IL POETA CHE FECE L’ITALIA
Nella notte fra il 13 e il 14 settembre 1321 morì Dante Alighieri. Probabilmente stroncato dalla malaria e da un delicatissimo viaggio diplomatico da cui era di ritorno. Dante Alighieri era esule a Ravenna. Ospitato dal signore della città Guido da Polenta. Guido gli diede l’incarico di negoziare una delicatissima trattava con la rivale potente Venezia. In ballo era la produzione nelle famosissime saline che si affacciano alla foce del Po. Il sale era un bene prezioso all’epoca e lo è sempre stato in tutta la storia dell’umanità. Il sale non serve solo ad insaporire il cibo, ma, come ben si sa, a conservarlo e quindi a garantire congrue scorte di cibo a chi lo possiede. Ecco perché garantire la pace in prossimità delle zone di estrazione salina dell’Adriatico voleva dire garantire benessere, ricchezza e, soprattutto, non fame a tutti gli abitanti della costa e anche a coloro che vivevano all’interno, ma che avevano disperato bisogno di sale per mettere al sicuro le loro scorte di cibo. Dante si presenta ai dogi della città più importante del Veneto. Esplicita le ragioni dei signori di Ravenna. Propone, con la sua arte dialettica, soluzioni di compromesso che garantiscano lo sfruttamento del prezioso oro bianco del mare. Prospetta anche una nuova alleanza in grado di fondarsi non solo sull’estrazione del sale, ma anche sul commercio con l’Oriente. Si sa che l’Adriatico era il canale dei traffici privilegiato che collegava l’Asia, il Medio Oriente, con l’Europa germanica e latina. Una pace in quel mare voleva dire sicurezza delle navi che navigavano, commercio garantito a tutti i mercanti, non importa quali fossero i loro natali e in quale città avessero mercato. Insomma la pace voleva dire sicurezza. Voleva dire che i pellegrini che andavano in Terra Santa, almeno finché non lasciassero le sponde italiche erano sicuri di non essere aggrediti. Per loro il nemico doveva essere solo il mussulmano, fra l’altro anch’esso riappacificato grazie ai molti trattati fra regnanti cristiani e il Saladino, la massima autorità politica dell’impero islamico. Ravenna e Venezia stipularono l’accordo di reciproca amicizia e collaborazione nell’estrazione del sale e non solo il 20 ottobre 1321. Era passato poco più di un mese dalla morte di Dante Alighieri. Appare da suffragare la tesi, molto più che plausibile, che il lavoro diplomatico che il poeta svolse poco prima di morire fu determinante per approdare a un trattato che pose le basi per strutturazione politica ed economica del dell’Adriatico nei successivi decenni, ponendo così l’autorità di Venezia non quale despota e crudele dittatore, ma come città egemonica dialogante con le realtà più piccole, ma pur vivaci sotto tutti gli ambiti della società.
Dante Alighieri spirò facendo questo ultimo grande servizio all’Italia, che pur non c’era come entità statuale, ma era comunque sentita come soggetto morale ed etico composto da milioni di persone che vibravano ad un cuor solo. Questo sentimento forte di unità è palesato dalla stessa poetica dantesca. Dante è il poeta dell’Italia. Nella Vita Nuova canta una tensione al bello che rende comuni a tutti gli italiani un unico destino di soavità e bel canto. Il De vulgari eloquentia è la elaborazione filosofica e filologica del bisogno di rendere il volgare un comune linguaggio degli italiani. Bisogna che il volgare, cioè il latino che si utilizza in casa, diventi il linguaggio classificato e regolato di ogni consesso culturale e sociale. Il latino per dante Alighieri era la lingua dei trattati fra stati, era la lingua delle speculazioni intellettuali, ma la lingua della poesia, la lingua che era la vibrazione del cuore del popolo doveva essere l’Italiano. Da qui nacque la “Commedia”, che fu subito ribattezzata Divina, un viaggio, immaginario, nell’oltretomba cristiano. Un viaggio nei tre mondi ultraterreni: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Un impegno della fantasia dantesca che doveva raccontare la società terrena, le sue tensioni etiche, politiche e sociali, attraverso l’allegoria del mondo che è, o meglio dovrebbe essere, dopo la morte. Dante parla con i grandi del passato. I condannati sono lì a contorcersi dal dolore, i purganti sono in cammino verso la salvezza, e i beati vivono in un’eterna felicità in Dio. Ecco la straordinaria capacità di dante che lo rende immortale. Creare un linguaggio, formarlo dal fango e dalla terra, cioè dai dialetti, in primis di Firenze, ma anche da quelli di altri luoghi d’Italia, mescolarlo con il latino e utilizzando sapientemente le contaminazioni che vengono dalla Provenza, in quel tempo culla della letteratura francese che anch’essa, come quella italica, allora faceva i primi vagiti. Insomma dante Alighieri ha fatto l’Italia. Non come la fecero Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II nel 1861, cioè non fece un’unità politica, ma un’unità dei cuori e delle menti. Ma senza quell’unità che fece dante, quel rendere in pieno il comun sentire della nazione, non ci sarebbe stata nemmeno l’Italia politica.
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