venerdì 29 maggio 2020

PARLANDO DI COSTITUZIONE



ARTICOLO 27 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

“La responsabilità penale è personale

L’imputato non è considerato colpevole sino a condanna definitiva

Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Non è ammessa la pena di morte”

L’articolo 27 della costituzione definisce in maniera chiara la condizione dell’imputato, di colui che è’accusato di aver commesso un reato penale, davanti allo stato. Prima di tutto si afferma che la responsabilità penale è personale. Nessuno può espiare la pena di un altro. In materia penale solo chi commette il reato, solo chi trasgredisce la legge, è chiamato a rispondere dei propri atti. Il reo è chiamato personalmente a rispondere dei propri gesti. Solo i danni di natura civile e gli eventuali risarcimenti possono essere risarciti da soggetti terzi, quali ad esempio gli eredi del reo oppure il datore di lavoro, se il soggetto ha commesso reato agendo quale conduttore degli atti giuridici dell’azienda per cui lavora. Dal punto di vista penale chiunque risponde dei propri gesti personali, non è ammessa la sostituzione, il rispondere per gesti compiuti da altri. Questo è un principio fondamentale. La legge tutela i terzi che, legati da un rapporto giuridico o di altra natura con il reo, comunque sono da considerare estranei al procedimento penale. Nessuno può essere chiamato in causa per una generica responsabilità morale. Nessuno può essere chiamato in causa perché ha legami parentali o di amicizia con il reo. Nessuno può essere chiamato in causa in un processo penale in nome di una generica comunanza di intenti con il reo, si è imputati in un procedimento penale perché si è partecipato all’atto dando un contributo nell’attuarlo, un contributo che potrebbe essere anche solo intellettuale, nel senso che si è contribuito a orchestrare il disegno, il piano, del reato, ma bisogna comunque essere partecipi all’orchestrazione dell’atto illegale per essere imputati, non è sufficiente una generica solidarietà e affinità di pensiero. Nei secoli passati, è bene ricordarlo, era d’uso condannare l’intera famiglia se un membro di questo avesse commesso una mancanza contro lo stato. L’esilio, ad esempio, si estendeva a tutta la gens, la famiglia romana, del traditore dell’impero. Questa visione è stata abolita con la nascita del diritto moderno. Le colpe dei padri non devono ricadere sui figli. Chi commette un reato è giusto che paghi per la propria colpa, quello che non è giusto che a pagare siano i discendenti. Sul piano del risarcimento per danni economici le cose stanno diversamente. E’ giusto che vi sia una responsabilità giuridica civile di colui che è responsabile e custode degli atti del reo. Ad esempio è giusto che gli eredi di una persona rispondano dei danni da esso causati e risarciscano i danneggiati. E’ giusto che un genitore risponda dei danni causati dal figlio minorenne. La stessa cosa potrebbe avvenire per i tutori dei minori, per gli insegnati durante le ore in cui il ragazzo gli è stato affidato e per chiunque abbia in custodia il piccolo anche momentaneamente. In questi casi ci può essere anche la possibilità che il parente sia imputato per mancanza di adeguata vigilanza. Insomma il principio di responsabilità penale personale vale in materia penale e non civile e amministrativa, lo Stato ad esempio è chiamato a risarcire i danni causati dal comportamento illecito di un proprio dipendente. Il secondo comma dell’articolo 27 è un esempio di grande sensibilità verso i diritti dell’imputato. Nessuno deve essere reputato colpevole fino al compimento di tutti i gradi si giudizio. La carta dell’Onu dei diritti umani impone che vi siano almeno due gradi di giudizio prima che un accusato sia dichiarato definitivamente colpevole. E’ un principio di grande sensibilità giuridica. Vi devono essere almeno due organi giudicanti a stabilire la colpevolezza di un uomo. Nel nostro ordinamento sono previsti ben tre gradi di processo. Vi è un primo procedimento di natura penale. Si può ricorrere e contestare la sentenza del primo giudice in appello. La sentenza d’appello può essere contestata davanti alla Corte di cassazione, la massima corte del nostro paese. Questi tre gradi di giudizio sono fonte di garanzia per il corretto e giusto procedimento giudiziario. La Costituzione è chiara. L’imputato non può essere considerato colpevole se non a condanna definitiva, cioè fino a quando vi è possibilità di appellarsi la persona non è colpevole anche se ha subito condanne a lui sfavorevoli. Solo quando si è concluso l’iter giudiziario ci può essere un giudizio definitivo di colpevolezza. Chiunque è sottoposto a giudizio è innocente fino a sentenza definitiva. Insomma si è considerati colpevoli solo a seguito di una condanna definitiva e inappellabile. L’ordinamento giuridico Italia rifiuta ogni tipo di trattamento contrario al senso di umanità. La costituzione vieta la tortura come strumento di pena e come mezzo per indurre il colpevole a confessare. Urge sottolineare che in Italia da pochissimi mesi è stata introdotta una legge che individui compiutamente il “reato di tortura” inteso come azione condotta da un’autorità statuale, da un organo o da un ente dello stato al fine di indurre coercitivamente il malcapitato a fare la volontà dello stato o di chi è chiamato, indegnamente dobbiamo dire in questo caso, a rappresentarlo. La legge che istituisce la tortura è stata approvata in questa legislatura, ma la lega e forza Italia hanno promesso di abrogarla appena riavranno la maggioranza. Ci sono ragioni culturali e ideali che spingono il partito di Berlusconi e quello di Salvini a considerare cosa giusta la violenza di stato verso alcuni soggetti, quali manifestanti o immigrati. Rimane il fatto che il comportamento del centrosinistra che ha adottato una legge contro il reato di tortura è conforme alla Costituzione e attua un dettame giuridico che è fondamento anche del diritto internazionale. La legge che vieta ogni forma di tortura è il compimento dei dettami costituzionali. E’ veramente sconcertante che due forze politiche che hanno governato il paese si siano schierate contro una norma che attua la costituzione. Cosa faranno quando vinceranno le elezioni? Aboliranno la legge che punisce la tortura? E quale popolo siamo noi italiani i che votiamo così numerosi partiti che propugnano la violenza di stato? E’ d’obbligo ricordare l’ultimo comma dell’articolo 27, come è stato riformato dalla legge costituzionale del 2 ottobre 2007. L’Italia, si legge, non ammette la pena di morte. Non l’ammette mai. Nemmeno in caso di guerra, come invece era previsto nella precedente stesura dell’ultimo comma. La riforma costituzionale in questione si lega all’articolo 1 della legge 13 ottobre 1994, n.589, che ha abolitola pena di morte prevista dal codice militare di guerra sostituendola con la pena massima prevista dal codice penale (l’ergastolo).  La pena è ripudiata definitivamente come strumento di esercizio del diritto. Nemmeno in caso di pericolo incombente per la nazione è giustificata. Ecco lo spirito di umanità che dovrebbe prevalere e dovrebbe spingere anche ad appoggiare le norme che rinnegano e condannano ogni tipo di tortura. Le pene coercitive le pene che non ammettono redenzione devono essere abolite. Anche l’ergastolo dovrebbe essere usato parsimoniosamente come punizione anche per i reati gravissimi come l’omicidio. Anche alle persone più indegne dovrebbe essere data una possibilità di redenzione e di rinserimento nella società civile. Speriamo che nella prossima legislatura riaffiori quell’afflato di umanità che caratterizzò il legislatore del 2007, e non la voglia di prevaricazione che si sente nell’aria.
Testo di Giovanni Falagario


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