venerdì 8 gennaio 2021

DANTE

 


DANTE

Quest’anno ricorre il settecentesimo anniversario della morte di Dante Alighieri. Il poeta è morto la notte fra il 13 e il 14 settembre del 1321. È spirato a Ravenna ospite di Guido Novello da Polenta. Dante contrasse la malaria, allora terribile morbo sterminatore, durante il viaggio in cui aveva portato un’ambasciata di Guido Novello al senato di Venezia. Era una proposta di pace. Una proposta di compromesso che doveva salvaguardare gli interessi marittimi del ravennate con quelli della potenza navale veneta. Molti critici hanno ampiamente discusso sul perché fu affidato proprio al poeta un tale compito. È certo che l’autorità morale e culturale di Dante era già indiscussa quando era in vita. L’esule fiorentino era rispettato e venerato dai dottori dell’università di Padova. Appare chiaro che il piano ordito da Guido era quello di utilizzare l’arte dialettica di Dante per porre le basi di una serena convivenza fra due interessi comunali contrapposti. Bisogna dire che la intermediazione dell’Alighieri riuscì, ma quel suo successo diplomatico gli costò l’abbandono delle sue spoglie mortali, in età certo allora considerata avanzata, aveva 51 anni. Ma da lui stesso considerata non adatta a raggiungere i cieli. Infatti llo scrittore si era dichiarato nel 1300, a 35 anni, nel mezzo del cammin di nostra vita, ricordiamo l’incipit fenomenale della prima cantica della Divina Commedia. Quindi appare naturale che per lui l’ascesa al cielo fosse una prerogativa naturale degli ultra settantenni. Ma la malaria anticipò il suo incontro spirituale con Dio, incontro già avuto letterariamente con la scrittura della Divina Commedia. Ricordiamo i versi dell’ultimo canto del paradiso, in cui Dante racconta il difficile scrivere della magnificenza divina a lui rilevata: oh quanto è corto il dire e come fioco //al mio concetto! E questo, a quel ch’i vidi, // è tanto, che non basta a dicer «poco».// O luce etterna, che sola in te sidi, // sola t’intendi, e da te intelletta// e intendente te ami e arridi.

Dante Alighieri, pur consapevole della pochezza umana che non può descrivere Dio, prova, e per noi umili lettori riesce sublimante, a descrivere il mistero della divina Trinità che vive d’amore l’uno per l’altro delle tre persone di cui è composta. L’amore infinito, che scaturisce dalla perfetta armonia divina, si espande e si diffonde nell’universo, fino a raggiungere i mortali. L’armonia ricercata dagli esseri umani è insomma l’incessante bisogno dell’anima di imitare l’inimitabile. Amare, per l’umanità peregrina sulla terra, vuol dire essere partecipe dell’immortalità del divino. Ecco perché l’amore per Dante è il motore fondamentale della storia. L’elemento che può portare alla perdizione, se chi se ne fa interprete ripudia i messaggi benefici della divina provvidenza, ricordiamo la disperazione di Paolo e Francesca. Ma è l’elemento indefettibile del rapporto divino. Non ci può essere redenzione, non ci può essere salvezza, non si può contemplare il divino senza l’amore. Ricordiamo a tal proposito che San Bernardo nella sua preghiera a Maria che è l’inizio del XXIII canto del paradiso dice: nel ventre tuo si riaccese l’amore // per lo cui caldo nell’etterna pace// così è germinato questo fiore. Insomma l’amore è il benefico unguento dei dolori umani, e la via della redenzione e del paradiso, se, come ha fatto Maria, lo si vive come il tangibile tocco nel modo della visione provvidenziale divina. Si può amare il propri innati desideri di potenza, come fecero Adamo ed Eva mangiando dell’albero del bene e del male, oppure si può amare il benefico intervento di Dio nel Mondo, come fece Maria. Dante è chiaro. Si può scegliere. Ma l’unico modo per giungere alla felicità è agire secondo giustizia, cioè fare ciò che il Signore ha scelto che fosse il nostro compito. Ecco perché Maria è “Vergine madre, figlia del tuo figlio,//Umile e alta più che creatura, //termine fisso d’etterno consiglio, // tu se’ colei che l’umana natura// nobilitasti sì, che ‘l suo fattore// non disdegnò di farsi fattura”. Ho citato un altro passo della preghiera di San Bernardo alla Vergine scritta da Dante Alighieri nel Trentesimo terzo Canto del Paradiso. La preghiera forse più bella che essere nato da carne abbia mai scritto.

Allora che dire. Ricordando la morte di Dante Alighieri, avvenuta settecento anni fa, non possiamo che ricordare il suo racconto di fede della divina salvezza. Il poeta ha indicato a noi, suoi lettori, una strada di redenzione. L’esiliato, il peregrino di Firenze, lui che fu cacciato dalla sua città perché fedele alle sue convinzioni politiche e alle sue certezze morali, indica a noi che viviamo il XXI secolo un percorso interiore che ci conduce alla perfetta integrità intellettuale e alla giustizia che si esplicita nell’amore fraterno. Noi possiamo anche dubitare dell’esistenza del divino. Io sono cristiano, ma bisogna rispettare chi ha dubbi. Ma quello che deve rimanere patrimonio comune dell’intera umanità è la ricerca spasmodica di Dante Alighieri di quell’amor che move il sole e le altre stelle. Ricordiamo l’ultimo verso della Divina Commedia. Insomma l’insegnamento dantesco è che l’unica arma per costruire un sistema di convivenza sociale in cui tutti sono felici è lo spasmodico, indefesso, ricercare l’amore. L’amore non muove solo gli astri, muove la vita di tutti noi. Ecco perché celebriamo Dante, perché tutta la poetica dantesca è un continuo rimandare ad un’armonia di cui tutto il globo terraqueo ha bisogno.

La notte fra il 13 e 14 settembre 1321 la vita terrena di Dante è finita. Ma quello che non è finito è il suo lascito, che è  eterno. Dante ci ricorda che la vita per essere vissuta deve essere colma di passioni, passioni positive, passioni che sono l’esplicitazione della salvezza divina. Ecco perché a sette secoli dalla sua morte il suo messaggio, la sua poetica, è ancora un palpito che dà vita e senso all’intera esistenza.

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