ATTENTARE
Tito Zaniboni nacque a Monzambano, un piccolo centro in provincia di Mantova. I suoi natali risalgono al 1 febbraio 1883. Fervente socialista, non aderì alla scelta non interventista del suo partito, e si arruolò nell’esercito del Regno d’Italia al momento in cui il nostro paese entrò in guerra nel 1915.
Le sue scelte furono simili ad altri aderenti alla sinistra dell’epoca, che scelsero di seguire i destini della patria partecipando a quella che fu la Grande Guerra. È d’obbligo segnalare che anche un altro socialista, Benito Mussolini, scelse di andare volontario a combattere sul fronte del Piave. Perché ricordare queste comuni scelte fatte Zaniboni e da colui che diventerà il duce degli italiani? Perché il 4 Novembre 1925, mentre Mussolini, già Presidente del Consiglio, già capo del Fascismo, già duce dell’Italia, si apprestava ad affacciarsi sul balcone di Palazzo Chigi prospiciente Piazza Colonna, per arringare le folle esultanti in ricordo della vittoria dell’Italia sull’esercito dell’Impero Austriaco,avvenuta il 4 Novembre del 1918, Zaniboni da un palazzo prospiciente la piazza si era pronto a sparare il colpo di carabina che avrebbe, secondo i suoi auspici, messo fine alla vita di colui che considerava despota e dittatore.
Benito Mussolini era allora il capo indiscusso del paese. Aveva posto sotto la sua “protezione” il re Vittorio Emanuele III e il Parlamento. Stava procedendo a far entrare in vigore le Leggi Fascistissime, cioè un pacchetto di provvedimenti che avrebbero portato l’Italia a trasformarsi da regime monarchico costituzionale a una vera e propria dittatura. L’anno prima (1924), in parlamento, Benito Mussolini si era preso la responsabilità morale dell’omicidio del parlamentare socialista Giacomo Matteotti. Questo atto era stato un gesto epocale. Mussolini aveva tratto il dado, al pari di Cesare sul Rubicone, se il parlamento avesse assunto un corale atto di disapprovazione sarebbe caduto il suo governo. Ma questo non avvenne. Le opposizioni si ritirarono dal parlamento in atto di sdegno, ma i parlamentari suoi sostenitori lo continuarono ad appoggiare, di fatto sancendo la sua vittoria. Dopo alcuni mesi Mussolini era il capo del paese. Zaniboni intendeva ucciderlo, per mettere fine al tiranno. Da una stanza di albergo prospiciente palazzo Chigi si accingeva a sparare, colui che era stato deputato socialista, colui che aveva arringato le folle e i suoi colleghi parlamentari a fermare l’incipiente avanzata del regime che considerava assassino, visti non solo gli omicidi politici ma anche la violenza, nelle tante città italiane, operata dai sostenitori del fascismo imperante, si accingeva a diventare sicario in nome della libertà.
Ma il piano non ebbe successo. Una “soffiata” da parte di Carlo Quaglia, che Zaniboni considerava un amico e confidente prezioso, alla polizia rende noto l’attentato ancora prima che si verifichi. Le forze dell’ordine irrompono nella stanza d’albergo ove Zaniboni preparava il fucile che avrebbe ucciso il duce. Lo arrestano, mentre Quinto Navarra cerimoniere di Palazzo Chigi si apprestava a preparare il Balcone su cui il Duce si sarebbe affacciato di li a poco per arringare le folle e festeggia la grande vittoria. Si era fatto consapevole bersaglio, sapeva che c’era qualcuno che voleva uccidere il duce. Si era esposto alla piazza consapevole che una pallottola poteva partire. Ma proprio mentre Navarra si affacciava, la polizia arrestava l’attentatore Tito Zanibioni.
Ora Zanibioni doveva essere fucilato o impiccato. Allora la pena per coloro che attentavano a persone titolari di uffici apicali dello stato era la morte. Ma Zanioli fu graziato dal Duce. Rimase in prigione a Roma, fin quando si offrì volontario nella guerra di conquista dell’Etiopia, siamo nel 1935, l’Italia si accingeva a diventare un impero. Zanibioni durante questi decenni di prigionia scrisse lettere di sentito ringraziamento a Benito Mussolini, si sentiva realmente avvolto dalla benevole magnanimità del Duce, che non solo gli aveva concesso la vita, ma anche era stato generoso nell’aiutare la sua famiglia, e in particolare sua figlia a cui aveva concesso anche una borsa di studio per andare all’università.
Zanibioni, pur riconoscente al Duce per la libertà e per aver aiutato la figlia, rimase antifascista. Combatte in Africa, ma da Italiano, non da aderente al regime. Questo suo sentirsi non fascista fu tollerato, a differenza di un simile sentimento nutrito da altri che il regime non rollerò mai. Forse perché per Mussolini Zanibioni aveva espiato già con il carcere. Forse perché il duce trovava il fallito attentatore simpatico. Le cronache dell’epoca e gli storici faticano a capire il motivo per cui il capo del fascismo fu così generoso con Zanibioni. Una cosa è certa Zanibioni dopo la caduta di Roma nel 1944 e la sua liberazione da parte degli alleati fu indiscusso protagonista della rinascita democratica. Fu uno degli amministratori della capitale durante il periodo di transizione fra la fine della II guerra mondiale e la nascita della Repubblica. Il generale Pietro Badoglio, che successe a Mussolini come presidente del Consiglio Italiano a seguito delle concitate e tragiche sorti della guerra, lo volle alto commissario all’epurazione nazionale del fascismo. Carica cruciale in quel momento storico. La sua carriera si concluse come presidente nazionale degli ufficiali in congedo, mentre il ruolo di gestione dell’epurazioni dei fascisti gli fu tolto, e Palmiro Togliatti, Guardasigilli del Governo De Gasperi (succedutosi a quello di Badoglio), promulgò l’amnistia generale.
Che dire? Zaniboni è stata una figura marginale della storia italiana, non vi è dubbio. Quello che rimarrà della sua vita, a parte i legami affettivi e di comunanza con i suoi parenti e sua figlia, è stato il suo gesto di ribellione alla dittatura nascente di Mussolini. L’attentato certo ha avuto effetti controproducenti. Benito Mussolini, da fine giornalista e polemista, seppe ribaltare l’evento, da momento di morte per lui a strumento per fortificare il suo potere. Utilizzò l’attentato per giustificare il pugno di ferro contro tutti gli avversari della sua persona e del suo regime, tacciandoli di essere anti italiani. La sua fortuna politica divenne ancor più solida. Mussolini, oggettivamente, apparve anche magnanimo con Zanibioni. Non lesinando prebende alla sua famiglia e tutele in carcere per lui, fino a decretarne la liberazione nel 1935. Fa impressione pensare a un antagonista del regime, quale era Zanibioni, che graziato dal duce parte in guerra in Etiopia nel 1935, la guerra di conquista che fa nascere l’Impero d’Italia e certifica l’egemonia, non solo nazionale ma anche mondiale, di Benito Mussolini, in quegli anni veramente capo, duce, della Nazione. Ma così stanno le cose. Mussolini, che avrebbe portato l’Italia nella tragedia di morte della Seconda Guerra Mondiale, nel 1935 era colui che agli occhi di tanti avrebbe guidato il paese a un futuro radioso. Zanibioni, che avrebbe dovuto nel 1944 amministrare Roma dilaniata dalla tragedia bellica, sapeva che questa promessa di radiosità si sarebbe dimostrata presto vana.
Tito Zaniboni si spense a Roma il 27 dicembre 1960. Visse quindici anni nella Repubblica democratica, vessillo per cui aveva lottato contro il fascismo e contro Mussolini per gran parte della sua vita. Difficile dire cosa sia stata la sua vita per i destini dell’Italia. Il suo gesto di attentatore è stato sicuramente velleitario, ma la sua vita rimane densa di dignità e di orgoglio, come quella di tanti suoi contemporanei.
Nessun commento:
Posta un commento