venerdì 16 luglio 2021

UNA STORIA SBAGLIATA XVIII PUNTATA

 


UN GIOCO DI SPECCHI

Allora che vita stai conducendo? Mi chiede sorridente Martina, evidentemente cerca di continuare la conversazione su un fatto di sangue che fa gola a una giornalista come lei. Bah, le rispondo, niente di nuovo. Che risposta sciocca, sta scoppiando un tornado nella mia esistenza, lo so io, ma lo sanno anche i miei interlocutori, e io rispondo con questa banalità. Ti stiamo seguendo nelle tue gesta. Si fa la voce di Martina sferzante. Che gesta? Rispondo io. Sono solo uno spettatore che sta troppo vicino alle scene e di conseguenza viene coinvolto, senza che lo voglia, dagli attori in uno spettacolo che ha i contorni di una tragedia, certo, si parla di un omicidio, ma assume spesso toni da farsa di quart’ordine. Martina alza le sopraciglia. Dubita delle mie parole, ma vede una breccia nel mio silenzio, questo è ciò che le interessa, ha la speranza di avere delle notizie sulle quali fare un articolo. Antonello non sa cosa fare. La situazione gli sta sfuggendo dalle mani, la moglie sta mettendo sotto torchio un suo amico, che per di più potrebbe diventare un suo cliente, potrebbe essere patrocinato in un processo scabroso. Che fare? Ah il leninismo che fa breccia nella mente di un ex “ragazzo di sinistra”. “Che fare?” era il titolo di un celebre scritto del rivoluzionario russo che indicava i tempi e i modi per portare la rivoluzione nella Russia post zarista. Quello che ha prodotto nel mondo quella domanda è lampante a tutti, dopo oltre un secolo dalla stesura del testo e dagli eventi che ha causato. La rivoluzione voluta da Lenin a portato decine di milioni di morti non solo nella Russia, ma in tutto il mondo. Questo deve essere monito per tutti in tutte le cose della vita. Anche le persone comuni, le genti da niente, come me, possono produrre delle tragedie nel proprio ambito amicale e familiare pur spinti da propositi buoni. Addirittura Lenin voleva l’emancipazione delle classi subalterne e ha creato uno stato gulag. Allora devo stare attento. Scegliere di abbandonare alle proprie sorti Giulia, potrebbe essere la soluzione migliore per me, ma ne sono certo? Non è che abbandonare quell’uomo che si sente donna è un po’ abbandonare me stesso, i miei principi di mutuo soccorso, di solidarietà umana, di aiuto alle persone più bisognose. Certo mi sono domandato spesse volte i questi giorni se il mio legame con Giulia non fosse solo, tra virgolette doppie, una insana perversione sessuale. Se io, convintamente etero fino a poco prima, mi fossi perso in una pratica sessuale omosessuale scoprendo piacere a me fino ad allora ignoti. Non posso negare che questo aspetto, nel mio pormi in questa storia, c’è. Ma allora cosa rispondere alle domande impertinenti di Martina? Come qualificare i miei atti? Sono veramente “gesta” da rotocalco, come dice lei? “Che fare?”, come uscire da questa situazione che mi angoscia. Come poter affrontare gli scenari futuri che vogliono dire: domande curiose come quella di Martina, inchieste giudiziarie ed accessi in tetri tribunali. Magari la mia vita sarà migliore. Francamente non so come potrà avvenire questo miracolo, visti gli oscuri presagi. Ma non scartare a priori che da una situazione oscura, possa riapparire il sereno. Bisogna lottare. Bisogna credere nell’avvenire. Guardo i poveri, i disabili le persone deboli, anche loro avrebbero bisogno di una speranza. Avrebbero bisogno di sostegno aiuto, avrebbero bisogno di solidarietà. Invece in alcune regioni, le più povere del paese, sono lasciati a se stessi, se non addirittura derubati e torturati. Io provengo da una famiglia “bene” della Puglia di conseguenza i miei genitori mi picchiavano, letteralmente, se chiedevo soldi alle persone più deboli, ma in città  era costume, era abitudine, non lo facevano solo i malavitosi, ma chiunque, era un modo per dire “orgogliosi di essere baresi”. Bisogna cambiare questo stato di cose. Io non ho avuto il coraggio di farlo. Sono scappato dal mio paese. Ora mi ritrovo a essere in bilico fra essere complice di un crimine ed essere solidale con una persona perseguitata perché è unica ed eccezionale. Forse aiutare Giulia è un modo per riscattarsi dal mio peccato di ignavia che mi ha portato via dal luogo natale per non vedere le ignominie che avvenivano. Beh mi vuoi dire cosa diavolo ha fatto questo Ingome? Martina blocca il mio flusso di coscienza. I miei pensieri si fermano. Provo a concentrarmi sulla risposta più adeguata da dare. Non so più di quello che dicono i giornali, accenno io un primo approccio alla conversazione. Come? Fa lei. Ci vivi insieme e non sai nulla. Esatto. Intanto guardo di sottecchi il marito, il mio futuro avvocato Antonello Scarzone, che guarda gli occhi al cielo. In realtà, continuo, non si può dire che ci vivo insieme. Mi spiego. Da un paio di giorni è venuta/o in casa mia, mi ha imposto di ospitarlo/a, all’inizio pur di malincuore ho accettato, poi ho scoperto dell’omicidio. Attenzione penso devo obbligatoriamente parlare al singolare, al momento è meglio assolutamente ignorare nei miei racconti l’omicidio di Igor, ancora conosciuto a nessuno, se non alla camorra. Avrei potuto cacciarla, continuo a parlare, ma lei /lui non ne vuole sapere. Davanti alla polizia, per timore di urli e schiamazzi da parte di lei, ho preferito sorvolare e lasciare le cose come stanno. Bene, fa Martina. Francamente questo avverbio detto così non ho idea di che significato abbia. “Bene” cosa? Penso io. La conversazione prosegue. Parliamo anche di sport e di vecchie amicizie. Insomma il dialogo assume a sprazzi i toni di una normale conversazione fra amici, dopo una cena conviviale. Si parla del campionato di calcio, che dovrebbe ricominciare, ma non si sa quando. Si parla del Campionato Europeo che quest’anno dovrebbe disputarsi, ma non si sa come e dove. Insomma si prova a parlare della vita comune di tutti i giorni. Si parla del Covid. Il grande male che sta congelando in una notte di morbo e fiele il nostro paese. Martina mi chiede: vuoi restare a dormire, sarebbe meglio, eviteresti scocciature con la polizia e anche pericoli di incontrare malintenzionati. Io declino l’invito. Mi attenderebbe un ulteriore interrogatorio l’indomani a colazione, prima di tutto. Esco. Prendo la mia macchina, la mia vecchia escort. Torno a casa da Giulia. Ormai è chiaro, le nostre sorti si stanno divergendo. In macchina, in una Roma deserta, penso a cosa sono state queste ore insieme. Penso al difficile rapporto fra Giulia, Francesca e me. Penso a quella notte appena trascorsa in macchina, ci sentivamo braccati, avevamo appena nascosto un cadavere, eppure Giulia e Francesca avevano fatto l’amore insieme come due folli. Come possiamo dividerci se siamo uniti da modi di fare e di essere che, pur perversi, ci rendono un solo corpo, esattamente come gli amanti di Platone che ritrovano l’unità perduta attraverso l’atto sessuale. Non so se siamo buoni o cattivi, non so se siamo giusti o ingiusti, non so se siamo retti o pervertiti, quello che so è che siamo una cosa sola. Questo è un dato di fatto. La giustizia ci obbliga a dividerci. Sarebbe meglio che in tribunale ci presentassimo divisi, come tre monadi che non hanno possibilità di comunicare e interelazionarsi fra loro. Ma non possiamo.

Arrivo a casa. Non mi ha fermato nessuna pattuglia della polizia, fortuna. Non apro, busso alla porta. Sento che qualcuno guarda dallo spioncino, forse sorpreso da quel trillio improvviso. Ho un respiro di sollievo. È Giulia ad aprirmi, con quell’abitino corto e da casalinga tutto fare, che si è comprato questa mattina. Tutto bene? Chiedo. Si tutto bene! Risponde. Non è venuto nessun’altro a fare visita, il tono è volutamente ammiccante e doloroso. Vuole rievocare i fatti tristi di solo qualche ora fa, quando sono venuti Tantalo Castelli e i suoi scagnozzi. E il boss l’ha violentata. Ho un colpo. Dovevo dire questo ad Antonello? Certamente a Martina no! Domani racconterò in privato al mio avvocato anche questo triste episodio. Hai fame? Mi fa lei. No, ho mangiato da Antonello, rispondo. Io non ho mangiato. Continua Giulia. Fallo, rispondo io, ti posso guardare? Lei rimane stupita della domanda, non sa che rispondere. Poi continua. Non ho fame neanche io! Dai mangia qualcosa, continuo io. Un qualche cosa che ti aiuti a superare il nervosismo, la delusione per come si sono svolti gli avvenimenti. Bah! Fa lei. Però va in cucina, apre il forno e tira fuori la teglia di pasta che aveva preparato. Era un pranzetto delizioso preparato per me. Penso e credo di aver ragione. Lei mangia dalla teglia. Io apro una bottiglia di vino rosso. Prendo due bicchieri e una forchetta dal lavabo. Stappo la bottiglia, aspetto che si vaporizzi il cosiddetto sapore di tappo prima di versarlo, intanto chiedo: posso. Allungo, con fare volutamente enfatico, la forchetta alla teglia. Lei dice: certo. Prendo i piatti? No! Rispondo. Però se ti disturba la mia invasione verso tua teglia da parte mia, li potremmo prendere. No, risponde lei. Verso il vino in due calici. Brindiamo, mangiamo e beviamo. Per diverso tempo non parliamo. Assaporiamo la buona pasta cucinata al forno. Finito di mangiare io mi sento proprio satollo. Credo che da quando sono a Roma, non abbia mai mangiato tanto in una sola serata. I cenoni, i pranzi luculliani, le cene tramalcionesche le ho lasciate da quando sono andato via da Bari. Specialmente ai cenoni della Vigilia di Natale e della notte dell’ultimo dell’anno. Penso al “Satiricon” di Petronio, in questo libro si ricorda il liberto Trimalcione che, dopo gli anni della schiavitù e riconquistata la libertà con la ricchezza e la capacità nei commerci che erano sua causa di liberazione. Aveva guadagnato da schiavo così tanto, anche e soprattutto a scapito del padrone, da comprare la sua libertà. Insomma Trimalcione mangiava e faceva mangiare cose inaspettate e incredibili. Maiali ripieni di piccioni, leccornie speziate, pesci provenienti da mari della Campania e della Sicilia. Insomma era veramente il centro dei piaceri la sua tavola. Non solo culinari, ma anche sessuali, nella sua cena si esibivano puelle e pueri, cioè schiave e schiavi giovanissimi, pronti, per meglio dire preparati dalle regole di comportamento orribili dell’epoca, a soddisfare i bisogni, meglio i pruriti, di tutto i convitati. Altro che rapporto amoroso alla ricerca della propria parte mancante. Insomma il Satiricon, fra l’altro reso un film dall’indimenticato Federico Fellini nel lontano 1968 e allora ci voleva coraggio a mettere sulla pellicola temi così scabrosi, era un romanzo sulla vita della gente ricca durante l’impero di Nerone. Era un racconto della quotidianità, fatta di sensualità e cibo abbondante, che a noi pare scabrosa, ma in realtà all’epoca era normalità. Petronio era un membro della corte dell’imperatore Nerone. Cadde in disgrazia agli occhi di Cesare. Nerone era convinto che facesse parte di una congiura contro di lui. La stessa sorte era successo all’insegnante del giovane Nerone, il filosofo Seneca. Ambedue si dovettero suicidare. Un atto di “generosità” dell’imperatore del mondo, che concesse a due grandi della letteratura latina di non morire davanti al patibolo, ma di togliersi la vita da soli, nel loro mondo appartato e con dignità. Questa loro morte nulla toglie alla grandezza dei due autori. Pensando alla morte di Petronio. Pensando alle avventure sessuali raccontate nel Satiricon. Perdo la contezza degli avvenimenti, perdo il ricordo dell’incontro con Martina ed Antonello. Finiamo di mangiare io e Giulia. Non gli lascio il tempo di alzarsi. Sono dietro di lei. Gli alzo la veste. Non ha mutande. Beh, mi aspettava, penso. Ora sposto la sedia su cui era seduta. Lei poggia la sua parte superiore del corpo sul tavolo. I suoi seni sono nel piatto sulla teglia su cui abbiamo appena mangiato. Io la penetro con forza. Lei comincia a mugolare. Sente piacere. È come una gattina che fa le fusa. Io mi sento Trimalcione. Ma non voglio che Giulia sia uno degli schiavi al servizio del piacere del padrone. È mia perché gli voglio bene, è mio possesso perché la desidero, non perché lo comprata. Gli afferro le tette, mettendo mani e braccia fra lei e il tavolo che la sorregge. Gli accarezzo e pizzico i capezzoli. Spingo con tutte le forze. Vengo. Sono felice. Poi appena il liquido spermale esce da me per essere lei, penso considero Giulia una parte di me? Non posso negarlo! Come farò ad assumere una posizione giudiziale avversa alla sua, come mi consiglia Antonello? Mi rabbuio, anche se evito di farlo notare. La prendo in braccio, anche se è un po’ pesante per me. Ce la faccio! Andiamo a letto, cerco di addormentarmi mettendo via i miei oscuri pensieri. Mentre sono in posizione fetale, sento dietro di me qualcosa lunga. Prima è toccato a me utilizzare l’attrezzo, ora lei vuole usare il suo, è chiaro. Lei non ha le mutandine, non se l’è messe neanche dopo il rapporto, io ho lasciato i miei indumenti nel soggiorno. Siamo nudi. Lei mi penetra più volte. Io non dico nulla. Mi sposto solamente dalla posizione fetale a quella prona, lascio che faccia tutto lei. Infatti il suo uccello entra nel mio ano. Come al solito ciò mi provoca un misto fra dolore e piacere, ormai ci sto facendo l’abitudine visti i frequenti rapporti fra noi. Ho comunque veramente felicità da questo suo agire. Quando anche lei ha finito, quando il suo uccello torna in posizione di riposo, ci addormentiamo abbracciati. Il tempo sembra fermarsi, ma purtroppo così non è, lo scoprirò già l’indomani, ma adesso è tempo di credere che la felicità possa essere infinita.

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