ARTICOLO 27 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA
“La responsabilità penale è personale
L’imputato non è considerato colpevole sino a condanna
definitiva
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al
senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Non è ammessa la pena di morte”
L’articolo 27 della costituzione definisce in maniera chiara
la condizione dell’imputato, di colui che è’accusato di aver commesso un reato
penale, davanti allo stato. Prima di tutto si afferma che la responsabilità
penale è personale. Nessuno può espiare la pena di un altro. In materia penale
solo chi commette il reato, solo chi trasgredisce la legge, è chiamato a
rispondere dei propri atti. Il reo è chiamato personalmente a rispondere dei
propri gesti. Solo i danni di natura civile e gli eventuali risarcimenti
possono essere risarciti da soggetti terzi, quali ad esempio gli eredi del reo
oppure il datore di lavoro, se il soggetto ha commesso reato agendo quale
conduttore degli atti giuridici dell’azienda per cui lavora. Dal punto di vista
penale chiunque risponde dei propri gesti personali, non è ammessa la
sostituzione, il rispondere per gesti compiuti da altri. Questo è un principio
fondamentale. La legge tutela i terzi che, legati da un rapporto giuridico o di
altra natura con il reo, comunque sono da considerare estranei al procedimento
penale. Nessuno può essere chiamato in causa per una generica responsabilità
morale. Nessuno può essere chiamato in causa perché ha legami parentali o di
amicizia con il reo. Nessuno può essere chiamato in causa in un processo penale
in nome di una generica comunanza di intenti con il reo, si è imputati in un
procedimento penale perché si è partecipato all’atto dando un contributo
nell’attuarlo, un contributo che potrebbe essere anche solo intellettuale, nel
senso che si è contribuito a orchestrare il disegno, il piano, del reato, ma
bisogna comunque essere partecipi all’orchestrazione dell’atto illegale per
essere imputati, non è sufficiente una generica solidarietà e affinità di
pensiero. Nei secoli passati, è bene ricordarlo, era d’uso condannare l’intera
famiglia se un membro di questo avesse commesso una mancanza contro lo stato.
L’esilio, ad esempio, si estendeva a tutta la gens, la famiglia romana, del
traditore dell’impero. Questa visione è stata abolita con la nascita del
diritto moderno. Le colpe dei padri non devono ricadere sui figli. Chi commette
un reato è giusto che paghi per la propria colpa, quello che non è giusto che a
pagare siano i discendenti. Sul piano del risarcimento per danni economici le
cose stanno diversamente. E’ giusto che vi sia una responsabilità giuridica
civile di colui che è responsabile e custode degli atti del reo. Ad esempio è
giusto che gli eredi di una persona rispondano dei danni da esso causati e
risarciscano i danneggiati. E’ giusto che un genitore risponda dei danni
causati dal figlio minorenne. La stessa cosa potrebbe avvenire per i tutori dei
minori, per gli insegnati durante le ore in cui il ragazzo gli è stato affidato
e per chiunque abbia in custodia il piccolo anche momentaneamente. In questi
casi ci può essere anche la possibilità che il parente sia imputato per
mancanza di adeguata vigilanza. Insomma il principio di responsabilità penale
personale vale in materia penale e non civile e amministrativa, lo Stato ad
esempio è chiamato a risarcire i danni causati dal comportamento illecito di un
proprio dipendente. Il secondo comma dell’articolo 27 è un esempio di grande
sensibilità verso i diritti dell’imputato. Nessuno deve essere reputato
colpevole fino al compimento di tutti i gradi si giudizio. La carta dell’Onu
dei diritti umani impone che vi siano almeno due gradi di giudizio prima che un
accusato sia dichiarato definitivamente colpevole. E’ un principio di grande
sensibilità giuridica. Vi devono essere almeno due organi giudicanti a
stabilire la colpevolezza di un uomo. Nel nostro ordinamento sono previsti ben
tre gradi di processo. Vi è un primo procedimento di natura penale. Si può
ricorrere e contestare la sentenza del primo giudice in appello. La sentenza
d’appello può essere contestata davanti alla Corte di cassazione, la massima
corte del nostro paese. Questi tre gradi di giudizio sono fonte di garanzia per
il corretto e giusto procedimento giudiziario. La Costituzione è chiara.
L’imputato non può essere considerato colpevole se non a condanna definitiva,
cioè fino a quando vi è possibilità di appellarsi la persona non è colpevole
anche se ha subito condanne a lui sfavorevoli. Solo quando si è concluso l’iter
giudiziario ci può essere un giudizio definitivo di colpevolezza. Chiunque è
sottoposto a giudizio è innocente fino a sentenza definitiva. Insomma si è
considerati colpevoli solo a seguito di una condanna definitiva e
inappellabile. L’ordinamento giuridico Italia rifiuta ogni tipo di trattamento
contrario al senso di umanità. La costituzione vieta la tortura come strumento
di pena e come mezzo per indurre il colpevole a confessare. Urge sottolineare
che in Italia da pochissimi mesi è stata introdotta una legge che individui
compiutamente il “reato di tortura” inteso come azione condotta da un’autorità
statuale, da un organo o da un ente dello stato al fine di indurre
coercitivamente il malcapitato a fare la volontà dello stato o di chi è
chiamato, indegnamente dobbiamo dire in questo caso, a rappresentarlo. La legge
che istituisce la tortura è stata approvata in questa legislatura, ma la lega e
forza Italia hanno promesso di abrogarla appena riavranno la maggioranza. Ci
sono ragioni culturali e ideali che spingono il partito di Berlusconi e quello
di Salvini a considerare cosa giusta la violenza di stato verso alcuni
soggetti, quali manifestanti o immigrati. Rimane il fatto che il comportamento
del centrosinistra che ha adottato una legge contro il reato di tortura è
conforme alla Costituzione e attua un dettame giuridico che è fondamento anche
del diritto internazionale. La legge che vieta ogni forma di tortura è il
compimento dei dettami costituzionali. E’ veramente sconcertante che due forze
politiche che hanno governato il paese si siano schierate contro una norma che
attua la costituzione. Cosa faranno quando vinceranno le elezioni? Aboliranno
la legge che punisce la tortura? E quale popolo siamo noi italiani i che
votiamo così numerosi partiti che propugnano la violenza di stato? E’ d’obbligo
ricordare l’ultimo comma dell’articolo 27, come è stato riformato dalla legge
costituzionale del 2 ottobre 2007. L’Italia, si legge, non ammette la pena di
morte. Non l’ammette mai. Nemmeno in caso di guerra, come invece era previsto
nella precedente stesura dell’ultimo comma. La riforma costituzionale in
questione si lega all’articolo 1 della legge 13 ottobre 1994, n.589, che ha
abolitola pena di morte prevista dal codice militare di guerra sostituendola
con la pena massima prevista dal codice penale (l’ergastolo). La pena è ripudiata definitivamente come
strumento di esercizio del diritto. Nemmeno in caso di pericolo incombente per
la nazione è giustificata. Ecco lo spirito di umanità che dovrebbe prevalere e
dovrebbe spingere anche ad appoggiare le norme che rinnegano e condannano ogni
tipo di tortura. Le pene coercitive le pene che non ammettono redenzione devono
essere abolite. Anche l’ergastolo dovrebbe essere usato parsimoniosamente come
punizione anche per i reati gravissimi come l’omicidio. Anche alle persone più
indegne dovrebbe essere data una possibilità di redenzione e di rinserimento
nella società civile. Speriamo che nella prossima legislatura riaffiori
quell’afflato di umanità che caratterizzò il legislatore del 2007, e non la
voglia di prevaricazione che si sente nell’aria.
Testo di Giovanni Falagario
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