LA COGNIZIONE DEL DOLORE
Il racconto di Giulia mi ha sconvolto. Le violenze ripetute che ha subito in quella discarica in periferia sono l’epifania di un dolore e di un rancore profondo che è presente nella società e nei singoli esseri umani. Che senso ha fare scempio del corpo dell’altro? Apparentemente non ne ha alcuno! Eppure sono milioni al giorno, non credo di esagerare, gli episodi di violenza gratuita simili a quelli che ha subito Giulia. Quello che l’è successo mi fa venire in mente un libro di Carlo Emilio Gadda. È intitolato “La cognizione del dolore”. È stato pubblicato nel 1963, ma l’autore, nato a Milano nel 1893, lo aveva scritto a cavallo fra il 1938 e il 1941, proprio quando scoppiava la Seconda Guerra Mondiale. Il libro è ambientato in un immaginario paese andino. Gadda utilizza lo stesso espediente letterario di una terra immaginata, ma legata alla realtà latino americana, che sarà l’aspetto connotante dello stile letterario di un altro grande romanziere, questa volta colombiano, Gabriel Garcia Marquez. Un territorio, una città, una regione che non esistono, ma che potrebbero essere riconosciute in una delle tante campagne e terre amerinde. Insomma Gadda in questo libro è per certi versi l’anticipatore del cosiddetto verismo magico, l’elemento costitutivo di tutta la letteratura del Sud America del XX e, ormai, anche del XXI secolo. Ma la cognizione del dolore non è solo il racconto di quello che succedeva dall’altra parte del mondo, in un porto lontano migliaia di chilometri dall’Italia. Era il racconto di come la violenza è un’irrazionale elemento connotante della natura umana. Come Gaetano Palumbo, il protagonista de “La cognizione del Dolore”, tortura senza una ragione la madre, così il nazismo uccideva crudelmente milioni di innocenti, solo perché ebrei, zingari, diversi. È il racconto della follia umana che è capace di produrre ai danni del prossimo un dolore immane. Conoscere il dolore, averne cognizione, ci dice Gadda, vuol dire, certo, immancabilmente, conoscere le sofferenze di chi lo subisce, ma anche sapere la folle intelligenza oppure la pazzia razionale di chi opera la violenza. Siamo veramente in un ambito orrorifico. La “Banalità del male”, come la definisce Hannah Arendt, cioè il male che diventa un elemento connotante della vita di tutti i giorni dell’assassino, del violentatore, del torturatore di turno, è un dato di fatto che si ripete costantemente nella storia. Soprattutto in queste decadi che viviamo, in cui la tecnologia, la scienza (che orrore che l’intelligenza sia strumento di morte), così facile uccidere, così asettico, quasi l’omicidio fosse niente più di una semplice attività imprenditoriale. Si uccide con la stessa scioltezza e decisione con cui un operaio alla catena di montaggio mette una vite in un ingranaggio. Siamo alla vera follia. Siamo a Srebrenica, ove durante la guerra Jugoslava avvenuta l’ultima decade del XX secolo, gli uomini si uccidevano con la “semplicità” con cui si può svolgere una qualsiasi mansione lavorativa.
Non sai quanto dolore conservo nel mio corpo. Giulia si confessa, mentre io cerco di medicare le sue numerose ferite corporali. Non sai come quegli uomini mi hanno fatto profondamente male, ancor più in queste ore, di quando mi violentarono nel mio appartamento. Mi hanno picchiato brutalmente. Sento tutte le mie ossa rotte. A questo punto io, che la sto medicando, ho un dubbio tremendo. Forse sarebbe meglio andare al pronto soccorso, ove hanno competenze e strumenti adeguati per soccorrere un’inferma. Lei continua a parlare. Non si ferma. Vuole condividere con me tutto il suo dolore, credo per provare a non farsi soverchiare dalla enormità dell’angoscia che sta vivendo. Hanno utilizzato spranghe di ferro per picchiarmi in ogni parte del mio corpo. Mi hanno fatto veramente male alle parti genitali. Hanno usato armi che io neanche conoscevo, oggetti di ogni tipo, tira pugni, addirittura un estintore buttato lì nella discarica, perché, credo, non più utilizzabile. Hanno riso. Hanno riso della mia sofferenza, del mio dolore. Mi hanno spogliato, come si tosa un agnello prima di essere macellato. Mi hanno messo il loro “arnese” a turno nel mio ano, mentre facevano scempio del mio pene, prendendolo a calci violentemente. Era così forte il dolore al mio cazzo, che non avevo la percezione della violenza che subivo al mio culo. È veramente folle quello che mi è successo. L’uomo, chiamiamolo così quell’animale, dietro di me mi inculava con violenza, mentre avanti c’era uno che mi prendeva a calci l’uccello, e l’altro che alternava i suoi pugni in faccia, che mi hanno rotto gran parte dell’arco dentale, con il suo pene che entrava nella mia bocca. Rideva. Diceva: mi ringrazierai. Sai a quanti clienti piace che gli sia fatto un bocchino da una sdentata. È giù pugni sul mio mento e poi il pisello in bocca e poi ancora pugni e poi il pisello. Una cosa allucinante.
Dopo che l’ho medicata. Dopo che le ho messo bende e cerotti ove è possibile. In realtà ogni parte del suo corpo dovrebbe essere bendata, dovrebbe diventare una mummia le cui garze servono a celare i rigori della morte incombente. Ma che dire. Si direbbe in contesti meno violenti, che sarebbe bene pregare per la malata. Ma.. Tutta questa storia è folle. Mi sovviene una commedia di Edoardo De Filippo. È “Napoli milionaria”. Finisce con i due protagonisti, marito e moglie, che attendono impazienti il passaggio della notte, in attesa e nella speranza che loro figlio guarisca da una terribile malattia, Il personaggio maschile, Gennaro Jovine, guarda la moglie, la debosciata fedifraga e dedita a turpi commerci, Amalia. Ella che l’aveva tradito, che si era arricchita facendo contrabbando con i soldati americani, siamo nella Napoli del 1945, e gli dà una speranza di salvezza per il loro comune figlio ammalato e allo stesso tempo di riscatto etico. Gennaro gli dice: adda passà a nuttata. Deve passare la nottata. L’indomani sapremo se il nostro comune figlio è sopravvissuto al male. Questo è il primo e diretto significato della frase. E penso che anche Giulia “Adda passa a nuttata”. Ma vuol dire anche altro. Vuol dire che ci sarà, ci deve essere, un tempo di riscatto morale. Ci sarà un giorno in cui non vi saranno più bassezze alle quali essere soggiogati. Non ci saranno più torturatori e violentatori. Non ci saranno più magnaccia e strozzini. La vita sarà migliore. Adda passà a nuttata. Ma per far passare questa notte che ci tormenta e ci mette in pericolo di vita, dobbiamo chiarire cosa sia successo nell’appartamento di Giulia, chi ha realmente ucciso il senatore Callispera. E se sono stati loro, i tre violentatori di Giulia, ad assassinarlo, come dice lei, bisogna che siano arrestati immantinente. Più passa il tempo, e più mi convinto che per noi la soluzione migliore sarebbe raccontare tutta la verità agli inquirenti, anche se Giulia, anche perché lei ha ammazzato Igor, teme di farlo. Ma Igor, mi devo anch’io convincere di questo, è stato ucciso da Giulia per legittima difesa. È così che è andata. Basta dubbi, basta perplessità. Bisogna essere fermi nel proferire i fatti e bisogna essere trasparenti.
Sento lo squillo del campanello, o meglio del citofono. Chi sarà? Ora che Giulia è stesa sul letto a riposare, credevo che avremo vissuto un momento di calma. Chiedo: Chi è? Sono Francesca! Ancora, penso, non mi aveva lasciato solo poche ore fa. Comunque mi potrà aiutare a prendermi cura di Giulia. Sale. L’accolgo con fare concitato. Le spiego quello che è successo. Cacchio, fa lei. Corre nella mia camera da letto, senza dire niente altro. Trova Giulia dormiente. Ha paura. Teme che non sia sonno, ma un incipiente coma. Non lo sa. Non è un medico. Lo pensa solo perché ha visto tanti telefilm che parlano di ospedali, mi dice quando intuisce che i miei occhi vogliono conoscere le ragioni delle sue apprensioni. Insomma Francesca ha lo stesso mio pensiero. Bisogna portare Giulia immediatamente in un centro specializzato in traumatologia. Giulia si desta. Ci guarda. Io sono sollevato: stava dormendo, non era in coma. Cosa volete da me? Dice con l’aria di chi vive in uno stato confusionale. Fra l’altro ciò è giustificato da tutto ciò che le sta avvenendo. Francesca la guarda. Diamine, dice, non posso lasciarvi un secondo che succede un quarantotto. Lei rivoluzionaria di natura, tanto è vero che fa l’impiegata statale sorrido, ama citare i grandi sommovimenti del XVII e XIX secolo. La sua citazione del 1848, i grandi moti popolari che sconvolsero tutta l’Europa post napoleonica, è voluta. Vaffanculo, gli risponde Giulia. Convinta, come può essere decisa chi si sente sottratta improvvisamente da un sonno ristoratore. Francesca sorride. Si sente soddisfatta di essere stata oggetto di un’offesa riservata a chi si considera un amico. Penso io: si sentirà lusingata del fatto che Giulia si fida di lei, oppure sorride perfidamente perché immagina di sfruttare a suo vantaggio questo senso di amicizia e, in ultima analisi, di sottomissione che Giulia nutre per lei, così da danneggiarla? Chi lo sa. Intanto si avvicina a Giulia. Gli guarda le bende. Cerca di riparare ai danni che avevo fatto io. Cerca di rimettere al meglio le garze, che già stavano scivolando dalla pelle della ferita. Sembra rammaricata, credo che lo sia veramente, del dolore che ha sofferto Giulia, il cui corpo è una prova parlante dell’orrore che ha subito.
Possa sapere chi è stato? Tu? Mi guarda con fare indagatore. Come fai a pensare soltanto una cosa del genere, gli rispondo stordito dall’atrocità che Francesca ha soltanto immaginato. Io non sarei in grado, non voglio esserlo, di far male ad alcuno. Giulia dice: sono stati gli stessi assassini del senatore. Ah. Esclama Francesca. E come hai fatto a fuggire? Continua. Come hai fatto a fuggire?, replica Giulia, rispondendo con la stessa risposta che le aveva fatto Francesca. In realtà non sono affatto fuggita ho subito ogni tipo di violenza. Francesca si pente di aver detto quella frase. Ormai, però, non può tornare indietro. Volevo dire, contrae i muscoli del viso, visto che ormai eri nelle loro mani, perché, perdonami la mia brutalità, non ti hanno ammazzata? È intervento Tantalo, il camorrista, li ha fermati. Quindi c’è in mezzo la mafia? Fa Francesca. Credo proprio di si, continua Giulia. O meglio la Camorra napoletana. Francesca alza le spalle. Prende disinfettante, pomate e garze che erano sul comodino. Si siede ai margini del letto ove Giulia giaceva. Gli toglie una a una le garze che io le avevo messo, la medica un’altra volta e la cura con sapienza materna. La medica, cura le sue ferite, ferma le emorragie che io non ero riuscito a fermare. È contristata. Si vede. Stanotte restiamo tutti e tre qui. Domani se tutto andrà per il meglio chiameremo il mio medico curante per una visita approfondita, se dovesse, però, succedere qualsiasi cosa in questo notte, chiamiamo un’autoambulanza. Adda passà a nuttata. Penso io.
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