ARTICOLO 2104 DEL CODICE CIVILE
“Il prestatore deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale.
Deve inoltre osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende.
La nostra Nazione, l’Italia, è fondata sul lavoro, come dice l’articolo 1 primo comma della Costituzione. Questo è un contenuto e un fondamento qualificante del nostro ordinamento giuridico. La convivenza di tutti si basa sul principio che tutti e ognuno siamo chiamati, se non impossibilitati da gravi ragioni di salute o d’altro genere, a partecipare alla creazione della ricchezza monetaria della comunità italiana, come ben si evince anche dall’articolo 2104 del Codice Civile in cui si afferma: che il lavoratore, il termine usato è prestatore, deve usare diligenza al fine di garantire, oltre che il giusto difendere l’interesse dell’impresa, anche e, oso dire, soprattutto, quello della produzione nazionale.
È lampante che questo articolo del Codice Civile è corollario dell’articolo 1 e dell’articolo 4 della costituzione Italiana. Scritto prima della nascita del nostro stato repubblicano, come tutto il Codice Civile, ad eccezione delle parti novellate di cui questo articolo non fa parte, riesce ad incardinarsi perfettamente nel palinsesto costituzionale della nostra moderna democrazia. Perché appare giustificato pensare che il fine teleologico della produzione nazionale, improntato ad arricchire il paese e non solo i singoli proprietari, fosse comune anche al regime fascista, anche se ovviamente per realizzare un progetto statuale diverso, (nel caso del fascismo: una dittatura); rispetto a quello democratico, plurale e partecipativo voluto dai padri costituenti all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale. Insomma il fine ultimo era diverso per i due legislatori, quello fascista e quello repubblicano, ma il cammino tracciato per arrivare allo scopo ultimo poteva essere simile ed, infatti, ha molte analogie.
Ecco il motivo per cui l’articolo 2104 è ancora operante, ma non può essere avulso, nella sua applicazione, dai principi scritti dallo “Statuto dei Lavoratori”, la legge 300 del 1970 che è caposaldo per la disciplina dei contratti di lavoro di ogni tipo, soprattutto di quello subordinato. Insomma l’articolo 2104 va letto, come ogni atto normativo e norma, secondo un principio evolutivo, logico e, soprattutto, sistematico. Mi spiego ogni norma, anche quella che verte su materie lavoristiche, non può che essere applicata se non un corretto approccio che sappia inserirlo nella visione d’assieme che lo stato, attraverso il pronunciamento del legislatore, ha nella singola materia giuridica, in questo caso si parla di diritto del lavoro. Allora appare chiaro che lo sforzo che deve essere compiuto dal lavoratore per adempiere i suoi doveri e le direttive apicali, non può essere avulso dai principi fondamentali che sono alla base della convivenza collettiva nazionale. Come si evince dalle preziose parole del professore di diritto del Lavoro, Gaetano Veneto, l’obbedienza alle disposizioni impartite dal datore di lavoro nell’esercizio del suo potere direttivo sono a distinguere maggiormente la collaborazione propria del lavoro subordinato. Insomma, aggiungo io per provare a spiegare il concetto, il lavoro subordinato è caratterizzato da una disciplina che impone un assoluta versione verticista, in questo caso il termine è da intendersi in maniera positiva e da escludere ogni valutazione negativa, dei rapporti di funzionamento della macchina produttiva. L’obbiettivo è produrre un bene, il datore di lavoro dà gli strumenti per ottenere lo scopo, ma, anche, le direttive necessarie per raggiungerlo. Ma non bisogna dimenticare che questo principio è da interpretare anche con una lettura comparata degli articoli dello statuto dei lavoratori che garantisce la libertà dai lavoratore dai limiti interni ed esterni come si evince fin dall’articolo 1 della materia legislativa in oggetto. Poi in materia lavoristica la legislazione è perdurata negli anni. Nel nuovo millennio che viviamo sono state scritte norme a tutela della privacy del singolo e della collettività del lavoro. Tutele che si intrinsecano con il cosiddetto diritto alla privatezza, cioè il diritto a non essere intaccato nei propri sentimenti e nelle proprie pulsioni più intime.
Insomma il principio di obbligo all’obbedienza è un sacrosanto fondamento per garantire il sano ed efficiente raggiungimento degli obbiettivi produttivi, è anche un modo per garantire il sano procedere delle attività lavorative, ecco perché vale anche per gli istituti lavorativi che non hanno fini lucrativi, ma di servizio, penso agli enti pubblici che non sono attività d’impresa. Il dovere di servizio e di abnegazione, il sottomettersi alle giuste logiche dirigenziali attraverso le direttive dei propri superiori diretti o indiretti che siano, è un dovere di tutti i dipendenti pubblici o privati che siano. Comunque come spiega Andrea Torrente nel suo “Manuale di diritto privato” il fine teleologico aziendale non può ledere i diritti dei lavoratori. Non si può mettere in discussione la tutela della dignità di ogni singola persona. È bene che si trovi la strada giusta che garantisca il beneficio del guadagno, l’accrescimento patrimoniale, con quello che è il diritto e, soprattutto, la dignità del lavoratore. Su questo tema la legge del 20 maggio 1970, n. 300, ormai denominata da tutti “statuto dei Lavoratori” è chiara. L’obbedienza, ribadiamo obbligatoria, non deve essere in antitesi con i principi fondamentali di libertà, che in ambito lavorativo si esplicitano nel diritto di esplicitare liberamente il proprio pensiero (articolo 1 dello statuto), il principio di sentirsi garantiti nella salute, attraverso visite di controllo, il diritto a professare la propria fede religiosa o le proprie idee politiche senza subire discriminazioni. Ciò fa pensare all’idea che tutti ed ognuno siano liberi, compatibilmente alle esigenze lavorative, di professare la propria fede. Pensiamo alle esigenze di culto cattolico, ma anche a quelle di altre religioni: mussulmana od ebrea etc. Insomma l’imprescindibile dovere della disciplina e della diligenza del lavoratore, non può che ordinarsi anche tenendo contro delle caratteristiche proprie della persona. Il Codice dei lavoratori pone al centro del suo stesso esistere la tutela ad esempio del lavoro femminile, troppo spesso strutturato in modo che alle donne non sia garantito il sacrosanto diritto a una eguale retribuzione ad eguale lavoro, e il diritto, ancor più importante, di garanzia della dignità della propria persone nella sua interezza, anche in virtù della diversità di genere. Insomma la differenza non deve essere mai motivo di declassamento lavorativo, ma risorsa primigenia per costruire un sistema di lavoro ed, in ultima analisi, di società in cui le differenze sessuali non siano una inibizione, ma una risorsa.
L’articolo 2104 del Codice Civile insomma apre molte questioni. Verte sul sistema di produzione delle singole imprese e nazionale. Si poggia sul principio che è bene dare strumenti anche legislativi per garantire l’efficienza e, soprattutto, l’efficacia d’impresa. Esplicita la necessità che il sistema di produzione economico si fondi su strutture gerarchiche, quanto rigide poi dipende dalla volontà di chi vive la realtà concreta della singola realtà produttiva. Si può pensare a un sistema di condivisione della gestione aziendale fra proprietà, dirigenza e forza lavoro, come sancisce l’articolo 46 della Costituzione Italiana che dice: la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione aziendale. Insomma l’articolo 2104 non appare, se si legge in maniera comparata con altre norme, come l’esplicitazione di un imperativo assoluto, cioè che non prevede e consigli, anzi, deroghe. La gerarchia può conciliarsi con una visione plurale e pluralista degli ordini decisionali. Si può vivere e decidere insieme delle scelte quotidiane, senza mettere in discussione i diritti di scelta del singolo imprenditore, che come si assume gli oneri ha, giustamente, i diritti scaturiti dalla sua valenza di dirigenza, ma che può mettere in comune i valori e gli obbiettivi collettivi con la sua squadra di lavoro. È nel dialogo che si può costruire una società e un’impresa efficiente, ma anche fondata sui valori di solidarietà e condivisione che, almeno negli auspici, non devono porsi in conflitto dialettico con la libertà di impresa, con il rispetto del esigenze del capitalista, non inteso come sfruttatore, come fa una vetusta terminologia, ma come colui che mette soldi e impegno al servizio di un progetto da realizzare e un guadagno da conseguire.
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