Cosa nasconde Castel Capuano? Quale segreto legato all'imperatore del sacro romano impero e re di Sicilia, Federico II, cela quell'antico palazzo che fino a pochi decenni fa era il palazzo di giustizia di Napoli? E' la domanda che assilla i ricercatori dell'università del Salento che stanno facendo un'indagine nel vecchio palazzo Napoletano costruito dai normanni nel secolo XII. La prima destinazione della fortezza era dimora regia. I re Normanni, fondatori del regno di Palermo che comprendeva tutta l'Italia meridionale e la Sicilia, lo vollero come residenza per i loro soggiorni a Napoli. Durante il regno di Federico II il palazzo accrebbe ulteriormente di importanza. Lo Stupor Mundi, come era denominato Federico, lo ingrandì e lo rese una sontuosa reggia. Negli anni Castel Capuano perse la sua importanza strategica. I nuovi dominatori, gli angioini, coloro che scalzarono gli eredi di Federico II e presero il potere a Napoli, preferirono Castel Nuovo, quello che oggi è chiamato Maschio Angioino, a Castel Capuano. Quella che fu una reggia imperiale divenne mera sede di uffici cittadini, fino a diventare sede del palazzo di giustizia durante la dominazione aragonese. Oggi Castel Capuano non è più il palazzaccio di Napoli, non ci sono più udienze e sentenze, il martelletto del giudice non risuona più da tempo per imporre il silenzio. Il tribunale di Napoli è stato trasferito altrove, in palazzi ben più moderni. La sovrintendenza ai beni culturali, in collaborazione con il ministero della giustizia e la regione campania, ne vuole fare un museo della legalità. Qui entra in gioco l'università del Salento, durante una ricerca che i ricercatori del centro studi pugliese fanno sugli stucchi e gli affreschi del palazzo si fa una scoperta strabiliante. Dietro gli intonaci Settecenteschi si nasconde il muro, ancora intonso, che fu eretti nel 1200. I ricercatori specializzati in arti figurative medievali fanno un balzo dalla sedia. Forse si può ancora rivenire l'affresco che raffigura Federico II, affiancato dal suo consigliere Pier delle Vigne, mentre esercita la giustizia al popolo di Napoli. Questo affresco, ormai ritenuto perduto, è attestato nelle cronache cittadine fin dal 1200. Confrontando i testi si può far risalire la sua composizione a un anno preciso: il 1241. Perfino Giotto, colui che ha fatto i magnifici affreschi di Assisi, ne dà testimonianza nei suoi scritti e afferma di essersi ispirato a quell'opera pittorica per dipingere "Comune rubato", una sua opera. Insomma un'opera che si credeva perduta, potrebbe essere lì sotto qualche centimetro di stucco. Interessante sarebbe studiarla. Potrebbe essere un modo per capire ulteriormente quale fosse la concezione del potere di Federico di Svevia. Sarebbe un modo per comprendere quale fosse il contraddittorio rapporto fra il sovrano e Pier delle Vigne. Quest'ultimo è stato uno dei più importanti esponenti della cosiddetta Scuola Siciliana, la prima corrente letteraria i cui adepti scrivevano in volgare, in italiano. Le sue poesie sono rimaste esempio di rara bellezza. Inoltre Delle Vigne è stato raffinato giurista. Il suo contributo è stato fondamentale nella stesura del "Liber Augustalis", il codice legislativo voluto da Federico II per imporre legge e diritto nei suoi possedimenti. La tradizione storica vuole che sia caduto in disgrazia agli occhi dell'imperatore a causa di una cospirazione di palazzo. I cortigiani, gelosi dell'ascendete che aveva sull'imperatore, fabbricarono prove false che lo accusarono di essere traditore. Federico credette a queste falsità. Pier delle Vigne per evitare una sorte infamante scelse di suicidarsi. Dante Alighieri lo ricorda e lo piange, quale persona degna, nel XIII canto dell'inferno, in cui si narra le sorti nell'oltretomba dei suicidi. Se i ricercatori dell'Università del Salento troveranno l'affresco in questione, prima di tutto restituiranno al mondo un'opera inestimabile, e forse contribuiranno a far luce sulla figura di Federico II e del suo sfortunato consigliere Pier delle Vigne, svelando quel codice segreto, fatto di passione e intrighi di corte vecchi di quasi mille anni, che si reputava perduto.
testo di Giovanni Falagario
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