare a cavallo, ora è in galera, ma il suo potere, purtroppo, rimane intatto, come dimostra il figlio che abbina il suo ruolo di facente capo clan in assenza del padre recluso e di cantante che si fa tutte le sagre di paese. La mala barese compie nefandezze esattamente come la Camorra e la Mafia e l’andrangheta, ma le nasconde perché purtroppo ha ancora consenso, vuole apparire “buona” agli occhi della gente. Ma è la gente non buona. Cioè non deve essere supina ancora alle angherie della mala. Certo Giulia è alle prese con un camorrista, io faccio i conti con la mafia del mio paese e ancora non sono riuscito a trovare la pace. La mafia è un cancro mortale che attanaglia tutta l’Italia e uccide soprattutto i luoghi dove è presente maggiormente il suo potere, luoghi che ormai non sono solo il Mezzogiorno, ma anche la Capitale, il Veneto, La Lombardia e perfino la dotta Emilia Romagna in cui diversi comuni sono sciolti per infiltrazione mafiosa.

Mentre penso a tutte queste cose Giulia è lontana. È andata ad incontrare Tantalo, forse si è andata a far uccidere. Chi lo sa. La mafia è implacabile. Chiunque prova ad alzare la testa viene freddato. Chiunque chiede libertà, trova solo morte. Spero che questo non succeda. Certo, il pensiero malvagio entra nella mia testa e nel mio cuore, se Giulia non ci fosse più per me molti problemi non sarebbero. Se fosse trovata incaprettata, cioè uccisa e legata come una capra, punizione eclatante della mafia per chi è infame, cioè per chi parla alla polizia e non rispetta e regole malavitose, io uscirei repentinamente dall’inchiesta, al limite il mio ruolo sarebbe derubricato come quello un testimone di reato, non sarei considerato più accusato e complice. Ma la mia vita forse sarebbe un infermo. Sarei torturato da un senso di vuoto, causato dalla mancanza di Giulia. Sarei sommerso dai sensi di colpa. Le mie paure mi tormenterebbero ogni notte e, forse, anche il giorno. Questi pensieri mi portano alla follia. Una vita senza Giulia è una prospettiva. Una vita con Giulia felici, senza colpa, scagionati di tutto, un’altra. Una vita insieme, ma fatta di condanne e denunce e infine di galera, che prospettiva.. Tutto mi terrorizza, qualsiasi prospettiva possibile ha un risvolto da incubo, vivere con Giulia vuol dire combattere i pregiudizi non solo degli altri, ma anche i miei. Vivere senza Giulia, vuol dire sentire la mancanza dei suoi pensieri, della sua anima e soprattutto del suo corpo. Ho paura. Qualsiasi domani io possa pensare, implica comunque qualcosa di orrendo da affrontare. Sembra che la felicità ormai mi è preclusa.

Suonano alla porta, non al campanello sotto il portone, ma direttamente al pulsante che sta dietro alla soglia del mio appartamento. Guardo dallo spioncino, non c’è nessuno. Provo ad aprire la porta. Trovo Giulia stesa a terra. Ha il vestito tutto rotto. Il suo vestitino che aveva comprato in concomitanza con l’inizio del suo abitare nel mio appartamento è diventato un cencio, tutto rotto e lercio. Ha diversi lividi. Il volto è tumefatto. Io l’ho riconosciuta.. perché.. perché? La amo. Ma altrimenti sarebbe irriconoscibile. La prendo in braccio e la poggio sul mio, nostro, letto. Gli tolgo le scarpe. Gli tolgo il vestito e lo vado a buttare. Non ha più nulla. È nuda. La biancheria intima è certamente persa nella tremenda colluttazione che ha avuto. Erano passate quasi cinque ore da quando era uscita da qui. Ora vi è rientrata ferita fisicamente in maniera grave. Credo che la ferita che rimarrà nella sua psiche sarà anche più profonda, dolorosa e duratura di quelle che gli sono state inferte sul corpo.

Vado a prendere un asciugamano e l’accappatoio, prendo cerotti e acqua ossigenata, prendo garze e ogni materia utile a un primo soccorso sanitario. Gli mondo le ferite. Sembra un Cristo flagellato. Ha lividi ovunque. Non l’hanno graziata in nulla. Ovunque l’hanno torturata e, penso, con qualsiasi mezzo. Ci sono lividi che possono procurare le mani, ma ci sono altri, credo non sono esperto, che solo mazze e oggetti contundenti possono fare. Sanguina. Io cerco di curare le sue ferite. Mi fa orrore e tenerezza allo stesso tempo il suo corpo.

Che è successo, alla fine gli chiedo. Lei continua a piangere. Sono andata da Tantalo per chiarire. Ahia questo è già un termine da criminale che parla a criminali, Giulia mi fa paura. Ho trovato i tre che hanno ucciso Callispera. Qui la interrompo. Come da tantalo c’erano loro? Esatto! Senza dire una parola mi hanno alzato la veste. Aspetta, scusa, la interrompo imbarazzato, dove eravate? In una discarica sulla Tiburtina, fa lei, è lì che Antonio Castelli, Tantalo il bastardo, mi aveva detto di andare. Ma come ci sei andata? Come, fa lei, ma con la mia macchina. Hai una macchina? Faccio io. Certo, una vecchia Tigra, che ha fatto più chilometri di quanto sia lunga la circonferenza terreste, cacchio penso io, da stolto visto il momento, quanto avrà speso di benzina per fare tanti chilometri con una Tigra, che notoriamente beve molto. Ma lasciamo stare le follie e balzi pindarici della mia psiche. Giulia continua. Mi hanno violentato in gruppo. Tutti e tre, non solo uno come l’altra volta. Non mi hanno dato la possibilità di respirare, letteralmente. A turno mettevano il loro cazzo nella mia bocca e mi turavano il naso con le loro dita di merda. Volevano letteralmente soffocarmi con il loro sborro di merda. Il riferimento a due secrezioni del corpo umano così diverse fra loro, mi fece sorridere e rabbrividire allo stesso tempo. La violenza è orrore, senza alcuna via alternativa. Chi compie violenza scende lui negli abissi della coscienza e vi trascina e proprie vittime. I tre erano animali senza cuori, anzi paragonarli al mondo ferino è un’offesa per le bestie. Giulia continua. Nel frattempo mi picchiavano con ogni mezzo che gli capitava per le mani. Bastoni, chiavi inglesi, bulloni. Ogni cosa era utile per infliggere sofferenza a me e portare ferite gravi e permanenti al mio corpo. Mentre uno di loro, lo stesso che mi inculato mentre gli altri uccidevano Callispera, penetrava nel mio ano, l’altro mi dava violenti calci sul mio pisello e l’altro mi stringeva con le sue braccia per evitare la mia fuga. Non ho mai provato tanto dolore. Non so cosa succederà al mio fisico, dopo tutto ciò. Sentivo un pisello penetrare nel mio culo, mentre la mia mente impazziva letteralmente per il dolore troppo forte che subiva il mio cazzo. Ogni colpo alla vita, mi toglieva il respiro, mi sottraeva alla vita. Sembrava giunta la mia fine. Guarda i miei denti, mi mostra il suo arco dentario con diversi buchi, canini e incisivi non c’erano più. Il terzo, quando ha visto che ogni mia resistenza era vinta, ha lasciato la sua morsa, e appena chi mi ha inculato è venuto, ha messo il suo sperma nel mio ano. Ha cominciato ha darmi calci in bocca. Io sputavo sangue, denti, saliva e sperma che quei bastardi avevano appena lasciato nel mio apparato orale, imponendomi bocchini furiosi. Sembrava la fine. Loro erano stanchi di violentarmi. Allora ero certo che mi avrebbero ucciso. Ma in quel momento arriva Tantalo. Non pensavo che venisse. Pensavo a un tranello. Grida: basta. I tre si fanno da parte. Ora capisco, sono uomini suoi. Non toccatela più. Ve lo ordino. Dice con tono autoritario il camorrista. I tre vanno via. Stiamo qualche decina di minuti in silenzio. Tantalo vuole che mi riprenda. È chiaro. Poi mi dice: ce la fai a guidare? Io gli dico: cosa volevi da me. Niente, fa lui. Così so il motivo per cui mi ha fatto arrivare in quella sperduta discarica romana, per farmi picchiare e per farmi rovinare la carriera di trans di grido, scempiata come sono. Penso. Dovevo servire per uccidere il senatore che era venuto a tedio ai clan, dovevo essere il pretesto per uccidere Eugenio Callispera, ora non servo più e mi butta via. Certo il fatto che non mi uccidesse è già tanto, ma io sono rovinata per sempre. Giulia termina con un pianto a dirotto.

La lascio piangere. Non so che dire, non so che fare. Tutto è dolore, ma allo stesso tempo è surreale racconto di una storia incredibile. Come è possibile concentrare tanto male in così poche persone? Come è possibile un tale odio verso la vita, da poter assistere a torture o torturare senza batter ciglio? Giulia ha subito tante, troppe, violenze nella sua vita. Questa, però, è la definitiva. È difficile pensare al futuro se si è percossi con tale veemenza. Ho paura per lei. Temo che la sua mente possa vacillare, il suo cuore non possa reggere. Tento di abbracciarla. Lei mi respinge terrorizzata. Io che l’avevo appena lavata e medicata, io che ho sentito tacito il suo racconto di strazio, mentre nuda si rattrappiva sul divano, ora sono un nemico esattamente come i tre violentatori. Ciò mi addolora. Ma non posso che provare a capire il suo tremendo sommovimento psichico che è il prodotto di una violenza inaudita che ha subito. Povera Giulia.

martedì 27 luglio 2021

UNA STORIA SBAGLIATA

 

TROPPO VICINI

Francesca si riveste in fretta. È decisa a lasciare la mia casa. Desidero riposare, voglio andare a casa mia. Mi dice, quasi a giustificare la scelta di abbandonare il mio appartamento. È stata una giornata molto complicata. Troppi nodi sono arrivati al pettine. Molte tesi e antitesi si sono appalesate alla nostra mente, senza trovare una sintesi. L’incontro inaspettato con il giudice Buonasera, invece di chiarirci cosa è da fare, ci ha gettato in uno stato di smarrimento profondo. Tutta la vicenda è veramente al limite del sopportabile. Nessuno di noi avrebbe mai pensato di poter essere un indagato per omicidio. Ovviamente nulla è ufficiale ancora, non abbiamo avuto gli avvisi di garanzia, che ormai da decenni sono diventati argomento comune di conversazione fra tutti gli italiani, visti i fatti di “tangentopoli”. Però è nei fatti che solo noi siamo le persone che hanno avuto a che fare con le vicende accorse al senatore Eugenio Callispera, nei pochi minuti precedenti alla sua dipartita. Giulia è stata l’unica persona, accertata ed accertabile, che era presente nello stesso luogo in cui il politico è spirato. I famigerati tre uomini che avrebbero picchiato a morte il povero rappresentante del popolo, così vengono chiamati i parlamentari, li ha visti solo Giulia. Potrebbe anche esserseli inventati, aggiungo. Poi Giulia, il motivo per cui mi abbia scelto come suo soccorritore nell’ambasce non mi è chiaro, è venuta a casa mia. Mi ha raccontato tutto. Era terrorizzata e sporca di sangue, questo è un dato incontrovertibile. Mentre Francesca chiude la porta dietro di sé e torna a casa sua, io sono arrovellato da questi fatti che non riescono ad avere una chiave di interpretazione da parte della mia mente. Tutto è confuso. Tutto è orrendo. Tutto mi fa paura. Dal momento in cui Giulia mi ha rilevato il tragico fatto avvenuto nelle sue magioni, il mio mondo è crollato. Niente è certo. Sono stato complice di un omicidio e di un occultamento di cadavere. Quello di Igor, il magnaccia rumeno ucciso da Giulia proprio nel mio appartamento per legittima difesa. Almeno questo dice lei. Io dovrei essere il testimone oculare del fatto di sangue. Giulia aveva conficcato nella gora di Igor un coltello da cucina, un mio coltello, nel mio appartamento. Io ero presente ai fatti. Eppure non sono certo che si possa considerare propriamente legittima difesa l’azione violenta di Giulia. Certo Igor la stava inculando, letteralmente. Ma in realtà era stata lei che l’aveva invitato a farlo. Certo per evitare che l’ira di Igor scatenasse la sua violenza su di lei e su di me. Per evitare che le pretese di soldi del magnaccia, diventassero atti violenti della sua mano contro i nostri corpi. Ma rimane il fatto che nel momento in cui Giulia uccideva Igor, egli non era per noi pericoloso e in più non si poteva certo dire che la stesse violentando, visto che era stata proprio lei ad invitarlo all’amplesso. Insomma tutta la vicenda è veramente tragicamente complicata. A una ricostruzione ragionata, come quella che sto tentando di fare, appare chiaro che il mio avvocato e amico, Antonello Scarzone, ha ragione nel voler dare tutta la responsabilità penale dei fatti a Giulia quando sarà il momento della ricostruzione processuale dei fatti. Siamo veramente a un bivio. Abbandonare Giulia ai suoi destini di rea, vorrebbe dire per me, prima di tutto, e anche per Francesca la salvezza. Ma veramente ho il coraggio di abbandonare Giulia? Veramente voglio rinunciare al legame che c’è fra noi due? Veramente sceglierei l’innocenza processuale, abbandonando il suo corpo fascinoso? Non so proprio.

Sento squillare il cellulare. Vedo chi mi sta chiamando. È Francesca. Pronto. Faccio io rispondendo. Ciao, è ciò che dice lei. Sono arrivata a casa. Tutto bene. Nessun problema. E voi? Io medito su cosa sia meglio rispondere. Beh non sono molto brillante. Dico. Anche noi tutto bene. Sono felice che tu non abbia avuto problemi a muoverti nella città in pieno Lockdown. Già, si limita a controbattere lei. Mi raccomando dormi bene. Lei risponde: e tu medita profondamente sul da farsi. Arriverai alla conclusione che ho ragione io. Che non abbiamo altra via, se non quella di abbandonare Giulia a se stessa. Se stessa, dice queste due ultime parole sottolineandole con un suono robusto di voce, come a voler dire che è lei la causa di tutto, è lei che ha nei fatti voluto che tutto avvenisse, è lei la colpevole. Non sa e non so se è colpevole dell’omicidio del senatore, ma è certamente causa di tutti gli eventi succedutisi, e forse anche quelli precedenti al compimento dell’assassinio. Noi, Francesca ed io, siamo solo tristi testimoni di un evento luttuoso. Chi lo sa, se veramente ha ragione Francesca. Io non mi sento innocente. Questo lo stavo meditando mentre mi parlava, ma non lo esplicitavo a lei e a Giulia che assisteva taciturna alla telefonata. Poi sento toccarmi il pene. È Giulia che chiaramente vuole staccarmi dalla conversazione telefonica con Francesca, attraverso delle chiare avance sessuali. Io rimango sgomento. Certo non è la prima volta che Giulia prova a imporre la sua presenza umana attraverso la sua prominente sessualità. Quando si sente messa da parte, usa il sesso per tornare protagonista della scena. In parte ci riesce, anzi ci riesce proprio. Troppo vicini. Questo è il vero. Siamo troppo vicini per rimanere indifferente ai suoi seni, l suo profilo eccitante, alla sua prepotente sessualità. Dopo appena qualche decina di minuti dal nostro ultimo amplesso, siamo ancora pronti a copulare. Io chiudo bruscamente la conversazione con Francesca. Non so nemmeno quali siano le ultime parole che dice, questo poi lo pagherò fortemente, gli dico “ciao”. Mi abbandono alle braccia di Giulia. Sono momenti di un’intensità ineffabile. Tutto è noi. Niente è altro  da noi. Siamo concentrati su noi stessi. Giulia mi bacia. La sua lingua entra voracemente nella mia bocca. La mia entra nella sua. I nostri cuori, li sento, palpitano all’unisono. Siamo una cosa sola, siamo un’entità sola. Siamo l’essere perfetto che evoca Platone nei suoi scritti. Abbiamo ritrovato l’anima gemella. Ogni nostro corpo è il perfetto completamento dell’altro. Siamo una sola cosa. I nostri corpi si uniscono. Lei mi incula. Io la inculo. Non ci sono regole, non ci sono ruoli. Non c’è nulla che ci divide. Ormai non siamo uomo e non siamo donna. Siamo l’uno il completamento dell’altro. Non esistiamo senza essere uniti. Non ha senso ricercare la nostra individualità, essa è sepolta, è superata dal nuovo essere possente che siamo noi due insieme. Sono felice. Mentre completiamo il nostro reciproco atto d’amore, intuisco che ho capito cosa sia l’essenza del mio essere.

giovedì 22 luglio 2021

UNA STORIA SBAGLIATA XXI PUNTATA

 


UNA VISITA INASPETTATA

Salve, sono Giulia Buonasera. Quando aprii alla porta trovai di fronte a me una signora dalla figura esile e di una bellezza ineffabile. Era una quarantenne verso la cinquantina, credo. Sapevo che la Buonasera era il giudice che aveva preso in carico l’inchiesta sull’omicidio Callispera, sul nostro omicidio. Non mi aspettavo che venisse a casa. Non sapevo proprio come comportarmi. Spero di non creare imbarazzo. Continua il pubblico ministero. Ero venuta a dare un’occhiata al luogo del delitto. Mi sono presa la libertà di bussare al suo uscio, Dottor Fabio Lizzo. Ha capito subito che ero io ad aprire la morte. D’altronde è normale: chi doveva aprirle? Abito ufficialmente solo io in questo appartamento. Io mi affretto a dire: ma si figuri entri. Lei, mi avventuro, sa meglio di me e dei miei ospiti, indico Giulia e Francesca, il miglior comportamento da tenere in questi frangenti. Mi affido alla sua maestria. Il giudice alza le sopracciglia. Penso: forse avrà preso questa affermazione come una presa per il culo. Ma io veramente non so come ci si comporta quando si è coinvolti in una inchiesta giudiziaria. Veramente mi affido al giudice inquirente per compiere al meglio il mio ruolo, che spero sia ancora e resterà solo di testimone. La dottoressa buonasera si fa condurre da me al divano, ove siedono anche Giulia e Francesca, rivestite e composte dopo ore di amplessi sessuali. Si siede accanto alle due donne. Chiede: come mai insieme, è vostra abitudine ritrovarvi a chiacchierare così liberamente? Il provo a rispondere, imbarazzato. Il signor Marco Ingome è mio ospite da quando è stato posto sotto sequestro il mio appartamento. Giulia mi guarda un po’ storto. Sa che davanti alla legge il suo nome è ancora quello. Ma non può nascondere il fastidio che venga usato da me, quello che considera il suo amante. Io la guardo, guardo la sua rabbia, provo a far finta di nulla. L’ho comunicato, continuo, al Dottor Ettore Sportelli, dirigente della polizia di Stato che soprassiede all’inchiesta. Mi ha detto che al momento potevo farlo. Che avrebbe comunicato il fatto al giudice delle indagini preliminari, insomma a lei dottoressa. E se ci fossero stati eventuali dinieghi, ci avrebbe invitato a mutare lo stato di convivenza momentanea. Non abbiamo avuto comunicazioni. La Buonasera risponde. Si, avete ragione. Al momento nessun dato osta alla vostra, diciamo, convivenza. Devo essere franca, non posso escludere che l’evolversi delle indagini mutino lo stato di cose. Se nel caso vi comunicherò un mio atto - provvedimento d’urgenza che vi invita a non convivere durante l’inchiesta. Potrei inviarlo per messo prima dell’udienza preliminare, fissata, vi ricordate?, il 23 marzo, come non ricordare penso io e immagino anche Giulia, oppure comunicarlo direttamente in quella data. Al momento la situazione dell’inchiesta è fluida, si sta formando il quadro degli avvenimenti quasi fosse un pezzo di creta informe che diventa vaso. Io penso a un vecchio film “Gosth”, in cui i due protagonisti fanno sesso mentre il personaggio femminile sta compiendo una scultura con un manufatto di creta fresca. Il personaggio maschile la sta inculando, si capisce .. non si vede.. era un film non pornografico.. e allora lei vinta dal piacere distrugge ciò che stava costruendo, le sue mani non riescono più a modellare la creta. Chi lo sa se la dottoressa Buonasera lo metterà in culo a noi quel giorno, altro che costruire il vaso di creta, ci aspetta la prigione? Intanto ora tocca a Francesca essere presentata. Questa è la dottoressa Francesca Delfuoco, faccio io, una mia collega ed amica che è venuta a trovarmi. Anche con il coprifuoco? Fa il magistrato, con tono ironico, guardando anche al fatto che in quella stanza solo lei porta la mascherina. Forse è il caso di mettersi la mascherina, continua la giudice. Errore! Abbiamo fatto veramente una sciocchezza io, Giulia e Francesca. Ora ci sono oggettivamente pochissimi strumenti per giustificarci. Corriamo a prendere ognuno le nostre mascherine, io dal tiretto nella camera da letto prendo una per me, una per Giulia e l’altra per Francesca. Quest’ultima aveva, però, già indossato quella che aveva portato con sé nella borsa. Giulia accetta il mio dono, chiamiamolo così. Non ne aveva una a portata di mano. Il Giudice appare più sollevato. Sorride. Ora va bene! Dice. Comunque attenzione a rispettare il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri per fronteggiare l’emergenza Covid. Ci invita. La situazione sanitaria è veramente preoccupante. Speriamo che le misure del governo presieduto da Antonio Conte siano efficaci, continua il magistrato. Sono anche madre, non solo giudice. Sono preoccupata. Mi raccomando, le regole vanno rispettate.

Dopo questo suo prolegomena sui principi fondamentale per la prevenzione al morbo, il magistrato comincia a farci delle domande. Non so se la legge gli dà il diritto di farle qui ora in questo frangente. Non credo. Ma le fa. Chiede a Giulia se conoscesse il senatore Eugenio Callispera prima che lo incontrasse il giorno della sua dipartita. Giulia dice no. Ma poi aggiunge che vorrebbe discutere di questi argomenti in un contesto giudiziario e con il supporto di un avvocato. Il giudice si limita a dire: giusto! Continua il magistrato. Il mio è solo un modo per conoscerci, al fine di evitare imbarazzi che vanno oltre il normale al momento dei nostri incontri ufficiali. Null’altro. Lo capisco, continua Giulia. Si metta, però, nei nostri panni. Ci troviamo in una situazione che per noi è senza precedenti. Non sappiamo come comportarci. E in questi casi non fare è meglio che fare. Cioè si preferisce non rispondere per evitare errori, che potrebbero danneggiare non solo noi ma anche le parti civili, i familiari del senatore, ritardando il disvelamento della verità. Giusto. Fa la Giudice. Io in realtà cerco di operare proprio perché avvenga il contrario di ciò che, giustamente, paventa. Che non ci sia un ritardo nelle inchieste e che nessuna delle parti sia danneggiato. Io e Francesca taciamo. Tutto ciò è oggettivamente fuori da ogni canone istituzionale. Un giudice che parla privatamente con potenziali imputati in una inchiesta che sta conducendo. Bah! La domanda è: che cosa è venuta a fare la Buongiorno a casa mia quest’oggi? Signor Marco, il giudice risponde a Giulia, noi, immagino che si riferisca alla sua procura, proveremo a dare le risposte adeguate a tutti i dubbi che l’omicidio del senatore ha prodotto alla pubblica opinione e proveremo a ridare serenità a voi, tutti, parti coinvolte a diverso titolo, fra l’altro ancora ben lungi da essere appurato. Lei, dottoressa Francesca, come la vede la situazione? Il giudice si rivolge alla mia collega, coinvolgendola così per la prima volta nel discorso. Bah, risponde, che le devo dire? Sono assolutamente impreparata all’argomento. Fa come fosse una studentessa colta in fallo da una professoressa con un cosiddetta domanda trabocchetto. Ha ragione, dice il giudice. Sa che non ha guadagnato molto dalla visita che ha fatto oggi a casa mia, e lo manifesta visibilmente con un viso insoddisfatto. Cosa vorrà scoprire la dottoressa Buonasera? Quali sono le sue intenzioni? Ora che esce dalla mia casa, dopo una chiacchierata che a me è parsa inconcludente, mi arrovello in queste domande. Bisogna che chiami Antonello Scarzone, il mio avvocato, e lo informi di questa visita inaspettata.

lunedì 19 luglio 2021

SIGMUND FREUD


 

ES

Che cosa è “l’es”. Per la psicologia è la presenza della natura nell’animo umano. Una affermazione importante certo. Per me che sono ignorante è difficile mettere in chiaro questo concetto. Prima di tutto bisogna essere consapevoli della dicotomia fra ognuno di noi e la natura che ci circonda. Noi siamo ciò che siamo, siamo una individualità specifica, proprio perché ci mettiamo in contrapposizione con l’altro, con l’altra donna o uomo che ci sono vicini, ma anche con il mondo naturale che ci circonda. L’uomo è diventato tale perché ha preso consapevolezza di essere, certamente parte, della natura, ma allo stesso tempo componente speciale e particolare del mondo naturale. La sua capacità di distinguersi da esso è il frutto della capacità propria del genere umano di pensare e, soprattutto, di pensarsi. L’uomo acquista consapevolezza di se stesso, perché si contrappone a ciò che è naturale. Ma questo non comporta che sia fuori dalla natura. L’uomo è parte del naturale. Il naturale è fondamentale parte della vita dell’uomo. Ecco perché Sigmund Freud concepisce il concetto di “es”. L’uomo è esso, es in latino è il pronome terza persona singolare, cioè è anche naturalità ed istinto. Anzi proprio questi aspetti contribuiscono a formare in maniera esaustiva la singola personalità di ciascuno di noi. È l’incontro scontro dialettico fra “es”, fra gli istinti, e il super ego, cioè la consapevolezza che è bene obbedire alle regole sociali e alle convenzioni che la vita comune degli uomini ha posto, che contribuisco a formare nel bene e nel male l’Ego, cioè la personalità di ognuno di noi. Ma il mio procedere nel pensiero può apparire azzardato. Freud non è Hegel. Per il secondo è “naturale” e benefico  che attraverso il confronto e scontro fra due concetti in antitesi, pervenga una sintesi che vuol dire superamento e soluzione di una controversia. Per Freud non è così. Le molteplici tensioni emotive e razionali che caratterizzano l’essere umano non hanno una soluzione, una tensione a superare il problema e a guardare avanti. Le conflittualità che albergano nella mente dell’uomo, per Freud, sono costanti e in sostanza insuperabili. Si possono sublimare, esattamente come il ghiaccio può diventare immediatamente sostanza gassosa, cioè possono diventare il motore che spinge ogni essere della nostra specie a creare. Ma non possono essere risolte e non possono essere contenute, pena gravissimi danni per la psiche.  Per Freud, infatti, qualsiasi atto razionale dell’uomo è mosso dall’irrefrenabile sete di soddisfare i nostri istinti. La passione istintuale crea l’estro creativo dell’artista. La stessa, però, genera l’istinto omicida dell’assassino. Ogni atto, vile o ottimo che sia, è il compimento del bisogno di soddisfare i nostri istinti più reconditi. Insomma è “ES”, cioè il nostro essere più naturale, brutali, che ci spinge a creare o a distruggere. È la fame di bisogni primari a farci scultori o brutali capi di governo che ordinano efferati omicidi. È la razionalità che ci fa diventare persone illustri o di potere, per spiegare: bisogna essere bravi nell’arte del comando e del governo per arrivare alla cancelleria tedesca anche se ti chiami Adolf Hitler e anche se ordinerai la morte di milioni di persone. Ma è la tua incapacità di trasformare gli istinti primari in bene per gli altri a spingerti ad ammazzare e perseguitare milioni di ebrei e di esseri umani in generale. Allora si può capire come la differenza fra l’omicida e l’artista, parlo per opposti radicalmente incompatibili, la fa l’Ego, cioè la persona, che sa calibrare al meglio i propri istinti, sublimandoli, se è buono in opera d’arte o in capacità di guidare gli altri con saggezza, o se invece materializza i propri bisogni primari in sete omicida. È bene ricordare, per meglio accentrare la questione, che non vi è nell’opera umana, quasi mai, una perfetta separazione fra azione e uomini del bene e fra quelli del male. Ogni opera umana, non solo può essere studiata, ma anche può essere nella sua concretezza sia fonte di bene che di male. Pensiamo in ambito di politica internazionale alle cosiddette “missioni di pace”, queste possono realmente portare pace e benessere, ma anche morte e peggiori sciagure di quelle che volevano combattere. Allora in questo caso è difficile dire se “Es” sublimato abbia prodotto il bene o il male. Allora spetta a noi trovare una risposta. Non solo per analizzare le scelte dei capi di stato, ma anche per valutare come vivere al meglio la nostra vita. L’Es è fonte di litigi anche per noi gente comune. La nostra brama istintuale alla salvezza nostra e dei nostri più stretti congiunti, i figli ad esempio, ci spingono a compiere atti prima di tutto crudeli e cattivi, ma anche non consoni a risolvere i problemi che siamo chiamati ad affrontare. Per semplificare: se abbiamo un problema da risolvere con un’altra persona, molto meglio sarebbe il confronto aperto e l’ascolto, che lo scontro. Meglio ascoltare l’altro che attaccarlo. Sublimare l’Es vuol dire anche la capacità di porsi sulla stessa corrente d’onda dell’ altro, sapere che anche egli ha i suoi bisogni e che possono non necessariamente essere in contrasto insolubile con i tuoi, ma che potrebbero produrre invece una fruttuosa e pacifica collaborazione, sublimando così lo scontro in fruttuosa compartecipazione. Ci proviamo? Proviamo a trovare una sintesi fra Engel e Freud, dicendo si il secondo ha ragione quando sottolinea che alcuni aspetti del nostro animo sono insuperabili e li dobbiamo portare “appresso” per tutta la vita, ma allo stesso tempo possiamo trovare in essi una sintesi, come diceva Engel, ma non tanto per superarli, Freud avrebbe detto rimuoverli, ma per farli diventare elemento comune denominatore della vita collettiva e presupposto per vivere in pace con coloro che interagiscono con noi.

UNA STORIA SBAGLIATA XX PUNTATA

 

UNA PORTA APERTA

Ci vestiamo in fretta, io, Giulia e Francesca. Dobbiamo aprire la porta. Certo la domanda è d’obbligo. È il caso che Francesca si faccia trovare qui, in casa mia? È il caso che ci presentiamo noi tre quali pecore al macello davanti a chiunque sia venuto a controllare le nostre esistenze? La risposta non è facile da trovare. Certo che l’insistenza del suono del campanello ci spinge a decidere in fretta. La conclusione a cui giungiamo è che nasc
ondere dei fatti incelabili è controproducente. Se Francesca si nascondesse dietro qualche anfratto, prima o poi la sua presenza si svelerebbe a chiunque sia l’avventore che chiede di entrare. Ora vestiti, stiamo tutti e tre in soggiorno, io quale padrone di casa mi accingo ad aprire la porta. Buongiorno, scusate il disturbo. Sono Martina Buonasera. Prego si accomodi, faccio io. È un piacere vederla di persona, signor giudice. Continua il procuratore. Sono venuto a fare un sopralluogo sul posto in cui è avvenuto il delitto. Alza lo sguardo, e si rivolge a Giulia quasi con tono di scusa, come se dicesse mi dispiace chiamare così casa tua, ma.. Ho pensato che, se non aveste nulla da obbiettare, sarebbe stato per me opportuno rivolgervi un saluto. Prego e grazie della gentilezza, faccio io, sempre perché sono il padrone di casa. Devo dirvi anche che ho sentito i legali della signora Rosetta Colletti, la vedova del senatore Calispera. Vorrebbe vedervi. Io non ho gli elementi per esprimere una posizione del tribunale, su un fatto che è e rimane un fatto privato fra voi.  Spetta a voi decidere se è il caso o meno di acconsentire all’incontro. Quanto a me, ovviamente, vi aspetto per il 23 marzo, per la prima udienza preliminare. Signor Igome, la giudice si rivolge a Giulia con fare chiaramente imbarazzato, il provvedimento di dissequestro del suo appartamento è pronto, presto, penso domani, lo firmerò e lo manderò in cancelleria per renderlo esecutivo. Se non ci saranno intoppi, lunedì 2 marzo lei potrà rientrare nella casa ove risiede. Poi pone lo sguardo verso Francesca, buongiorno signora. Si rivolge alla mia collega. Non ci siamo presentati io sono il giudice del tribunale penale di Roma, Martina Buonasera. Con chi ho il piacere di parlare. Salve, fa Francesca, sono Francesca Delfuoco. Sono dottoressa anche io, sorride per schernirsi, sono laureata in lettere classiche. Sono collega del dottor Fabio Lizzo, ricordo ai lettori distratti che Lizzo sono io la voce narrante, sono venuto a fare una visita, a vedere come andavano le cose a questo uomo che è un amico oltre ad essere un compagno, forse questo termine non doveva usarlo penso io, di lavoro. Bene, fa il magistrato. Tolgo immediatamente il disturbo, non dovrei neanche essere qui. Vi saluto. Aspetti, fa Giulia. Prego mi dica signor Marco, continua a chiamare Giulia con il suo nome di battesimo. Ho speranze? Ho speranza che possa tornare presto alla mia vita normale, la mia esistenza come era solo qualche giorno fa? Il giudice si acciglia. Corruccia la fronte. Appare volutamente come una che ha ricevuto una domanda imbarazzante. Risponde. È volontà non solo mia, ma dell’intera procura penale di Roma, che il suo bisogno di tornare alla normalità sia presto soddisfatto. È interesse dell’intera collettività rimuovere ciò che ha perturbato il quieto vivere della comunità cittadina e, visto l’importanza del caso, dell’intero paese. Noi magistrati e poliziotti siamo chiamati a questo, alle volte arduo, compito riportare al normale quieto vivere realtà perturbate da uno o più atti che vanno contro le norme giuridiche, poi in questo caso si parla di atti che hanno reciso una vita umana, siamo in frangenti gravissimi. Cercheremo di rimettere in sesto l’ordine costituito dalla volontà statuale della nostra Repubblica. Cercheremo il responsabile o i responsabili, per ridare tranquillità a chi è in questa storia o estraneo o, addirittura, vittima. Il pensiero è alla famiglia Callispera, che sta vivendo un lutto grave, una perdita dolorosa di un caro congiunto. Ripeto, a questo punto dell’inchiesta non si può dire altro. Tutto avrete chiaro al momento della convocazione, ove i legali dei soggetti coinvolti, a questo punto non posso neanche dirvi chi siano, saranno informati della stato dell’inchiesta e della posizione del proprio assistito. Buonasera, è il saluto della Buongiorno mi fece sorridere, pensando al contrasto con il suo cognome. Mi ricomposi subito, almeno ci provai, e la riaccompagnai alla porta. La porta che era rimasta aperta quando il giudice era in casa, la richiusi con un sospiro di sollievo. Era un modo per ricostituire la nostra privacy, che il magistrato, a mio parere, aveva violato facendo una “visita” che esulava dai suoi compiti e doveri istituzionali.

Cacchio, in che condizioni ci ha trovato il magistrato. È la prima cosa che Francesca dice quando siamo rimasti solo noi tre. Secondo voi ha fatto finta di niente o non si è accorta realmente di niente? Continua Giulia in questo dialogo. Non so. Rispondo io. Certo neanche due minuti prima di aprirgli eravamo nudi, stanchi dopo un amplesso così faticoso, ci siamo vestiti di corsa come matti. Inevitabilmente i nostri indumenti sono fuori ordine, dicendo così Giulia poggia le mani sull’abito che indossa per stirare approssimativamente le pieghe. Io mi preoccuperei di cosa abbia pensato della presenza di Francesca, continuo io. La mia collega risponde. Che deve pensare? Ovviamente tutto il male del mondo, aggiunge un sorriso sarcastico a questa affermazione, ma non credo che possa eccepire nulla. Sono semplicemente un ospite che fa una visita di cortesia ad un amico. E a me? Riprende Giulia. Francesca gli risponde. Ufficialmente ci siamo incrociati letteralmente solo un paio di volte. Tu in questo momento sei ospite di Fabio, quindi venendo a trovare lui incontro anche te, ma noi non ci conosciamo se non di vista. A questo non lo conosci? Giulia si alza il vestitino che indossa e mostra il suo pene, chiaramente tornato in stato di eccitazione. Marco Ignome, ora mi costringi a chiamarti come ti chiama la magistratura e la polizia, smettila di fare lo scemo. Il tono di Francesca appare realmente seccato. Giulia appare di contro contrita. Scusa, dice. Era un modo per provare a stemperare la tensione. Sai che noi, del giro.. ovviamente intendeva del mondo della prostituzione, nota del soggetto narrante,  quando siamo in tensione per fatti gravi, la buttiamo sul sesso, sul nostro lavoro, per cercare di ritrova un equilibrio mentale sconnesso da eventi irritanti. Non siete solo voi del giro a farlo. Dice Giulia, accondiscendente. È una caratteristica maschile. Sai quante battutacce noi colleghe dobbiamo sentire fatte dai nostri colleghi.. Ora mi guarda con fare giudicante.. si sente la Buonasera. Ma senza rendersene conto non ha ferito me, ha ferito Giulia, che si sente scaraventata fuori dall’universo femminile, grazie alla battutina di Francesca. Questa battuta è stata ancor più dura del fatto che l’ha chiamata Marco Ignome. Perché se chiamandolo con nome maschile aveva semplicemente sottolineato una caratteristica fisica di Giulia, avere il pisello. Con l’aver apostrofato le sue battute quali “caratteristiche del mondo maschile” ha di fatto reciso ogni legame di genere fra lei e Giulia. Giulia, sembra abbia voluto dire, è maschio, è Marco Ignome, c’è poco da discutere. Per Francesca Giulia ragiona, si comporta da maschio, Giulia è maschio.

Beh, fa la mia collega, non tutto è come sembra, nessuno è perfetto, come diceva il magnate americano a Tony Courtis in “A qualcuno piace caldo” quando Tony gli rivela di non essere una donna ma un uomo. Cerca di smussare gli angoli. Si rende conto che ha turbato l’animo di Giulia, con le sue frasi taglienti. Ora riprova a tornare in carreggiata, sottolineando la centralità dell’aspetto umano delle persone, che va oltre le caratteristiche sessuali. Un bel arrampicarsi sugli specchi, penso io. Secondo me dopo che ha detto a Giulia poche ore fa: veditela tu con la legge, noi, io e Fabio, ci tiriamo fuori. Ora che ha detto chiaramente a Giulia che è per lei è “Marco”, si è giocata ogni chance di acquistare fiducia verso di lei. Comunque è apprezzabile il suo tentativo di usare la filmato grafia, per ovviare alle sue gaffe. Ma per la serie Courtis in quel film interpreta un personaggio maschile, che tale rimane, ed è scambiato per donna solo per una serie di accidenti casuali. Insomma anche questa citazione potrebbe, anzi è, considerata offensiva da una donna che si ritiene intrappolata nel corpo di un uomo. Conosco Giulia. So che non apprezzerà il paragone. L’unica speranza è che faccia finta di nulla.

Il tempo passa. Arriviamo a un’ora tarda di sera. Francesca dice: vado a casa, buona serata. Giulia le dice: aspetta, ceniamo insieme. Meglio di no, fa Giulia. Non perché non abbia piacere a degustare la tua cucina. C’è il coprifuoco. La giornata è stata dura. Preferisco tornare a casa e meditare su quello che ci aspetta nel futuro prossimo. Poi ovviamente condividerò i miei pensieri con i vostri. A domani. Giulia esce dalla mia casa e chiude dietro di sé l’uscio. Un altro complicato giorno è concluso.

venerdì 16 luglio 2021

UNA STORIA SBAGLIATA XIX PUNTATA

 


UN’ALTRA ERA

Sento un rumore da lontano. Non so cosa sia, non lo identifico. Non so riconoscere questo rumore che proviene dalla piscina in cui sto facendo nuoto. Questo suono mi trascina verso l’asciutto, verso i bordi dell’incavo acquatico. Mi sveglio. Lentamente prendo coscienza del mondo che mi sta intorno. Stavo dormendo. Stavo sognando di nuotare. Io sono nel mio letto, ho accanto Giulia, che vedo: si sta svegliando anche lei. Il suono che sentivo nel sogno non è altro che la suoneria del mio cellulare che mi avverte che qualcuno mi sta chiamando. Guardo lo schermo. È Francesca. È la seconda volta in tre giorni che mi sveglia con il suo trillo. Giulia con la voce impastata dal sonno mi dice: ti prego rispondi, o almeno fallo smettere di suonare. Si riferisce ovviamente al telefono. Io mi decido a rispondere. Ciao. È la voce di Francesca. Disturbo? Stavo dormendo, ammetto, ma ovviamente la colpa non è la tua se mi svegli, sono io che ho preso abitudini sbagliate, dormo in ore del giorno in cui è normale svolgere attività pubbliche! Comunque scusami. Continua Francesca. Di nulla! Faccio io. Volevo dirti che ho parlato con il mio avvocato, Sorride sarcastica. E continua. Non pensavo di dover mai avere un “mio” avvocato. È la mia vecchia amica Stefania Coletta, abbiamo fatto scuola ed università insieme. Io gli dico subito: anche io mi sono rivolto a un amico dell’infanzia. Lei sorride. È il destino della nostra generazione che ha prodotto Azzeccagarbugli in dose industriale. Non mettere in mezzo il povero Manzoni. Rispondo io facendo sentire a telefono la mia risata, che vuole apparire realmente divertita. Ma viste le circostanze non credo che ci sia riuscito. Ovviamente è bene rivolgersi a un legale di fiducia anche per risolvere piccoli problemi di compilazione delle cartelle esattoriali, fa bene avere un consiglio su questioni tecnico legali che riguardano la normale vita quotidiana. Continuo. Spero che questo messaggio sia giunto a Giulia, come in passato. È intuibile che non è il caso di parlare per telefono della nostra strana vicenda di morti ammazzati. Giulia capisce, o meglio sa anche prima, che è bene non essere espliciti. Prende la palla al balzo. Evita di citare l’ufficio. Parla genericamente di dichiarazione dei redditi che per essere compilata al meglio ha bisogno di un supporto legale. Poi dice di sfuggita, quasi fosse una banalità: ti vengo a trovare fra poco. Il tempo di prendere la macchina. Non so che rispondere. Mi limito a dire: Ok. Non so se è la scelta giusta. Antonello, quello che dovrebbe, il condizionale è d’obbligo, essere il mio avvocato, ha detto che è meglio separarsi dai destini degli altri soggetti coinvolti nell’inchiesta. Ma il problema è proprio questo sia Francesca sia Giulia per me non sono semplici “soggetti”, ma persone alle quali sono legato in maniera quasi indissolubile. 

Chi era? Mi chiede Giulia, dopo che io avevo risposto il telefono sul comodino. Lo sai, faccio io, era Francesca. Che voleva? Sai anche questo! Rispondo io. Voleva sapere delle iniziative che stiamo prendendo per fronteggiare la “nostra vicenda”. E che le hai detto? Nulla! Viene a trovarci fra poco! Ah! A questa mia affermazione, Giulia reagisce solo con una esclamazione. Si alza di scatto dal letto. Dice: beh! Allora laviamoci e vestiamoci, suvvia! Va in bagno prima lei. Io mi accosto all’ingresso della camera da toilette. Ammetto che la vorrei vedere mentre pensa alla cura del suo corpo. Appena mi accosto alla porta del bagno, mi pento immantinente di averlo fatto. Vedo che si sta insaponando il volto. Si sta facendo la barba. Non è l’immagine ideale che si fa un amante dell’amata. Mi sovviene un film del 1954. Un film orrendo e stupendo allo stesso tempo. Un duplice compendio di fascino e ribrezzo, come è caratteristica di quasi tutte le opere del regista a cui si deve il film, Marco Messeri. Si tratta del Film “La donna scimmia”. Una interpretazione fantastica di Ugo Tognazzi ed Annie Girardot, l’attrice francese bellissima chiamata a fare la donna scimmia di cui Antonio Focaccia, il protagonista del film interpretato da Ugo Tognazzi, prima sfrutta le fattezze, per mostrarla come spettacolo da baraccone e poi se ne innamora perdutamente, fino ad arrivare a un tragico epilogo . Ecco Giulia è come Annie Girardot nel film, bella, suadente, ma con la barba da fare tutti i giorni. Mi perdo in questi pensieri. Donna barbuta sempre piaciuta, mi divago come un allocco in questi pensieri e sorrido fra me. Sento la voce di Giulia. Fesso, ti vuoi muovere. Fra poco arriva Francesca, gli hai detto tu di venire, non io. Almeno vestiti. Lei ha smesso di sbarbarsi, ora si sta facendo la doccia. Allora entro nel bagno, mi faccio coraggio. In un attimo ha rimesso a posto tutti i rasoi e i pennelli, non c’è traccia del taglio. Penso: in questa sua perfezione, nel suo ordine maniacale, manifesta di essere donna. Mi consolo. Ora tocca a me farmi la barba, mentre l’acqua scroscia. Vedo che Giulia ha anche sotto l’acqua rasoi e attrezzi per la depilazione, si sta facendo una beauty care completa. Ci mettiamo un po’ a lavarci entrambi. Ognuno impegnato alla cura del proprio corpo, quasi non notiamo l’altro o l’altra. Sembriamo proprio marito e moglie con una vita vissuta insieme da anni. Mi sovvengono le parole che ha detto a Giulia il viceispettore Melania Corretta, e che la mia partner mi ha riferito: vedo il cazzo di mio marito da anni, è cosa normale. Sta diventando “cosa normale” anche per noi due.

Suonano alla porta, ci siamo vestiti intanto. Chiedo chi è? Sono Francesca, si sente dall’uscio. Il portone era aperto! Io apro l’uscio di casa. Giulia, che aveva indossato il suo elegante vestitino monopezzo, dice sorridente: vuoi un caffè, facciamo colazione insieme? Noi non l’abbiamo ancora fatta! Francesca era vestita con un tailleur grigio, si direbbe fosse pronta per andare in ufficio. Un caffè lo prendo volentieri, dice.  La verità è che ho già fatto colazione, perciò non chiedo altro. Sarò felice, comunque, di essere a tavola con voi. Ci sediamo. La conversione, però, cade immediatamente su Calispera ed Igor. Si  parte subito con l’idea che è bene ignorare assolutamente le vicende di Igor. Il magnaccia deve rimanere assolutamente estraneo a noi. Noi non sappiamo nulla di lui e della sua morte. Così è l’affermazione netta di Francesca. Giulia replica. Ma se scoprono che, diciamo, eravamo soci in affari. Già, dice Francesca. Ma sia io che lei pensiamo la stessa cosa: questo è un problema tuo! Cioè di Giulia, noi due non c’entriamo nulla con Igor. Lascio che Francesca continui, però. Bisogna che tu convinca la polizia che Igor non lo vedevi da tempo. Speriamo che non ci siano testimoni che lo abbiano visto entrare in piedi e/o uscire disteso da casa tua. I Polizzi, i tuoi vicini di casa, sono persone fidate? Credo che siano fondamentalmente oneste, anche se un po’ fifone. Purtroppo per noi, continua Giulia, se hanno visto qualcosa lo diranno alla polizia. Ma spero non abbiano visto nulla. Lo speriamo tutti.. per te.. continua crudelmente Francesca.. che sta facendo di tutto per distinguere i destini miei e suoi da quelli di Giulia. La trans lo intuisce. Appaiono dal suo volto esternazioni di rabbia e sconforto nei nostri confronti. Sa che anche io, non solo Giulia, potrei essere un suo potenziale nemico. Allora state tranquilli, ci fa. I vicini hanno completa fiducia in me. Non immaginerebbero neanche che possa essere coinvolta in fatti delittuosi che vanno oltre la mia attività professionale. Questa frase non ha senso. Lo sa anche Giulia. La sua attività professionale è non dico delittuosa, la legge non punisce la prostituta che opera in ambienti chiusi e presso il proprio domicilio, la legge punisce chi apre bordelli o chi fa la “vita” per strada, non chi ospita a casa. Ma comunque è considerata moralmente disdicevole. Lei stessa ammette di essere costretta a frequentare loschi ceffi come il magnaccia Igor o come il camorrista Castelli. Poi c’è la questione delle tasse, lei non dichiara i proventi provenienti dalla sua “attività commerciale”, sorrido, qui esce fuori l’animo dell’esattore fiscale che in me, visto il lavoro ministeriale che faccio. Insomma in un processo tutta la sua vita potrebbe essere indice di un abituale utilizzo di pratiche criminali, un indice di essere avvezzi all’illegalità, che potrebbe contribuire notevolmente a produrre una sentenza che la condanni per gli omicidi. Sono molto preoccupato, lo siamo tutti. Sento che Francesca mi vuole spingere dalla sua parte. Mentre Giulia cerca disperatamente in me un’ancora di salvezza. Mi sento in balia di sentimenti contrapposti. Vorrei, in questo momento, che nulla fosse successo. Rivoglio la mia vita normale. Rivoglio i miei noiosi gesti di routine. Francesca continua a parlare. Calma, dice. Vedo che il mio dire vi ha angosciati. Ho sbagliato nei toni e nei modi del mio dire. Mi scuso. Non volevo affatto costruire un muro fra noi tre. Parto solo dalla semplice costatazione che i ruoli che abbiamo nella vicenda sono diversi. Che la situazione di Giulia e un po’ più complicata della nostra. In più se ci affidiamo alla “teoria dei giochi” di John von Neumann, in cui si assume che ognuno pensa solo a sé e non all’altro rifiutando ogni forma cooperativa, perdiamo tutti. Bisogna che per cooperare noi tre facciamo una cosa semplicissima. Tacere. Sono i giudici e i poliziotti che devono scoprire cosa abbiamo fatto e se il nostro agire è, diciamolo apertamente, criminale. Noi dobbiamo limitarci a non fare nulla. A queste parole Giulia a un sobbalzo. La sua vita, la sua storia vissuta, può diventare notoria, il suo essere diventare di pubblico dominio, raccontato in un’aula di tribunale e sui giornali. Che destino l’attende, penso sia questo il suo pensiero. Io francamente non lo so. Non so cosa abbiano deciso le Parche, le dee della nascita e della morte, per me figuriamoci per lei. Un’altra era si sta aprendo. Un’era fatta di vergogna, di pubblico ludibrio e di sale di giustizia. La vita nuova, la vita assolutamente diversa dal passato, che ci attende sarà irta di ostacoli. Ma, penso, forse per Giulia sarà una possibilità di riscatto, Forse smetterà di vendersi, di vendere il suo corpo. Non so che dire. Questo stato di cose che si sta concludendo e quello nuovo che si sta aprendo sono per me carichi di incognite.

UNA STORIA SBAGLIATA XVIII PUNTATA

 


UN GIOCO DI SPECCHI

Allora che vita stai conducendo? Mi chiede sorridente Martina, evidentemente cerca di continuare la conversazione su un fatto di sangue che fa gola a una giornalista come lei. Bah, le rispondo, niente di nuovo. Che risposta sciocca, sta scoppiando un tornado nella mia esistenza, lo so io, ma lo sanno anche i miei interlocutori, e io rispondo con questa banalità. Ti stiamo seguendo nelle tue gesta. Si fa la voce di Martina sferzante. Che gesta? Rispondo io. Sono solo uno spettatore che sta troppo vicino alle scene e di conseguenza viene coinvolto, senza che lo voglia, dagli attori in uno spettacolo che ha i contorni di una tragedia, certo, si parla di un omicidio, ma assume spesso toni da farsa di quart’ordine. Martina alza le sopraciglia. Dubita delle mie parole, ma vede una breccia nel mio silenzio, questo è ciò che le interessa, ha la speranza di avere delle notizie sulle quali fare un articolo. Antonello non sa cosa fare. La situazione gli sta sfuggendo dalle mani, la moglie sta mettendo sotto torchio un suo amico, che per di più potrebbe diventare un suo cliente, potrebbe essere patrocinato in un processo scabroso. Che fare? Ah il leninismo che fa breccia nella mente di un ex “ragazzo di sinistra”. “Che fare?” era il titolo di un celebre scritto del rivoluzionario russo che indicava i tempi e i modi per portare la rivoluzione nella Russia post zarista. Quello che ha prodotto nel mondo quella domanda è lampante a tutti, dopo oltre un secolo dalla stesura del testo e dagli eventi che ha causato. La rivoluzione voluta da Lenin a portato decine di milioni di morti non solo nella Russia, ma in tutto il mondo. Questo deve essere monito per tutti in tutte le cose della vita. Anche le persone comuni, le genti da niente, come me, possono produrre delle tragedie nel proprio ambito amicale e familiare pur spinti da propositi buoni. Addirittura Lenin voleva l’emancipazione delle classi subalterne e ha creato uno stato gulag. Allora devo stare attento. Scegliere di abbandonare alle proprie sorti Giulia, potrebbe essere la soluzione migliore per me, ma ne sono certo? Non è che abbandonare quell’uomo che si sente donna è un po’ abbandonare me stesso, i miei principi di mutuo soccorso, di solidarietà umana, di aiuto alle persone più bisognose. Certo mi sono domandato spesse volte i questi giorni se il mio legame con Giulia non fosse solo, tra virgolette doppie, una insana perversione sessuale. Se io, convintamente etero fino a poco prima, mi fossi perso in una pratica sessuale omosessuale scoprendo piacere a me fino ad allora ignoti. Non posso negare che questo aspetto, nel mio pormi in questa storia, c’è. Ma allora cosa rispondere alle domande impertinenti di Martina? Come qualificare i miei atti? Sono veramente “gesta” da rotocalco, come dice lei? “Che fare?”, come uscire da questa situazione che mi angoscia. Come poter affrontare gli scenari futuri che vogliono dire: domande curiose come quella di Martina, inchieste giudiziarie ed accessi in tetri tribunali. Magari la mia vita sarà migliore. Francamente non so come potrà avvenire questo miracolo, visti gli oscuri presagi. Ma non scartare a priori che da una situazione oscura, possa riapparire il sereno. Bisogna lottare. Bisogna credere nell’avvenire. Guardo i poveri, i disabili le persone deboli, anche loro avrebbero bisogno di una speranza. Avrebbero bisogno di sostegno aiuto, avrebbero bisogno di solidarietà. Invece in alcune regioni, le più povere del paese, sono lasciati a se stessi, se non addirittura derubati e torturati. Io provengo da una famiglia “bene” della Puglia di conseguenza i miei genitori mi picchiavano, letteralmente, se chiedevo soldi alle persone più deboli, ma in città  era costume, era abitudine, non lo facevano solo i malavitosi, ma chiunque, era un modo per dire “orgogliosi di essere baresi”. Bisogna cambiare questo stato di cose. Io non ho avuto il coraggio di farlo. Sono scappato dal mio paese. Ora mi ritrovo a essere in bilico fra essere complice di un crimine ed essere solidale con una persona perseguitata perché è unica ed eccezionale. Forse aiutare Giulia è un modo per riscattarsi dal mio peccato di ignavia che mi ha portato via dal luogo natale per non vedere le ignominie che avvenivano. Beh mi vuoi dire cosa diavolo ha fatto questo Ingome? Martina blocca il mio flusso di coscienza. I miei pensieri si fermano. Provo a concentrarmi sulla risposta più adeguata da dare. Non so più di quello che dicono i giornali, accenno io un primo approccio alla conversazione. Come? Fa lei. Ci vivi insieme e non sai nulla. Esatto. Intanto guardo di sottecchi il marito, il mio futuro avvocato Antonello Scarzone, che guarda gli occhi al cielo. In realtà, continuo, non si può dire che ci vivo insieme. Mi spiego. Da un paio di giorni è venuta/o in casa mia, mi ha imposto di ospitarlo/a, all’inizio pur di malincuore ho accettato, poi ho scoperto dell’omicidio. Attenzione penso devo obbligatoriamente parlare al singolare, al momento è meglio assolutamente ignorare nei miei racconti l’omicidio di Igor, ancora conosciuto a nessuno, se non alla camorra. Avrei potuto cacciarla, continuo a parlare, ma lei /lui non ne vuole sapere. Davanti alla polizia, per timore di urli e schiamazzi da parte di lei, ho preferito sorvolare e lasciare le cose come stanno. Bene, fa Martina. Francamente questo avverbio detto così non ho idea di che significato abbia. “Bene” cosa? Penso io. La conversazione prosegue. Parliamo anche di sport e di vecchie amicizie. Insomma il dialogo assume a sprazzi i toni di una normale conversazione fra amici, dopo una cena conviviale. Si parla del campionato di calcio, che dovrebbe ricominciare, ma non si sa quando. Si parla del Campionato Europeo che quest’anno dovrebbe disputarsi, ma non si sa come e dove. Insomma si prova a parlare della vita comune di tutti i giorni. Si parla del Covid. Il grande male che sta congelando in una notte di morbo e fiele il nostro paese. Martina mi chiede: vuoi restare a dormire, sarebbe meglio, eviteresti scocciature con la polizia e anche pericoli di incontrare malintenzionati. Io declino l’invito. Mi attenderebbe un ulteriore interrogatorio l’indomani a colazione, prima di tutto. Esco. Prendo la mia macchina, la mia vecchia escort. Torno a casa da Giulia. Ormai è chiaro, le nostre sorti si stanno divergendo. In macchina, in una Roma deserta, penso a cosa sono state queste ore insieme. Penso al difficile rapporto fra Giulia, Francesca e me. Penso a quella notte appena trascorsa in macchina, ci sentivamo braccati, avevamo appena nascosto un cadavere, eppure Giulia e Francesca avevano fatto l’amore insieme come due folli. Come possiamo dividerci se siamo uniti da modi di fare e di essere che, pur perversi, ci rendono un solo corpo, esattamente come gli amanti di Platone che ritrovano l’unità perduta attraverso l’atto sessuale. Non so se siamo buoni o cattivi, non so se siamo giusti o ingiusti, non so se siamo retti o pervertiti, quello che so è che siamo una cosa sola. Questo è un dato di fatto. La giustizia ci obbliga a dividerci. Sarebbe meglio che in tribunale ci presentassimo divisi, come tre monadi che non hanno possibilità di comunicare e interelazionarsi fra loro. Ma non possiamo.

Arrivo a casa. Non mi ha fermato nessuna pattuglia della polizia, fortuna. Non apro, busso alla porta. Sento che qualcuno guarda dallo spioncino, forse sorpreso da quel trillio improvviso. Ho un respiro di sollievo. È Giulia ad aprirmi, con quell’abitino corto e da casalinga tutto fare, che si è comprato questa mattina. Tutto bene? Chiedo. Si tutto bene! Risponde. Non è venuto nessun’altro a fare visita, il tono è volutamente ammiccante e doloroso. Vuole rievocare i fatti tristi di solo qualche ora fa, quando sono venuti Tantalo Castelli e i suoi scagnozzi. E il boss l’ha violentata. Ho un colpo. Dovevo dire questo ad Antonello? Certamente a Martina no! Domani racconterò in privato al mio avvocato anche questo triste episodio. Hai fame? Mi fa lei. No, ho mangiato da Antonello, rispondo. Io non ho mangiato. Continua Giulia. Fallo, rispondo io, ti posso guardare? Lei rimane stupita della domanda, non sa che rispondere. Poi continua. Non ho fame neanche io! Dai mangia qualcosa, continuo io. Un qualche cosa che ti aiuti a superare il nervosismo, la delusione per come si sono svolti gli avvenimenti. Bah! Fa lei. Però va in cucina, apre il forno e tira fuori la teglia di pasta che aveva preparato. Era un pranzetto delizioso preparato per me. Penso e credo di aver ragione. Lei mangia dalla teglia. Io apro una bottiglia di vino rosso. Prendo due bicchieri e una forchetta dal lavabo. Stappo la bottiglia, aspetto che si vaporizzi il cosiddetto sapore di tappo prima di versarlo, intanto chiedo: posso. Allungo, con fare volutamente enfatico, la forchetta alla teglia. Lei dice: certo. Prendo i piatti? No! Rispondo. Però se ti disturba la mia invasione verso tua teglia da parte mia, li potremmo prendere. No, risponde lei. Verso il vino in due calici. Brindiamo, mangiamo e beviamo. Per diverso tempo non parliamo. Assaporiamo la buona pasta cucinata al forno. Finito di mangiare io mi sento proprio satollo. Credo che da quando sono a Roma, non abbia mai mangiato tanto in una sola serata. I cenoni, i pranzi luculliani, le cene tramalcionesche le ho lasciate da quando sono andato via da Bari. Specialmente ai cenoni della Vigilia di Natale e della notte dell’ultimo dell’anno. Penso al “Satiricon” di Petronio, in questo libro si ricorda il liberto Trimalcione che, dopo gli anni della schiavitù e riconquistata la libertà con la ricchezza e la capacità nei commerci che erano sua causa di liberazione. Aveva guadagnato da schiavo così tanto, anche e soprattutto a scapito del padrone, da comprare la sua libertà. Insomma Trimalcione mangiava e faceva mangiare cose inaspettate e incredibili. Maiali ripieni di piccioni, leccornie speziate, pesci provenienti da mari della Campania e della Sicilia. Insomma era veramente il centro dei piaceri la sua tavola. Non solo culinari, ma anche sessuali, nella sua cena si esibivano puelle e pueri, cioè schiave e schiavi giovanissimi, pronti, per meglio dire preparati dalle regole di comportamento orribili dell’epoca, a soddisfare i bisogni, meglio i pruriti, di tutto i convitati. Altro che rapporto amoroso alla ricerca della propria parte mancante. Insomma il Satiricon, fra l’altro reso un film dall’indimenticato Federico Fellini nel lontano 1968 e allora ci voleva coraggio a mettere sulla pellicola temi così scabrosi, era un romanzo sulla vita della gente ricca durante l’impero di Nerone. Era un racconto della quotidianità, fatta di sensualità e cibo abbondante, che a noi pare scabrosa, ma in realtà all’epoca era normalità. Petronio era un membro della corte dell’imperatore Nerone. Cadde in disgrazia agli occhi di Cesare. Nerone era convinto che facesse parte di una congiura contro di lui. La stessa sorte era successo all’insegnante del giovane Nerone, il filosofo Seneca. Ambedue si dovettero suicidare. Un atto di “generosità” dell’imperatore del mondo, che concesse a due grandi della letteratura latina di non morire davanti al patibolo, ma di togliersi la vita da soli, nel loro mondo appartato e con dignità. Questa loro morte nulla toglie alla grandezza dei due autori. Pensando alla morte di Petronio. Pensando alle avventure sessuali raccontate nel Satiricon. Perdo la contezza degli avvenimenti, perdo il ricordo dell’incontro con Martina ed Antonello. Finiamo di mangiare io e Giulia. Non gli lascio il tempo di alzarsi. Sono dietro di lei. Gli alzo la veste. Non ha mutande. Beh, mi aspettava, penso. Ora sposto la sedia su cui era seduta. Lei poggia la sua parte superiore del corpo sul tavolo. I suoi seni sono nel piatto sulla teglia su cui abbiamo appena mangiato. Io la penetro con forza. Lei comincia a mugolare. Sente piacere. È come una gattina che fa le fusa. Io mi sento Trimalcione. Ma non voglio che Giulia sia uno degli schiavi al servizio del piacere del padrone. È mia perché gli voglio bene, è mio possesso perché la desidero, non perché lo comprata. Gli afferro le tette, mettendo mani e braccia fra lei e il tavolo che la sorregge. Gli accarezzo e pizzico i capezzoli. Spingo con tutte le forze. Vengo. Sono felice. Poi appena il liquido spermale esce da me per essere lei, penso considero Giulia una parte di me? Non posso negarlo! Come farò ad assumere una posizione giudiziale avversa alla sua, come mi consiglia Antonello? Mi rabbuio, anche se evito di farlo notare. La prendo in braccio, anche se è un po’ pesante per me. Ce la faccio! Andiamo a letto, cerco di addormentarmi mettendo via i miei oscuri pensieri. Mentre sono in posizione fetale, sento dietro di me qualcosa lunga. Prima è toccato a me utilizzare l’attrezzo, ora lei vuole usare il suo, è chiaro. Lei non ha le mutandine, non se l’è messe neanche dopo il rapporto, io ho lasciato i miei indumenti nel soggiorno. Siamo nudi. Lei mi penetra più volte. Io non dico nulla. Mi sposto solamente dalla posizione fetale a quella prona, lascio che faccia tutto lei. Infatti il suo uccello entra nel mio ano. Come al solito ciò mi provoca un misto fra dolore e piacere, ormai ci sto facendo l’abitudine visti i frequenti rapporti fra noi. Ho comunque veramente felicità da questo suo agire. Quando anche lei ha finito, quando il suo uccello torna in posizione di riposo, ci addormentiamo abbracciati. Il tempo sembra fermarsi, ma purtroppo così non è, lo scoprirò già l’indomani, ma adesso è tempo di credere che la felicità possa essere infinita.

sabato 10 luglio 2021

700 ANNI DALLA MORTE DI DANTE

 


IL POETA CHE FECE L’ITALIA

Nella notte fra il 13 e il 14 settembre 1321 morì Dante Alighieri. Probabilmente stroncato dalla malaria e da un delicatissimo viaggio diplomatico da cui era di ritorno. Dante Alighieri era esule a Ravenna. Ospitato dal signore della città Guido da Polenta. Guido gli diede l’incarico di negoziare una delicatissima trattava con la rivale potente Venezia. In ballo era la produzione nelle famosissime saline che si affacciano alla foce del Po. Il sale era un bene prezioso all’epoca e lo è sempre stato in tutta la storia dell’umanità. Il sale non serve solo ad insaporire il cibo, ma, come ben si sa, a conservarlo e quindi a garantire congrue scorte di cibo a chi lo possiede. Ecco perché garantire la pace in prossimità delle zone di estrazione salina dell’Adriatico voleva dire garantire benessere, ricchezza e, soprattutto, non fame a tutti gli abitanti della costa e anche a coloro che vivevano all’interno, ma che avevano disperato bisogno di sale per mettere al sicuro le loro scorte di cibo. Dante si presenta ai dogi della città più importante del Veneto. Esplicita le ragioni dei signori di Ravenna. Propone, con la sua arte dialettica, soluzioni di compromesso che garantiscano lo sfruttamento del prezioso oro bianco del mare. Prospetta anche una nuova alleanza in grado di fondarsi non solo sull’estrazione del sale, ma anche sul commercio con l’Oriente. Si sa che l’Adriatico era il canale dei traffici privilegiato che collegava l’Asia, il Medio Oriente, con l’Europa germanica e latina. Una pace in quel mare voleva dire sicurezza delle navi che navigavano, commercio garantito a tutti i mercanti, non importa quali fossero i loro natali e in quale città avessero mercato. Insomma la pace voleva dire sicurezza. Voleva dire che i pellegrini che andavano in Terra Santa, almeno finché non lasciassero le sponde italiche erano sicuri di non essere aggrediti. Per loro il nemico doveva essere solo il mussulmano, fra l’altro anch’esso riappacificato grazie ai molti trattati fra regnanti cristiani e il Saladino, la massima autorità politica dell’impero islamico. Ravenna e Venezia stipularono l’accordo di reciproca amicizia e collaborazione nell’estrazione del sale e non solo il 20 ottobre 1321. Era passato poco più di un mese dalla morte di Dante Alighieri. Appare da suffragare la tesi, molto più che plausibile, che il lavoro diplomatico che il poeta svolse poco prima di morire fu determinante per approdare a un trattato che pose le basi per strutturazione politica ed economica del dell’Adriatico nei successivi decenni, ponendo così l’autorità di Venezia non quale despota e crudele dittatore, ma come città egemonica dialogante con le realtà più piccole, ma pur vivaci sotto tutti gli ambiti della società.

Dante Alighieri spirò facendo questo ultimo grande servizio all’Italia, che pur non c’era come entità statuale, ma era comunque sentita come soggetto morale ed etico composto da milioni di persone che vibravano ad un cuor solo. Questo sentimento forte di unità è palesato dalla stessa poetica dantesca. Dante è il poeta dell’Italia. Nella Vita Nuova canta una tensione al bello che rende comuni a tutti gli italiani un unico destino di soavità e bel canto. Il De vulgari eloquentia è la elaborazione filosofica e filologica del bisogno di rendere il volgare un comune linguaggio degli italiani. Bisogna che il volgare, cioè il latino che si utilizza in casa, diventi il linguaggio classificato e regolato di ogni consesso culturale e sociale. Il latino per dante Alighieri era la lingua dei trattati fra stati, era la lingua delle speculazioni intellettuali, ma la lingua della poesia, la lingua che era la vibrazione del cuore del popolo doveva essere l’Italiano. Da qui nacque la “Commedia”, che fu subito ribattezzata Divina, un viaggio, immaginario, nell’oltretomba cristiano. Un viaggio nei tre mondi ultraterreni: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Un impegno della fantasia dantesca che doveva raccontare la società terrena, le sue tensioni etiche, politiche e sociali, attraverso l’allegoria del mondo che è, o meglio dovrebbe essere, dopo la morte. Dante parla con i grandi del passato. I condannati sono lì a contorcersi dal dolore, i purganti sono in cammino verso la salvezza, e i beati vivono in un’eterna felicità in Dio. Ecco la straordinaria capacità di dante che lo rende immortale. Creare un linguaggio, formarlo dal fango e dalla terra, cioè dai dialetti, in primis di Firenze, ma anche da quelli di altri luoghi d’Italia, mescolarlo con il latino e utilizzando sapientemente le contaminazioni che vengono dalla Provenza, in quel tempo culla della letteratura francese che anch’essa, come quella italica, allora faceva i primi vagiti. Insomma dante Alighieri ha fatto l’Italia. Non come la fecero Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II nel 1861, cioè non fece un’unità politica, ma un’unità dei cuori e delle menti. Ma senza quell’unità che fece dante, quel rendere in pieno il comun sentire della nazione, non ci sarebbe stata nemmeno l’Italia politica.

martedì 6 luglio 2021

UNA STORIA SBAGLIATA XIV PUNTATA

 


POLVERE SOTTO IL DIVANO

“Che fai?”, mi disse Giulia. Io ero sopra di lei. Gli rispondo “faccio scendere l’adrenalina”. Avevo citato le sue stesse parole, che aveva usato per giustificare il fatto che lei e Francesca avevano fatto poche ore prima in macchina l’amore, con me spettatore e guidatore. Gli stavo alzando la camicetta lunga che utilizzava per dormire. Stavo puntando ad abbassargli le mutande, con il mio corpo che era già sul suo. Giulia allora stende le sue braccia sui suoi fianchi, accosta le sue mani alle sue mutande, intende farle scorrere lungo le gambe. La sua azione non è decisiva. C’ero già io che gli stavo togliendo la biancheria intima. Ma quel gesto indicava chiaramente che lei acconsentiva, intendeva dire “si” al mio atto di coito. Chissà se aveva capito il mio riferimento alla storia di sesso fra lei e Francesca? Chissà se si volesse far perdonare, accondiscendendo a un momento di sessualità fra noi due, appena ridestati forti grazie a un sonno ristoratore? Il mio pisello entrava nel suo culo. La sua azione si faceva decisa e ritmica. Ben presto ogni pensiero si spense in me, tutto il mio essere, corpo e cervello, era concentrato sul spingere, sull’atto di rapporto amoroso che stavo compiendo. Nel frattempo le miei mani si erano posate sull’inguine di lei. Sentivo che piano piano anche la sua eccitazione cresceva. Alla prima mia penetrazione il suo uccello era completamente moscio. Sembrava disinteressata all’atto sessuale, sembrava realmente che avesse consentito al coito solo per placare la mia gelosia, per “farmi scendere l’adrenalina”, per farmi scordare la gelosia e per chiedere perdono. Poi ho sentito che i muscoli involontari del suo ano cominciavano a tendersi e contrarsi. Era indice che anche lei provava un po’ di piacere. Si era spostata più volte con il suo corpo sotto il mio, per essere più comoda e non sentire i dolori muscolari provocati dalla presenza della mia persona sopra la sua. Il suo pisello cominciava a crescere. La sua duplice passione sessuale, causata dal suo essere transex si appalesava. Sentiva piacere dalle sue terga, e manifestava la sua passione dall’erezione della parte anteriore del suo corpo. Io mi sentivo potente. Avevo, ora, tolto le mani da lei, le avevo poggiate sul letto per utilizzarle come leva per battere con più veemenza il suo culo. Spingo. Spingo ancora. Il suo corpo freme. Il mi oscilla imperiosamente sulla sua schiena. I suoi ansimi diventano grida di piacere. La sua bocca si contorce di piacere, la sento che compie suono compatibili con il frenetico scontrarsi della lingua con il palato. Sono minuti interminabili che si susseguono. Ora il mio liquido spermale esce dal mio pene ed entra nei suoi orifizi. Il piacere è all’estasi. Ma si consuma presto. Io mi accascio sul letto, quasi cadendo per terra, visto che comunque la nostra alcova era il mio “a una piazza”. Quasi mi addormento, ma sento che lei viene sopra di me. Ora è il suo uccello che vuole aprire un varco nel mio corpo. Lo fa imperiosamente, penetrandomi con decisione, Io gemo dal piacere. Non so come possa essere successo, ma ormai riesco a trovare piacere sessuale in maniera assolutamente avulsa dal mio apparato genitale. Riesco a provare piacere anche se il mio pene è completamente inattivo. Tutto grazie allo strepitoso rapporto che si sta creando fra me e Giulia. Riesco a condensare la felicità in un attimo fuggente che si realizza attraverso l’efficace congiungersi delle nostre anime. Poi, a dire il vero, non è solo una passione spirituale quella che mi fa battere il cuore. Il suo cazzo dentro il mio ano mi crea un piacere inaspettato. Quando viene i miei pensieri si perdono in un oceano di pensieri che diventano sogni e che hanno come oggetto solo e unicamente la sua persona.

Mentre ci riposavamo abbracciati, suona il cellulare. È il mio telefonino. Elena dice non rispondere e mi dà un fuggevole bacio sul mio labbro inferiore. Devo. Rispondo. Il mio tono è quello di un condannato a morte che va verso il patibolo. Forse la mia sensazione e la mia emozione nel frangete sarebbe meglio paragonata a quella di un bimbo a cui la mamma sottrae un gelato per dargli una medicina. Ma fra pochi minuti sarò più propriamente, anzi realmente, un condannato a morte. Ciao, sono Elena. Di Troia? Domando io fra i miei pensieri, stando ben attento a non esprimerlo con parole alla mia attuale interlocutrice. Avrete capito, come capii subito io, che era Elena Garrone il mio direttore di dipartimento.  Ciao, dimmi. Solo il fatto che aveva deciso di entrare di botto con il “tu” era un gravissimo segno, lo sapevo. Quando si trattava di avere una conversazione formale, istituzionale, era d’obbligo utilizzare il “lei”. Quando si partiva in terza persona, alla francese, e poi ci si buttava a ridere e a darci del “tu”, la conversazione era scherzosa e allegra. Ma quando, con serietà, si inizia fin da subito con il “tu”, vuol dire che si sta parlando di cose fondamentali per la vita di tutti e di ognuno i componenti dell’organizzazione dell’ufficio e dell’istituzione stessa. Elena Garrone doveva dirmi qualcosa di molto importante e di grave. Inizia. Mi ha chiamato un distaccamento periferico del dipartimento di polizia di stato romano. Mi ha telefonato il comandante del distretto. Mi ha chiesto informazioni su Fabio Lizzo, su di te, e su Francesca Delfuoco. Ho chiesto perché? Mi ha detto che queste due persone sono state fermate mentre svolgevano una missione per contro del mio ufficio. Ho chiesto dove? A Latina. Può darsi che abbiano dovuto compiere un controllo catastale, azzardo. Esatto, risponde il poliziotto. Volevamo sapere, prosegue, lei è a conoscenza della trasferta, l’ha autorizzata, malgrado la pandemia, considerandola urgente? Qui avevo un groppo in gola, non sapevo cosa fare. Mentire voleva dire essere complici di non so che cosa, dire la verità, cioè che ero all’oscuro di tutto il vostro viaggio ed ero certa che non c’era nessuna missione da compiere al Latina voleva dire condannarvi. Qui io, Fabio Lizzo,  ho un tremito, il mio telefonino potrebbe essere controllato, e la Garrone sta dicendo troppo, la polizia e il giudice potrebbero farci un mazzo tanto, potrebbero farci male più dell’arnese di Giulia quando è al massimo della potenza. La Garrone è una fessa. Si sta incastrando anche lei. Oppure è il contrario, tremendamente furba e utilizza la nostra conversazione per informare la polizia della verità, consapevole anche lei che il telefono è controllato, senza esporsi troppo. Poi la mia superiore continua. Senta Lizzo,ahia mi chiama per cognome, intanto si prenda un po’ di ferie, non c’è bisogno di accendere il terminale del ministero da parte sua almeno per, diciamo, tre settimane. Io non dico nulla. Sapevo già da Francesca che questa sarebbe stata la decisione della Garrone. Gli propongo un gentile “buona sera” come congedo e chiudo il telefonino.

Chi era, Francesca? Mi fa Giulia con un tono che voleva apparire appositamente da gelosa. Rispondo no. Era Elena Garrone. Hai un’altra!? Bastardo, non ne bastano due. Risponde Giulia in tono faceto. Sa chi è la Garrone. L’abbiamo detto a lei sia io che Francesca. Sa che è il nostro capo. Poi mi fissa in volto. Che hai? Mi ha lasciato a casa, in ferie! E non sei contento? È vero che a casa c’eri già ma almeno non devi stare dietro alle scartoffie. Ridi, ridi. Dico io. Mi ha messo in ferie perché la polizia gli ha comunicato che sono invischiato nell’omicidio dell’onorevole Calispera e che sono andato a fare una gita con Francesca lei sa a Latina, ma noi sappiamo bene dove.. senza che fossi autorizzato dall’ufficio e, cosa più grave, dichiarando alle forze dell’ordine di esserlo. E ora purtroppo saranno guai anche per Francesca. Aggiungo. Pensa se sapesse che con noi c’era anche la nostra efficiente Elena Carsoli, dirigente amministrativa, giusto? Giulia alza le spalle. Chi cavolo si ricorda le balle che ha sfoderato Francesca per giustificare la mia presenza in macchina, sorride. Per te (Giulia) bastava il bocchino che ti ha fatto Francesca a giustificare il viaggio? Penso, sarcastico, ma non dico. Suona ancora il cellulare. È Francesca! Cosa c’è, gli dico. Siamo nella merda. Non dobbiamo dirci nulla di compromettente al telefono, penso. Aspetta, non drammatizzare. Provo a dire a Francesca. Aspetta a parlare dopo che siano evoluti gli eventi, il mio dire contorto vuole fargli capire che deve tenere la bocca chiusa, speriamo che capisca. Ma allora che facciamo! Dice Francesca, mi ha chiamato la Garrone. Anche a me, rispondo. Mi ha consigliato di prendermi qualche giorno di ferie, dice Francesca. A me ha imposto di stare a casa o meglio di non lavorare visto che a casa ci restiamo comunque grazie al lock down , rispondo io.  Io ho accettato la sua proposta, non sapevo che dirgli, replica Francesca, anche io rimango in ferie da adesso almeno fino al prossimo primo del mese, vuol dire quindici giorni. Insomma oggi ha utilizzato lo stesso metro di giudizio sia con me che con te. Dico alla fine.

Suonano alla porta. Io dico a Francesca: ti devo lasciare e interrompo la conversazione. Meglio, parlare al telefonino è rischioso, soggiungo fra me. Chi è? Faccio io. L’agente Mario Carri, sto scortando il nunzio giudiziario del tribunale di Roma. Buonasera, si presenta quest’ultimo, sono il nuncio del Tribunale di Roma, sezione penale. Sono il dottor Edgardo dell’Edera. È qui il signor Marco Ignome, sono io risponde Giulia. Il messo penale sbarra gli occhi, poi dice ah, mi mostri un documento. A quanto pare gli avevano detto che Giulia era un trans ma se n’era dimenticato, allora quando Giulia si è presentata prima ha avuto un sommovimento poi si è rilassato. Il dottor Dell’Edera aggiunge, rivolto a me, è lei per caso il padrone di casa, il signor Fabio Lizzo. Sono io rispondo. Ecco per voi due avvisi da parte del tribunale penale, controfirmati dal giudice la dottoressa Martina Buonasera e dal coordinatore dell’ufficio delle indagini preliminari e capo della procura, il giudice dottor Roberto Gualtieri. Li prendiamo, ognuno prende quello che è indirizzato a sé. Sono due mandati di comparizione, bisogna andare al tribunale a parlare con la Buonasera. Sono ambedue per il 22 marzo, fra un mese esatto. Ambedue nello stesso giorno. Ma il mio è un avviso a comparire per persona che potrebbe avere informazioni utili al caso, insomma mi chiamano come testimone. Per Elena, invece, c’è un avviso di garanzia per sospetto omicidio premeditato perpetrato ai danni del senatore Eugenio Callispera. Su ambedue gli avvisi c’era una postilla, evidentemente introdotta per decreto legislativo recentemente in tutti gli atti giudiziari. Diceva se l’emergenza sanitaria lo renderà necessario sarà possibile ascoltare vostra signoria in tele conferenza. Bah.

Intanto accompagnarono il nunzio alla porta, dopo che questi aveva gentilmente declinato l’invito a prendere un caffè. Salutiamo gentilmente il nostro ormai amico Mario Carri, poliziotto appena assunto in servizio ma con grande futuro. È impossibile che degustino con noi una qualsiasi bevanda sia per la funzione che svolgono, sia per il nostro ruolo nell’inchiesta e sia per la contingenza sanitaria. Giulia e Fabio senza neanche parlarsi andarono a spostare il divano, per controllare se avessero dimenticato di pulire qualche macchia di sangue di Igor. Non c’era sangue, ma non c’era neanche polvere, cosa usuale sotto un vecchio comodo sofà. Se la polizia entrasse a perquisire l’appartamento, anche questo sarebbe sospetto. La polvere sotto il divano è una prova, una prova di vita vissuta all’interno di una casa e che non si vuole cancellare anzi se ne è orgogliosi.