“TI VERRO’ A CERCARE”
Giulia se ne era andata repentinamente come era entrata nel mio appartamento e nella mia vita. Repentinamente. Senza dire più di una parola. Alla mia domanda: ci rivediamo? Mi dai il tuo numero? Mi aveva risposto: ti verrò a cercare. Che ha un significato a mio avviso minaccioso nelle ambedue interpretazioni che davo a tale frase. Se “Ti verrò a cercare” era un voler dire: non mi cercare, la nostra è stata una fuggevole leason già finita. Il fatto mi rattristava. Mi spiace l’idea che non rivedrò Giulia, almeno per poter parlare, per capire il senso di quella manciata di minuti di sesso così per me inusuale e poi anche per poter risentire il suo odore e rivedere le sue forme pari a quelle di Tiresia.Ma se veramente “mi verrà a cercare” dovrò fare i conti con mille aspetti della mia essenza umana e delle regole di convivenza sociale. Dovrò scegliere se affrontare un rapporto interrazionale così complesso, una storia di affetti, oltre che di sesso, che va contro la morale cui ritengo di aderire, ma soprattutto viene ad urtare contro le regole sociali di convivenza che reggono la comunità di uomini e di donne di cui faccio parte, che non vedrebbe come giusto e corretto avere come compagno / compagna un trans gender, come suol dire un certo tipo di giornalismo. Comunque “Ti verrò a cercare” potrebbe voler dire che altre volte busserà al mio appartamento, senza null’altra implicazione relazionale. Un gioco di letto, fine a se stesso. Chi lo sa?
Intanto proviamo a far proseguire la giornata. Telefono a Francesca. La mia collega è a fare lo “smart working” esattamente come me. Da quando l’ente di cui faccio parte ha deciso, ottemperando ai decreti ministeriali, di riprendere le attività, non si va più in ufficio ma l’amministrazione ha fornito ad ognuno di noi un computer e una linea di accesso dati che ci permette di svolgere le nostre mansioni da casa. Lavoro intelligente? Questo dovrebbe voler dire “smart working”. A me il fatto di non avere un contratto diretto con colleghi ed utenti mi rattrista soltanto, non mi rende certo più acuto nelle mie riflessioni, forse più ottuso.
Francesca mi fa un reso conto di tutte le cose da fare. C’è da sistemare la posizione fiscale di tantissimi utenti che hanno fatto domanda per accedere alla cosiddetta “pace fiscale” voluta dal vecchio esecutivo e oggi già, forse, inutile visto che il nuovo esecutivo, fra l’altro presieduto dallo stesso presidente del consiglio, ha garantito che fin quando ci sarà la pandemia ogni adempimento di carattere fiscale, potrà essere rimandato dagli utenti. Bah. Non sembra! Fino ad esso tutti gli italiani sono stati a chiamati ad adempiere comunque i loro obblighi quali cittadini ed utenti. Io sto continuando a pagare le tasse, le utenze del gas, della luce e dell’acqua, utilizzando i mezzi online. Penso che tutti gli italiani siano costretti a fare lo stesso. Altro che “pace fiscale”.
Francesca: beh hai letto quel provvedimento comunicato online del ministero dell’economia? Si che l’ho letto, gli rispondo, ma non ho capito cosa dobbiamo fare. Beh, sempre Francesca, non è facile neanche per me capirlo, credo che c’è da riempire dei form per rendere a tutti più facile l’indagine catastale per particelle, superando definitivamente il sistema di accumulo dati in base alla identificazione del solo titolare / proprietario dei beni immobili. Una operazione che dovrebbe essere già stata fatta trenta anni orsono, e che invece ogni volta che succede qualcosa di grave nel paese è sistematicamente presentata come la riforma che porterà “efficienza e velocità” appunto l’ennesimo “smart working”. Qui io e Francesca ci mettiamo a ridere all’unisono.
Francesca: beh che fai mi porti quella relazione scritta su fogli che hai a casa tua? Io sono titubante. Dovrei uscire? Ma si risponde. Stai attento a portare la mascherina e ad evitare incontri. E qui mi si stringe il cuore, penso a Giulia. Se ti fermano i poliziotti, fai l’autocertificazione, digli che ti devi spostare per ineludibili questioni di lavoro. Io ho già telefonato a Elena, che ha già redatto e firmato il foglio di autorizzazione a muoversi per causa di lavoro. Elena Garrone è la nostra capo ufficio. Continua Francesca: Se vogliono la documentazione dell’autorizzazione del responsabile, basta che la scarichi dalla tua e-mail, se gli basta la sola tua dichiarazione autografa, meglio così.
Va bene! Mi lavo! Mi Vesto! Mi metto un qualche indumento un tantino elegante, vado a trovare una signora, anche se solo per motivi di lavoro. Una signora che fra l’altro considero anche qualcosa di più che un’amica. Vado a prendere la macchina, una vecchia Ford Escort, che fra l’altro aveva proprio bisogno di camminare. Controllo che mi sia arrivata la mail con il permesso della “direttora”. È giunta. Si parte.
La città dovrebbe essere deserta. Certo le macchine che percorrono le vie sono poche, ma ci sono. Non è il “deserto dei tartari” di Dino Buzzati, ma poco ci manca. Aspettiamo anche noi un nemico che è presente ma che non si fa vedere, esattamente come Giovanni Drogo, nel romanzo. Arrivo a casa di Francesca. Nessun controllo, nessun incontro indesiderato, anzi non ho incontrato proprio nessuno. Insomma non dovrei aver incrociato malati. Busso. Francesca mi apre subito. Si sentono i rumori delle case, tavoli che si imbandiscano, il tintinnio delle posate, Suoni provenienti dalle TV accese. Insomma se fuori, per strada, si vive l’eccezionalità della desolazione, nelle case si cerca di vivere la quotidiana serenità dell’ambiente domestico.
Salgo in ascensore, l’appartamento di Francesca è all’ottavo piano, di un palazzo di quindici. Un grattacielo si sarebbe detto ai tempi della mia nascita, oggi è un palazzo normale, segno che sono proprio vecchio. Francesca è sull’uscio, mascherina sul volto, io invece l’avevo lasciata nella tasca, sono un discolo e incosciente. Apro repentinamente l’involucro di plastica e me metto la mia, imitandola.
Poi rido. La guardo, ambedue mascherati, e gli dico: ma quando abbiamo giocato di lingua l’ultima volta c’era già il virus. Lei mi guarda, si incupisce e dice: Vaffanculo. Poi mi fa entrare in casa sua, quasi fosse costretta da un dio superiore. Queste sono le carte, dice stizzita, ora puoi andare a casa tua a lavorare. Io rispondo: non mi offri nulla. Lei si rilassa, sorride o meglio sogghigna: un bicchier d’acqua non si nega a nessuno, nemmeno a te. Ma non va in cucina a prendere l’acqua, va nel piano bar del suo salotto a mostrarmi le bottiglie di liquore e le bevande che possiede. Cosa vuoi? Dice. Io non sono astemio. Ma non sono un gran bevitore. Va bene qualsiasi bibita, purché si assapori e si centellini in buona compagnia. Lei ovviamente lo sa, mi conosce. Non aspetta una risposta che non verrà. Prende due bicchierini, li riempie di una miscela di vodka e liquore locale, che sa gradita, e offre a me un bicchiere e l’altro lo lascia nelle sue fini mani. Un brindisi veloce, e ambedue beviamo. Le mascherine le togliamo, rimarranno lì appese sui braccioli di una sedia per tutto il tempo in cui saremo insieme.
Ora ci sediamo sul divano. Non ci va molto di parlare di lavoro. Siamo uno vicino all’altro. Parliamo del virus, dei dati poco confortanti che fornisce ai giornali e alle TV il commissario straordinario per l’emergenza Covid.La malattia ancora domina. Il famoso RT, l’indice di contagio, è ancora superiore a uno. Cioè un malato infetta più persone, aumentando così la diffusione del contagio.
Poi faccio un esperimento. Cavolo non userei mai questo termine dialogando con Francesca. Poggio le mie mani sul suo pube. Sapevo già che non ci sono sorprese. La sua reazione è, ovviamente, di repentina irritazione. “Come osi?”, sembra dire con gli occhi. Ma interpreta la mia soddisfazione per aver appurato che a differenza di Giulia, lei non ha il pisello, come un effluvio di passione. Quasi in maniera innocente allarga le gambe. Ha una splendida gonna. Ha una camicetta color rosa. Io faccio scorrere le mie mani sulle sue gambe e poi mi accingo da sotto alla gonna a ritoccarle il pube, ormai senza il paravento che è la gonna di lei. Mi tocca la pacca dei pantaloni. Mi accarezza anche lei l’uccello. Ora la gonna in seta scozzese non è più. È scesa sul pavimento. Seguono le sue mutande, anche io mi spoglio rapidamente. La bacio, la bacio con passione ed avidità. Poi i nostri apparati genitali si accostano l’uno all’altro. Si comincia una torsione di corpi che lascia in estasi sicuramente me, ma sembra che renda felice anche lei. Ci troviamo nudi senza neanche accorge cene. I suoi seni, piccoli e sodi, sono sul mio petto villoso. Ci inseguiamo in una vertiginosa passione.
Io comincio ha spingere. Spingo il mio pene nella sua vagina. Il tempo dirà che effetti avranno sulla nostra attività lavorativa questi fuggevoli simposi d’amore. Ora penso ad accarezzarle i seni. A cercare la dolcezza in un atto cosi impetuoso come è un rapporto sessuale. La sento ansimare. Conosco i suoi gemiti. Non è la prima volta che facciamo l’amore. Sapevamo tutte e due che incontrarci per lavoro, voleva dire far sesso. Non l’ho confessato nemmeno a me stesso quando giungevo da lei in macchina, ma ora che le nostre bocche si toccano, i nostri corpi diventano tutt’uno è un fatto oggettivo.
Ancora! Dai! Dai! Siamo arrivati insieme colmi di piacere. Appena esco dal suo corpo, lei mi accarezza dolcemente il pene. Quasi a ringraziarlo (?), non so. Spero che questa carezza sia prodomo a un rinizio. Io gli accarezzo il collo, il viso. Le guardo le spalle, buttando un occhio dietro la spalliera del divano. È bella. Ora siamo felici, nudi insieme, nel mare della solitudine. Pian piano le tocco il culo. Comincio a giocare, la mano grande che le tocca le natiche, diventa un dito che entra nell’ano. Lei lascia fare. Sa che questo è il modo per poter riprendere il più rapidamente possibile la tenzone d’amore, interrotta repentinamente dalla mia eiaculazione. Dall’espressione del volto si vede che le fa un po’ male, ma lei preferisce lasciarmi fare. Si limita a continuare ad accarezzarmi il pisello, nella speranza, provo ad azzardare, che diventi ritto e che di conseguenza si sostituisca alle dita. Ora si abbassa. Lo prende in bocca. Lo assaggia. Un brivido mi sovviene, come ha fatto Giulia, solo qualche ora fa. Poi e perdersi nella passione. La prendo, la sollevo, la porto nella sua camera da letto.
Già nudi ci perdiamo in una selvaggia colluttazione d’amore. Lei mi morde, mentre io la penetro. Mi afferra il collo con i denti. Io reagisco voltandola, vedo il suo culo, ci metto il mio cazzo. Ora sono minuti di perduto amore. Sono momenti in cui la personalità dell’altro è cosa nulla. La concentrazione è sull’atto sessuale. Francesca è una cosa. È un buco da riempire. Spingo, spingo gli afferro i prosperosi seni. Infilo le mani negli spazi che ci sono fra il suo corpo e il materasso. Gli tocco il pube. Gli tocco le braccia, belle come la rugiada del mattino. Sono vivo, perché sento che lei è viva e smaniosa sotto di me. Tutto è carne, niente è mente o razionalità. Tutto è materiale.
Un’altra volta arriviamo all’unisono. Gridiamo di gioia ambedue. Forse siamo all’orgasmo non insieme, ma contemporaneamente, come se fossimo due atleti che hanno raggiunto la vittoria, ma in due sport diversi. Come se fossi io un lanciatore di giavellotto, e lei una podista, che abbiamo conquistato ambedue una medaglia d’oro, ma separati uno dall’altra. Non dovrebbe essere così in un rapporto sessuale e di amore. Ma così stanno le cose fra noi. La seconda volta è stata lunga e soddisfacente. Mi spiace di non rendere compiutamente al lettore il piacere intenso e prolungato. Ma si sa la felicità, seppur momentanea, è difficile, anche se non impossibile, condividerla.
Ci alziamo, facciamo la doccia insieme nel suo bagno, continuiamo ad accarezzarci, io sarei capace anche di rifarlo ancora, ma lei vuole solo vivere insieme un momento di beata rilassatezza, anche se ci tiene a lavare lei il mio uccello, che per questo motivo si sta pur lentamente gonfiando. Poi alla fine si arrende. O meglio, soddisfatta di aver per la seconda volta resuscitato un morto, gli si concede quasi fosse un doveroso tributo all’impegno che è stato necessario per sollevarlo. Facciamo ancora sesso sotto la doccia. Questa volta in piedi. Lei apre le gambe, appoggia un piede sul seggiolino, anche se questo potrebbe farci cadere, io entro nel suo pube invitante. Ancora minuti, decine di minuti, di passione, questa volta non spingo dall’altro verso il basso, ma dal basso verso l’alto, con ritmi cadenzati. La bacio con passione. Non posso usare le mani per accarezzarla, mi devo sorreggere, come del resto lei, visto l’ambiente scivoloso ove facciamo sesso. Tutto scorre. Anche questa nuova esercitazione di passione giunge al termine. Ora ci rivestiamo. Pensiamo al lavoro, a passarci informazioni d’ufficio, facendo finta che solo questo sia stata la ragione del nostro incontro.
Non le ho chiesto se potevo rimanere a dormire. Francamente non ne avevo voglia, sono andato a casa, quella mia, mi sono buttato sul letto. Mi sono addormentato pensando agli incontri succedutisi nella giornata. Chi sa che vita mi spetta?
Nessun commento:
Posta un commento