lunedì 30 aprile 2018

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: ARTICOLO 115



ARTICOLO 115 (abrogato dall’articolo 9, comma 2, della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3)

“Le regioni sono costituite in enti autonomi con poteri proprie funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”.

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.

Questo è l’articolo che non c’è. È stato abrogato con legge costituzionale il 18 ottobre 2001. Tale atto di cancellazione non ha mutato l’ordine dei successivi articoli che hanno mantenuto l’antica denominazione numerica. Per intenderci l’articolo 116 non è diventato 115 e così via.
Ma cosa volevano dire i costituenti del 1947 definendo le regioni “enti autonomi” e perché i novellatori del secondo anni del XXI secolo hanno abrogato questo concetto costituzionale? Proviamo a dare una risposta.. Il concetto di “autonomia regionale” era stato inserito nella Costituzione per indicare la specialità di tale potere rispetto all’autonomia propria dei comuni e delle province. L’autonomia regionale era più ampia e di grado superiore rispetto a quella degli altri enti locali, ma non di diversa natura. La Regione aveva perfino il potere di emanare leggi nelle materie di sua competenza. La regione aveva autonomia finanziarie oltre che di bilancio. Ma questo surplus di attribuzioni non la esimeva da essere un ente locale subordinato al potere statuale, al potere che, con parola gergale, si dice che sta a Roma. Ricordiamoci che la dottrina definisce “ente autonomo” un ente pubblico che cura gli interessi di una determinata collettività, esercitando una più o meno ampia autonomia rispetto allo Stato e agli altri enti pubblici. Ma l’articolo 114 novellato mette le regioni sullo stesso piano dello Stato, ambedue sono elementi fondanti della Repubblica, elementi essenziali. Questo concetto era inconciliabile con quello di “regione quale ente autonomo”. L’ente pubblico è sempre subordinato al potere statuale, mentre la regione ha lo stesso ordine di grado delle istituzioni nazionali. Ecco il motivo per cui l’articolo 115 è stato abrogato. Ora bisogna chiederci: tale scelta è stata un beneficio o un danno. Questa autonomia, che ha implicato maggiore potestà finanziaria degli enti locali, ha prodotto maggiore spesa. Da un punto di vista politico ha portato benefici. L’autonomia finanziaria delle Regioni ha contribuito a finanziare i progetti politici di alcuni partiti. Ricordiamo che la Lega ha usufruito dei finanziamenti regionali per portare avanti il progetto di “Padania Libera”. Ovviamente si parla della Lega, perché utilizza i fondi pubblici per fini alti, per costruire un progetto politico. Ma sono tanti i partiti che fanno la stessa cosa per fini personali. L’esempio è la regione Lazio, presieduta dalla Polveri , è vero gli episodi di corruzione più grave venivano dalla destra, sempre giustificata dai suoi alti obbietti, ma hanno preso soldi anche uomini di sinistra, che non l’avevano detto agli elettori, come fanno i candidati di Lega e Forza Italia. Allora è il momento di chiarirsi. Il rendere la Regione non un ente autonomo sottoposto a quello statale, ma un ente pari ordinato, è meglio o peggio. L’autonomia regionale, maggiorata dalla riforma, ha prodotto benefici alla popolazione. Alcune regioni già efficienti hanno oggettivamente migliorato con l’autonomia. Le regioni del Nord, Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Lombardia e Veneto, pur funestate da scandali legati a tangenti e superstipendi alla politica, in realtà hanno migliorato i loro standard nell’ambito dei servizi al cittadino, già molto alti in precedenza. La riforma ha prodotto effetti contraddittori. Da un lato ha elevato gli standard qualitativi in alcuni settori e in altri li ha abbassati. Non ha prodotto quel senso di rigore della spesa, che l’autonomia finanziaria doveva indurre. Non ha prodotto l’aumento degli standard qualitativi di alcune regioni del sud Italia, funestati ancora oggi da spese pazze, la caratteristica comune a tutte le regioni italiane, e inefficienza diffusa soprattutto nella sanità, materia di competenza della Regione e ovviamente di massima importanza per il cittadino. Le Regioni sono nate con i decreti delegati degli anni ’70. L’ordinamento regionale esiste da quando lo stato ha dato attuazione al titolo V scrivendo leggi che istituissero l’ordinamento regionale. Da allora, sono passati quasi cinquanta anni, le regioni hanno avuto un compito fondamentale nella storia italiana. Hanno formato una classe politica locale che poi sarebbe stata protagonista della vita istituzionale dell’intera nazione. Ha prodotto la nascita di enti locali innovativi, come le Unità Sanitarie Locali, che hanno portato un cambiamento sostanziale del rapporto fra istituzioni e cittadino. Le Regioni si sono evolute. Hanno saputo cambiare a seconda delle situazioni storiche e istituzionali del paese. Ad esempio il ruolo del Presidente della Regione è mutato nel tempo, nei primi anni ’80, quando l’ente regionale era ai primi vagiti, aveva un compito di raccordo fra le varie anime della politica locale, era una sorta di moderatore, oggi invece, anche per la riforma del titolo V della nostra legge fondamentale avvenuta nel 2001, è un protagonista assoluto della vita politica regionale e si relaziona direttamente con i cittadini. Il presidente della regione è eletto direttamente dalle popolazioni regionali. È spesso un volto rassicurante, ha un ruolo di mediazione, pensiamo a Zaia nel Veneto, capace di gestire egregiamente le varie anime della sua Regione. Insomma la Regione in anni di evoluzione storica è trasformata. Da essere un modello di ente decentrato, subordinato alle istituzioni nazionali, è diventato protagonista della vita del paese. La regione porta avanti i suoi bisogni facendosi sentire anche a livello nazionale. Il confronto stato – regioni è sempre più importante nel dirimere le controversie che riguardano tutta la Repubblica. Nel rapporto Governo nazionale – Governo regionale si snodano e si chiariscono molte delle questioni più scottanti. L’ente regionale non è solo luogo di corruzione, è l’istituzione che si adopera per stare vicino al volontariato, alle imprese. La Regione ha un ruolo importantissimo nella formazione professionale. Allora sarebbe bene accettare la sfida. Provare a potenziare ulteriormente le regioni, la classe politica locale dovrebbe provare realmente a migliorare la vita dei propri corregionali, sfruttando i poteri ulteriori ottenuti dalla riforma del 2001. L’articolo 115 è stato abrogato, perché i cittadini di ogni regione avessero migliori servizi, fossero meglio tutelati, dall’ente prossimo, più vicino a loro e alle loro esigenze: la regione. Allora politici un po’ di coraggio, utilizziamo i poteri ottenuti per costruire un progetto di stato migliore, partendo proprio dall’ente regione, che non è più ente ma è parte costitutiva della Repubblica.

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: ARTICOLO 114




ARTICOLO 114
“La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città Metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato.
I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione.
Roma è la capitale della Repubblica. La Legge dello Stato disciplina il suo ordinamento”.
Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.
L’articolo 114 della Costituzione è il primo del Titolo V la parte della nostra legge fondamentale dedicata all’istituzione e alla regolamentazione delle istituzioni statuali locali: Regioni, province e comuni. Originariamente l’articolo in questione contemplava una ripartizione della Repubblica in Comuni, Province e Regioni, la riforma Costituzionale del 2001 ha introdotto una nuova realtà locale: la città metropolitana. Bisogna notare che l’articolo 114, riformato, ha mutato radicalmente i rapporti fra istituzioni nazionali e istituzioni locali. Mentre il vecchio articolo 114 le regioni erano in una posizione di subordinazione verso le istituzioni nazionali, l’articolo 114 al primo comma dice che la Repubblica è costituita da Comuni,dalle Province, dalle città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. Insomma afferma che le istituzioni locali sono pari ordinate a quelle nazionali. Le realtà locali sono istituzioni fondanti della Repubblica. È un avvicinamento al concetto di stato federale. Le realtà locali hanno una soggettività e un’autonomia assimilabile a quella delle istituzioni nazionali. L’ordinamento locale si fonda sull’articolo 5 della Costituzione che riconosce e promuove le autonomie locali. Non è un caso che anche il valore dell'autonomia sia stato inserito fra i principi fondamentali, elencati dai primi dodici articoli, che costituiscono l'asse portante, il fulcro ideale e valoriale del nostro stato. L'autonomia locale, la presenza di comunità attive, è il fondamento della nostra Costituzione che basa il suo essere sulla partecipazione del cittadino alla vita dello stato. Quale strumento migliore per coinvolgere il cittadino può esserci, se non la piccola comunità? Il Comune è strumento di coinvolgimento della popolazione. Partendo dai problemi concreti, la manutenzione dell'e strade la pulizia e il decoro urbano, si può sviluppare il senso civico che rende consapevoli di essere parte di una nazione. Si inizia a far politica occupandosi di buttare i rifiuti nell'apposito contenitore e si diventa protagonisti delle scelte collettive della Repubblica. Questo era il sogno dei padri costituenti che nel 1948 hanno voluto che la nostra patria fosse si unica e indissolubile, ma allo stesso tempo animata da quello spirito civico che ha fatto grande il nostro Rinascimento. Per la nostra Carta Fondamentale Comuni, Province, Città Metropolitane sono enti autonomi. Tutti hanno potere di autoregolamentarsi attraverso statuti. La Regione è posta a un gradino superiore. E' organo costituzionale, cioè è posto come architrave, al pari del governo nazionale e del parlamento, dell'intera struttura Repubblicana. Il nostro stato, quello nato dal referendum del 2 giugno 1946, non potrebbe essere senza regioni. Queste hanno potere non solo di autoregolamentarsi, ma anche hanno potestà legislativa. Nell'ambito delle loro competenze possono emanare leggi che hanno valore erga omnes, cioè sono vincolanti per tutte le persone, nell'ambito del territorio regionale. E' una novità assoluta nella storia della nazione italiana, durante la monarchia era esclusa la potestà normativa degli enti locali, anzi durante il regime fascista era perfino esclusa l'autonomia locale, cioè il diritto dei comuni di gestire attraverso rappresentanti della popolazione locale il quotidiano. Il sindaco, espressione della cittadinanza, fu sostituito dal podestà nominato dal governo nazionale. Fu una ferita alla libertà locale, a cui la Repubblica volle immediatamente porre rimedio. Non è un caso che le prime elezioni che si tennero in Italia appena finita la guerra furono quelle per eleggere i consigli comunali, così riportando la democrazia e la partecipazione nelle realtà locali. Insomma autonomia locale è sinonimo di partecipazione. Autonomia locale non è chiusura ed egoismo, ma partecipazione e contributo fattivo ai problemi nazionali. L'autonomia è libertà di determinare le politiche volte alla ricerca del bene comune. Autonomia è costruire un apparato istituzionale vicino alla gente, che lascia al cittadino potestà di decidere di regolamentarsi e di regolamentare la vita pubblica. Come ben si vede il concetto di autonomia su cui poggia la nostra carta costituzionale è ben diverso dal federalismo leghista. Non è un caso che Gianfranco Miglio, l'ideologo della lega, il padre ispiratore del leghismo, era avverso ai principi costituzionali. Per lui l'autonomia non esiste, il fondamento del federalismo padano è il sangue. Cioè la consapevolezza che il lombardo è geneticamente diverso dal pugliese. Su questo assunto si doveva costruire uno stato federale oppure la divisione del paese. Questo concetto di razza è vivo nel leghismo e nella destra in generale. Il Presidente della regione Lombardia, leghista, ha parlato di difesa della razza. Un attivista della lega a Macerata ha sparato su un gruppo di persone di colore in nome della difesa della razza. Ora appare chiaro che queste tesi portate avanti dal partito di Salvini sono incompatibili con i valori costituzionali. Nella visione autonomista dell'articolo 114 non c'è spazio per la visione suprematista, una razza è migliore di un'altra, propria della lega. Bisogna cominciare a discutere. E' certo che l'uguaglianza degli uomini e delle donne non può essere considerato un dogma intoccabile. Se i milioni di cittadini che votano Lega e Forza Italia credono nella superiorità della razza, come dimostrano votando i candidati di destra in Lombardia, Molise, Friuli ed in altre realtà locali. Se il senso della razza spinge a votare la coalizione Lega - Forza Italia facendola diventare prima forza del paese. Allora le regole di fratellanza di spirito di solidarietà di comunanza impresse nella costituzione sono messe in discussione. Bisogna provare a convincere questi cittadini che votano destra che il sangue, la razza, la chiusura verso gli altri porta solo morte, per questo i costituenti hanno visto le comunità locali non come strumento di chiusura all'altro, ma come partecipazione. Decentramento deve voler dire coinvolgimento civile e non chiusura all'altro. Le comunità locali, se istituite secondo i principi fissati dalla Costituzione possono diventare dei nuclei vitali per far progredire la vita civile.
L'ultimo comma dell'articolo 114 è importantissimo. Riconosce l'autonomia economica, regolamentare e istituzionale di Roma. La Capitale del nostro paese è la metropoli più grande della penisola. Conserva monumenti storici e vestigia della civiltà romana. E' centro vitale della vita politica dell'intera Repubblica. E' bene che abbia uno statuto e delle regole eccezionali rispetto alle altre città urbane nazionali. Il sindaco di Roma, in collaborazione con il presidente della regione Lazio, ha l'onere di gestire milioni di persone e offrire una vastità di servizi. Bisogna che abbia un consistente contributo finanziario da parte dello stato. Roma, capitale del paese, deve rinascere. E' necessario che la sinergia fra le istituzioni la renda una città efficiente e a misura d'uomo, oltre ad essere splendida.
Le città metropolitane, una novità della riforma del 2001, sono delle realtà locali caratterizzate da una forte urbanizzazione. Si è costatato che l'enorme espansione urbana che ha caratterizzato parti importanti del nostro territorio in questi decenni ha prodotto di fatto la nascita di comunità che travalicano i comuni tradizionali. Ci sono realtà territoriali con un'autonomia e una rete sociale e relazionale propria che sono composte da più comuni e che sono parte di un'unica struttura urbana. Esempi sono: le realtà locali intorno a Milano, Torino, Cagliari Palermo, Napoli e Bari. Le città metropolitane sono dotate di istituzioni proprie regolate dalla legge. Gli organi che sono parte della città metropolitana non sono eletti direttamente dal popolo, il consiglio e la giunta è composta da rappresentanti del consigli comunali dei comuni che fanno parte di questo consorzio. I sindaci delle singole realtà si coordinano ed eleggono un loro comune rappresentante che veste il ruolo di sindaco della città metropolitana, solitamente è il primo cittadino del comune più grande a ricoprire tale ruolo.
Ultimo punto: la provincia. Il Partito Democratico voleva abolirla. Il popolo italiano ha detto invece che è giusto che ci sia. Il referendum costituzionale ha visto il prevalere del "no" alla riforma costituzionale che intendeva cancellare la provincia del nostro ordinamento. Spero vivamente che Di Maio e Salvini, che si sono battuti per la non abolizione delle province, si impegno attivamente per ridare alle province stesse un consiglio e un presidente eletto dal popolo, la sinistra li aveva aboliti non facendo i conti con l'elettorato. E' una vergogna che l'ente provincia sia oggi una scatola vuota. E' bene che il m5s e lega si impegnino fattivamente per ridargli dignità e credibilità istituzionale.

domenica 29 aprile 2018

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: ARTICOLO 113


ARTICOLO 113

“Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria e amministrativa.

Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione per determinate categorie di atti.

La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge.”

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.

L’articolo 113 della Costituzione è l’ultimo del Titolo IV che si occupa della Magistratura e di come essa rende effettivo il nostro ordinamento giuridico applicando le leggi. Una legge esiste non solo perché scritta, non solo perché approvata dal Parlamento, ma soprattutto perché viene utilizzata ogni giorno dai cittadini per regolamentare la propria vita sociale. Se non vengono applicate le leggi, se qualcuno le trasgredisce, è compito del giudice punire il trasgressore e ripristinare l’equilibrio sociale venutosi a rompere dall’atto trasgressivo rispetto alle regole della comunità statale. L’articolo 113 afferma che questa regola vale anche per la Pubblica Amministrazione. Quando un atto dello Stato è contrario ai principi normativi è sempre ammessa la tutela giurisdizionale. Chiunque subisca nocumento può rivolgersi a un giudice per ripristinare il diritto soggettivo leso, oppure per rivendicare un interesse legittimo che l’ordinamento dello stato intende preservare, ma che l’azione concreta di funzionari pubblici ha scalfito. Ricordiamo la differenza fra  diritto soggettivo e interesse legittimo. L’uno è una situazione giuridica attiva del soggetto che può imporre a chiunque e in qualsiasi momento che sia rispettata. Pensiamo al diritto di proprietà. Il legittimo proprietario di un oggetto può reclamare verso chiunque il suo legittimo diritto a possedere la cosa di sua proprietà. Insomma il diritto soggettivo è il potere di esercitare immediatamente una potestà, un pieno potere di agire o resistere contro chi mette in discussione il diritto stesso. L’interesse legittimo è invece il potere di chiedere alla Pubblica Amministrazione di agire secondo correttezza e applicando le leggi. Se ciò non avviene e un cittadino o un gruppo di cittadini ne vengono danneggiati, questi hanno l’interesse legittimo a chiedere che si ripristini la legalità e venga annullato un atto contra legem. Tale gesto non produrrà un immediato giovamento per il richiedente, ma ripristinerà l’ordine  amministrativi scalfito dal comportamento maldestro. Un esempio: un concorso pubblico viziato dal fatto che non si siano seguite le procedure stabilite dalle leggi e dai regolamenti. Il concorrete che non ha vinto il concorso può ricorrere, ma se prevarrà la sua tesi non potrà chiedere di essere proclamato vincitore, ma in nome di un interesse generale produrrà l’annullamento del concorso e la ripetizione dello stato. A prevalere non è il suo interesse a vincere il concorso, ma quello sello Stato ad avere procedure concorsuali trasparenti e in grado di avere vincitori delle prove competenti e migliori rispetto a tutti gli altri. La costituzione afferma nel primo comma dell’articolo 113 che ogni cittadino può e deve ricorrere alla giustizia se la Pubblica Amministrazione compie atti contrari alle leggi. Può esporre denuncia al tribunale anche se riscontra ben più gravi reati penali da parte della Pubblica Amministrazione. Può anche rilevare trasgressioni da parte dello stato alle regole del diritto civile. Lo stato, gli enti locali e nazionali pubblici, possono agire anche nell’ambito del diritto civile. Possono effettuare negozi giuridici di natura privatistica, in questi casi sono soggetti alle regole del diritto privato, esattamente come tutti gli uomini e le donne che vivono in Italia. Gli enti pubblici in questi casi rispondono delle proprie azioni davanti a un giudice ordinario. Allora ricordiamo brevemente: gli atti amministrativi, gli atti che sono il frutto della potestà statuale che hanno le singole amministrazioni, sono giudicabili ed annullabili dal Tribunale Amministrativo, mentre sono disapplicate dal giudice ordinario. Il giudice ordinario dichiara semplicemente che un cittadino non è tenuto a sottostare alle imposizioni scaturite dall’atto della Pubblica Amministrazione. Il T.A.R: (Tribunale Amministrativo Regionale) annulla l’atto quale non ci fosse mai stato. In caso invece la Pubblica Amministrazione compia negozi giuridici semplicemente in forza del diritto privato, quale soggetto giuridico comune è sottoposta al giudice ordinario. L’articolo 113 secondo comma impone che lo stato non possa mai impedire che un cittadino agisca a tutela dei suoi diritti soggettivi e interessi legittimi. La legalità è un principio basilare di democrazia. Tale  principio impone che chiunque è sottomesso alle leggi. Chiunque deve essere chiamato in giudizio se le trasgredisce, anche se è un istituzione pubblica. Questo è un modo per garantire che l’autorità statuale non utilizzi il proprio potere per fini coercitivi nei confronti del cittadino. La sottomissione alle leggi e soprattutto alla Costituzione è obbligatoria per lo Stato. È garanzia per il cittadino che potrà rivendicare i propri diritti anche se questi vengono oltraggiati e negati da un potere pubblico. Chiunque, anche pubblico funzionario, è sottomesso alla legge e deve pagare se trasgredisce. Questo principio, bisogna dirlo, è fortemente contestato da chi vota Lega e Forza Italia. I due partiti da sempre, fin dal 1994, hanno collaborato al fine di tutelare coloro che trasgrediscono le leggi penali. È esemplare la legge chiamata “tutela delle massime cariche dello stato”, una legge voluta nei primi anni del XXI secolo per impedire che il Presidente del Consiglio, allora Silvio Berlusconi, rispondesse dei suoi reati di natura fiscale. Chi ha potere, è la tesi di Salvini e Berlusconi, non deve rispondere dei propri atti giuridici. Ora la coalizione Forza Italia / lega è nuovamente la maggiore forza politica del paese. Ha portato alla seconda carica del Senato un avvocato che per tutta la vita ha lottato a favore di coloro che compivano atti che il nostro ordinamento definisce “reati finanziari”, un impegno sia nel foro, come avvocato penalista, sia come legislatore, nel suo tentativo di ammorbidire le pene fiscali. Ora spetta a Salvini e a Berlusconi continuare la sua opera, spetta a loro depenalizzare e abolire i reati di peculato. Lo faranno? Dovrebbero abolire l’articolo 112 e 113 della Costituzione. Chi vi scrive è franco, non ha mai votato per la destra, ha sempre creduto nella legalità. Ma sarebbe ora che gli elettori di destra vengano ascoltati che si crei uno scudo per gli evasori fiscali. Spetta a chi non è di destra convincere gli elettori del beneficio che produce l’onestà. Finché prevarrà Lega e Forza Italia è inevitabile che l’azione politica sia finalizzata a difendere i furbetti della finanza.

venerdì 27 aprile 2018

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: ARTICOLO 112



ARTICOLO 112

“Il Pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”.

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.

L’articolo 112 della Costituzione Italiana rende il Pubblico Ministero, il magistrato che ha il compito di indagare e di aprire le prime procedure processuali, titolare di una grandissima responsabilità. Ha l’obbligo, in nome della Repubblica, di appurare se in una data situazione un soggetto o dei soggetti hanno violato le norme che regolano il diritto penale. Questo accertamento è obbligatorio. La Magistratura, i magistrati competenti, non possono esimersi dal farlo. Ad una notizia di reato, il pubblico ministero deve esercitare l’azione penale. Questa consiste nel mettere in moto tutto quel meccanismo di indagini e, allo stesso tempo, di garanzie che caratterizzano la prima fase di un processo. Il Pubblico Ministero deve avvalersi di tutti gli strumenti che lo stato gli offre per cercare le prove necessarie per imbastire il procedimento penale. La Polizia giudiziaria, alcuni funzionari delle principali forze dell’ordine dello stato, lo affiancano in questo lavoro. Il giudice coordina questi poliziotti e gestisce le loro competenze finalizzandole al felice esito delle indagini. Questo in forza dell’articolo 109 della nostra legge fondamentale. Il  fine è di rendere possibile al Pubblico Ministero di formulare un’imputazione, dopo aver svolto le opportune indagini. Con tale principio si dà a un organo imparziale di svolgere l’esclusiva iniziativa di reprimere i reati. Un organo pubblico, un magistrato, ha il compito di accertare se vi siano stati contravvenzioni alle norme penali dello stato. È lo strumento per certificare che lo Stato non può ammettere atti e comportamenti illegali e si impegna a ripristinare lo stato di diritto e a punire chi l’ha violato in caso di atti illeciti. Il giudice, il Pubblico Ministero,  è chiamato a formulare le imputazioni od archiviare il caso dopo aver svolto le opportune indagini. Il P.M. può valutare se vi siano le ragioni per portare l’imputato davanti a un tribunale giudicante, che emetterà la sentenza di condanna o assoluzione, oppure se le accuse contro di lui sono così inconsistenti da rendere necessaria l’archiviazione dell’inchiesta senza dover presentarsi davanti a un tribunale. Il rinvio a giudizio, cioè il termine delle indagini condotte dal Pubblico Ministero con il trasferimento degli atti al tribunale giudicante, è la fase di chiusura delle indagini preliminari. Il Pubblico Ministero con questa procedura costata che a suo giudizio vi sono motivi per ritenere l’imputato responsabile di azioni illecite, invia gli atti alla magistratura giudicante e rimanda a un giudice terzo il compito di emanare sentenza di condanna o assoluzione. Questo gesto non implica alcuna condanna dell’imputato, che rimane innocente fino a sentenza definitiva. Il Giudice delle indagini Preliminari ha l’importantissimo compito di produrre le prove che saranno materia di dibattimento processuale, non certo di esprimere un giudizio penale sull’imputato.

L’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale ha prodotto molte polemiche in questi anni. Forza Italia e Lega, i due partiti che per decenni e ancor oggi alleati sono la prima forza del paese, hanno sempre combattuto questo principio. I magistrati, secondo la tesi di questi partiti, devono chiudere un occhio davanti a certi reati, non indagare. È un problema annoso. Un braccio di ferro fra politica, che vorrebbe le mani libere, e diritto che vorrebbe che tutti i cittadini, anche i politici, rispettassero le leggi. Per decenni Lega e Forza Italia hanno provato ad attenuare il principio di obbligatorietà di azione penale, hanno pensato anche di modificare la costituzione in modo da affievolire il senso dell’articolo se non abrogarlo. In questi giorni Cesare Previti, notissimo esponente della destra, è stato condannato dal tribunale di Palermo. È una delle vittime dell’obbligatorietà dell’esercizio penale. Se non ci fosse stato questo principio le sue attività di collegamento fra Forza Italia, la destra e la mafia non sarebbero state condannate dai magistrati. All’indomani della sentenza di condanna gli elettori Molisani hanno reagito dando fiducia alla coalizione di Cesare Previti, eleggendo un suo rappresentante alla presidenza della regione, probabilmente domenica prossima faranno la stessa cosa gli elettori del Friuli Venezia Giulia. Insomma la destra, Forza Italia e Lega, si sono sempre battuti contro il principio di obbligatorietà dell’esercizio penale. Per loro chi commette reati di natura finanziaria, fiscale e di corruzione non deve essere perseguito, soprattutto se appartiene alla destra. Ricordiamo il caso del deputato Genovese, l’imprenditore siciliano era un deputato del Partito Democratico, è stato indagato per reati finanziari, “scaricato” dal suo partito, ha trovato un rifugio sicuro nella coalizione di Salvini e Berlusconi e ha presentato come candidati in Forza Italia Fratello e figlio. Si sa come andata. Il Partito Democratico è quasi inesistente in Sicilia, è ai minimi storici, invece lega e Forza Italia hanno ottenuto grande consenso. Ora alla luce di questi dati, costatando il successo elettorale della Lega e di Forza Italia, appare lampante che noi italiani chiediamo l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale. È un bene che ciò avvenga? È un bene che chi commette rati la faccia franca? Io direi di no. Secondo me il problema del nostro paese non sono i magistrati che perseguono i reati, sono i troppi cittadini, anche appartenenti alla classe dirigente, che li commettono. Combattere la criminalità comune, combattere i cosiddetti reati dei colletti bianchi (cioè il riciclaggio di denaro) e tutte le altre fattispecie penali è un obbiettivo che lo stato deve perseguire per garantire a tutti i cittadini la pacifica e onesta convivenza. È tempo non di impedire le indagini, ma di agire secondo onestà e senso dello stato. La soluzione non è fermare i processi, come vorrebbero fare chi vota Forza Italia e Lega, ma fermare la corruzione. Il malcostume criminale è diffuso. Non è solo la destra a commettere reati, anche il Partito Democratico  ha persone impresentabili e anche il Movimento Cinque Stelle ha avuto indagati. Per risolvere questo problema morale non si deve reprimere l’azione della magistratura, ma si deve cercare di rendere la politica e la Pubblica Amministrazione trasparente, con regole certe nella gestione di appalti e di commesse pubbliche. Bisogna combattere l’evasione fiscale e il lavoro nero veri strumenti di creazione di denaro sporco. Bisogna combattere la criminalità mafiosa, con le sue attività illecite e latrici di morte e di dolore. È tempo di reagire. La legalità è un bene per la comunità, non deve essere vista come un ostacolo, come una nemica da combattere. Alla luce di questo bisogna voltare le spalle alle forze politiche che con la loro azione politica agevolano i corrotti, Forza Italia e Lega. Allo stesso tempo è necessaria un’azione di controllo sulle altre forze politiche affinché le loro parole a difesa della legalità si trasformino in atti concreti.

NAPOLITANO CONVALESCENTE


NAPOLITANO STA MEGLIO
Gli insulti sessisti a Laura Boldrini. Gli insulti all'ex ministro Kyenge. Il continuo utilizzo di imprecazione sui social. Questo è la buona politica. Il primo fu Silvio Berlusconi. Disse chi non mi vota è un coglione. Da allora la dialettica politica è sinonimo di insulto. Umberto Bossi utilizzava le parolacce per portare avanti la sua proposta di Padania Libera. Non meraviglia che il suo erede, quello che ha preso il posto alla segreteria della lega, abbia mostrato in pubblico una bambola gonfiabile, quella che serve a fare autoerotismo maschile, e abbia detto "questa è Laura Boldrini". I riferimenti espliciti a pratiche sessuali è la caratteristica della destra italiana, i precedenti sono antichi, anche Benito Mussolini disse "spacceremo le reni alla Grecia", con chiaro riferimento alla donna sfibrata da un veemente amplesso maschile. Non è un caso che Berlusconi abbia definito il duce il più grande statista del XX secolo, malgrado quel suo voler spaccare le reni alla Grecia, fare la guerra, abbia causato milioni di morti e sofferenza per il nostro paese. Quello che affascinava il cavaliere è la capacità del duce di usare metafore sessuali anche in contesti così perbenisti come l'Italia degli anni'30 e '40. Una capacità che lo ha reso così simile a lui, il cavaliere delle olgettine. Poi non parliamo del m5s che utilizza le parolacce come sua ragione d'essere. Il "vaffa" di Beppe Grillo è l'elemento costitutivo del Movimento. Detto tutto questo. Detto che l'insulto è ormai la caratteristica preponderante della politica italiana. Non sorprende affatto che Giorgio Napolitano, vittima di un'occlusione alla vena orta, sia oggetto di insulti da parte del popolo di destra. Gli auguri di morte, provenienti dagli attivisti della Lega e di Forza Italia sono normale amministrazione, in questa fase storica. Sono l'esplicitazione dell'ideologia forza leghista. Noi non sappiamo giudicare l'operato politico di Napolitano, nella sua lunga vita ha certamente commesso sbagli, ma ci fa sentire imbarazzati l'impegno politico di coloro che si sentono attivisti, perché augurano la morte e subissano di insulti una persona che ha più di novanta anni. Sappiamo che l'insulto è l'ideologia della lega e di forza italia, ci permettiamo di dire che sarebbe meglio votare partiti che poggiano la loro ideologia su altre basi.

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: ARTICOLO 111



ARTICOLO 111

“La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.

Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.

Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico, disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti a un giudice, di interrogare e di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore, sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo.

Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del su difensore.

La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contradditorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita.

Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati.

Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giudiziali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge. Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra.
Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti il ricorso in cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”.

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.

L’articolo 111 è il primo della seconda sezione del titolo IV della Costituzione Italiana. Questa parte della nostra legge fondamentale è dedicata alla giurisdizione. L’etimologia della parola giurisdizione deriva dal termine latino iuris dictio o ius dicere. Ambedue i termini della lingua dei Romani antichi vogliono dire “ciò che la legge dice”. In via traslata il termine definisce l’attività, solitamente dei megastrati ordinari, tesa all’applicazione della norma giuridica al caso concreto. Insomma spetta ai giudici capire “cosa la legge dice” e applicarla. A conti fatti tale attività si traduce in un procedimento distinto in più fasi che ha come obbiettivo l’emanazione di una sentenza, cioè l’attività principale della magistratura giudicante. Bisogna notare che l’articolo 111 è stato ampliato dalla riforma costituzionale del 23 novembre 1999. Questa ha iscritto nella nostra costituzione i primi cinque commi dell’articolo 111, che era molto più breve quando fu votato dalla Assemblea Costituente nel 1947. Il comma uno, come abbiamo detto originariamente assente, introduce il concetto di giusto processo. Cosa vuol dire? Che ogni cittadino ha il diritto di rispondere delle proprie azioni davanti alla legge con garanzie ben precise. La prima è enunciata dal secondo comma. Consiste nel diritto al contraddittorio. Le parti hanno la possibilità di stare davanti a un giudice imparziale ed esporre le proprie tesi in condizione di assoluta parità, il giudice inquirente è equiparato alla parte imputata, le sue tesi sono importanti esattamente come quelle esposte dall’imputato, il Pubblico Ministero non è posto in una posizione di superiorità rispetto alle altre parti. Altro concetto importantissimo è il diritto di chi affronta una causa ad avere una sentenza in tempi brevi. La costituzione impone che i tempi processuali siano celeri, cosa che purtroppo avviene raramente nella quotidianità giudiziaria. Bisogna notare che spesse volte la brevità del processo non aiuta l’imputato. La prescrizione dei reati, cioè la cessazione del processo quando i suoi tempi si protraggono allungo, è un’arma fondamentale per la difesa.  Forza Italia e Lega, quando sono state al governo, hanno speso tutte le loro energie politiche per fare in modo che chi ha commesso illeciti finanziari e fiscali fosse difeso dalla legge con l’introduzioni di metodi giurisdizionali farraginosi che impedissero di arrivare a sentenza vertenze in materia finanziaria. Matteo Salvini ha voluto alla seconda carica dello stato, la presidenza del senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, colei che da sottosegretario alla giustizia ha fatto in modo che i processi contro l’ex presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, fossero intralciati. La stampa l’ha chiamata la “zia di Moubarak”, per il suo ruolo importantissimo nella vicenda processuale che vedeva coinvolti Berlusconi e la giovane di origine marocchina Rouby Rubacuori. Per il suo impegno in questo ambito lega, M5S e Forza Italia l’hanno eletta presidente del senato.

In realtà il fine dell’articolo 111 non è quella di difendere gli interessi personali di Silvio Berlusconi, almeno non dovrebbe esserlo. La teleologica dell’articolo è quello di garantire a tutti un processo trasparente. Le parti, sia gli imputati che le parti civili, devono essere adeguatamente informate delle fasi di preparazione al processo. Chi è imputato deve essere informato riservatamente delle ragioni dell’accusa elevata a suo carico, come dice il terzo comma dell’articolo 111. Questo per evitare la cosiddetta gogna mediatica, dovuta alle illazioni scaturite sul caso. È necessario che l’imputato sia messo nelle condizioni di preparare una difesa adeguata. Per farlo può e deve controinterrogare i testi dell’accusa e introdurre testi a proprio favore, ovviamente coadiuvato e guidato da un avvocato difensore. Può portare a suo favore ogni tipo di prova, che ovviamente sarà messa al vaglio della corte, al pari di quelle dell’accusa. Se il processo si tiene in una lingua che non conosce o che non padroneggia efficacemente ha diritto ad un interprete. Questo diritto, sacrosanto, non vale solo per gli stranieri, pensiamo ad un cittadino italiano e di lingua italiana che affronta un processo in Alto Adige, in cui la lingua ufficiale del tribunale è il tedesco. Oppure pensiamo ad un Altoatesino, di lingua tedesca, che affronta un processo davanti a un tribunale che si esprime in italiano. Anche in questi casi è un diritto della difesa e in generale di tutte le parti processuali ad avere un interprete gratuitamente.

Il quarto comma dell’articolo 111 impone che in un’azione giurisdizionale ci sia sempre un contradditorio. Le prove, per diventare strumento processuale, devono essere presentate a tutte le parti processuali e dibattute in fase preliminare. Questo per un principio di trasparenza. Le parti devono sapere quali siano le “armi” della controparte. Ma non solo per questo, anche per dare una opportunità di analizzare compiutamente le prove della parte avversa e confutarle. Le prove non possono essere ammesse se chi le produce, o attraverso oggetti o attraverso dichiarazioni, si rifiuta di sottostare al controinterrogatorio della parte avversa, dell’imputato. Insomma la prova si fa solo attraverso il dibattimento. Questa è un’innovazione profonda. Per diventare prova processuale è indispensabile che il fatto probante sia discusso in un dibattimento pubblico da tutte le parti. Prima non era così, il Pubblico Ministero poteva limitarsi a presentare agli atti le dichiarazioni o le prove contro il reo. Una novità fondamentale che serve a garantire chi è sotto processo e a rendere più trasparente il procedimento. La riforma del 1999 ha cambiato profondamente l’iter processuale, trasformando ancor di più il nostro processo da una procedura di atti scritti a un dibattito dialogico. Insomma le prove e gli atti processuali diventano vivi strumenti processuali solo se dibattuti. Giuseppe Chiovenda, illustre giurista della prima metà degli anni ’20 del XX secolo, si è battuto tutta la vita per rendere il processo un atto verbale che si svolgesse quasi interamente nell’ambito del dibattimento. La riforma dell’articolo 111 sembra un tributo alla sua opera e al suo impegno giuridico da fine proceduralista civile.

Il quinto comma regolamenta i casi in cui la prova non può essere acquisita in dibattimento. Come abbiamo detto l’acquisizione dell’atto in un confronto dialettico processuale è la regola. Ci possono essere eccezioni dovute a cause di forza maggiore. In primis la legge ammette che una prova non acquisita in dibattimento vada agli atti processuali se c’è il consenso dell’imputato. Poi ammette che venga messa agli atti in caso di accertata impossibilità. Pensiamo al caso di un teste che abbia dichiarato e messo a verbale la sua deposizione nella fase preliminare del processo, ma che durante il dibattimento sia venuto a mancare. In questo caso la sua testimonianza, se adeguatamente registrata e protocollata, può entrare negli atti processuali. Lo stesso vale per colui che è in stato di grave malattia o che abbia abbandonato il nostro paese e che non possa, per ragioni indifferibili, presenziare al processo. Pensiamo ai testimoni dei processi per mafia, la cui presenza in aula può essere pericolosa per la loro stessa incolumità fisica. Comunque le eccezioni alla regola della formazione delle prove attraverso il contraddittorio devono essere previste per legge. Non è il magistrato o la corte a decidere quale sia l’eccezione, ma è una norma dello stato. Il magistrato si deve limitare ad appurare se nel caso specifico di cui tratta sia incorso in un’eccezione prevista da legge e solo in quel caso può, e deve, ammettere la prova non scaturita da dibattito. Importantissimo notare che la condotta delittuosa volta ad impedire la produzione della prova in processo è motivo per imporre al giudice di ammetterla fra gli atti. Se si minaccia un teste, ad esempio, la sua testimonianza è considerata prova anche se la depone fuori dal dibattimento processuale. Questo è voluto per combattere le intimidazioni mafiose che sono un cancro sociale. La mafia e le organizzazioni criminali in generale fanno del terrore uno strumento di potere. L’intimidazione è il loro pane quotidiano. Per combatterle urge che chi ha il coraggio di far sentire la sua voce contro questi criminali sia protetto e difeso, per questo motivo la Costituzione ammette esplicitamente che una prova sia ammissibile se non può essere presentata in dibattimento a causa di una condotta illecita. Chi commette un crimine, chi uccide ad esempio un teste oppure distrugge una prova oppure intimidisce, non può avere sconti giudiziari. Il suo atto illecito non deve essere premiato con l’espulsione della prova contro di lui in un processo penale. Anzi deve essere ulteriormente punito per aver tentato di corrompere e di alterare una prova.

Il sesto comma era il primo comma dell’articolo 111 prima della riforma costituzionale del 1999. Dice un concetto semplicissimo e importantissimo. Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. Che vuol dire? Qualsiasi provvedimento del tribunale deve avere una motivazione, una ragione d’essere. Le indagini preliminari, la prima fase processuale, deve svolgersi perché vi sono evidenti indizi che giustificano un avvio d’inchiesta. Le richieste di arresto, perquisizione o altro, gravissime limitazione alla libertà personale dell’individuo, devono essere motivate e firmate dal Giudice delle indagini preliminari. La sentenza stessa di un processo deve essere motivata attraverso un dettagliato resoconto delle sue motivazioni, che spesso è fatto da fascicoli di molte pagine, migliaia per i processi più complessi. Insomma ogni atto della magistratura deve essere ragionato e questo ragionamento deve essere scritto e protocollato e ovviamente devono essere messe a verbale quale siano le norme di legge applicate. L’incipit di una sentenza può essere: in nome della legge in virtù dell’articolo.. del codice.. si sentenzia.. Insomma le motivazioni sono la carne e il sangue di un atto giudiziario. Nessuno deve essere come K. Il personaggio de “Il processo” di Franz Kafka che viene imputato, giudicato e condannato a morte senza sapere il motivo. Nessuno deve vivere nell’anonimato e nell’abbandono un momento spesso tragico della vita quale può essere un procedimento giudiziario a suo carico. La Costituzione garantisce a tutti la pubblicità degli atti. Tutti devono sapere cosa succede. Un imputato deve sapere quali sono gli atti d’accusa a suo carico, questo vale per tutti. Anche per Abu Omar, l’imman di Milano che il governo Berlusconi consegno senza alcun processo ed atto formale alle forze americane di repressione al terrorismo. La legalità, la certezza del diritto, il diritto alla difesa sono capisaldi dell’ordinamento democratico. Non possono e non devono essere in discussione, tanto meno per motivi razziali come nel caso di Abu Omar.
Contro ogni provvedimento restrittivo della libertà personale si può fare ricorso in Cassazione. Lo dice il comma 7 dell’articolo 111 della Costituzione. La libertà personale è sacra, è inviolabile, sancisce l’articolo 13 della nostra legge fondamentale. Nessuno può essere imprigionato se non per motivi tassativamente previsti dal codice penale. Si può fare ricorso alle sentenze che privano della libertà sempre e comunque davanti alla Corte di Cassazione che sarà chiamata ad appurare se vi siano le ragioni giuridiche, di legge, che giustificano un così grave provvedimento della magistratura. Si può ricorrere sia in caso di fermo e arresto preventivo, cioè durante le fasi istruttorie del processo, sia in caso di sentenza definitiva se si considera incongrua la pena dell’arresto come applicazione della sentenza, oppure si ritiene, cosa ben più frequente, che vi siano motivazioni di salute del reo, oppure altri motivi, che inducano a non applicare nel caso specifico la detenzione. Urge notare che qualsiasi siano le ragioni per cui si chiede la scarcerazione del reo, devono essere tassativamente previste da una legge, che secondo la difesa non sarebbe stata contemplata dal provvedimento restrittivo. Infatti la Corte di cassazione, in questi casi come in tutte le questioni nelle quali è chiamata a giudicare, deve appurare solo e unicamente se vi sia stata una violazione di legge nelle applicazioni di legge, non deve valutare e giudicare ulteriormente le prove giudiziali già passate al vagli dei giudici di primo e secondo grado. Deroghe all’appellarsi alla corte possono essere previste solo in caso di guerra. Le leggi speciali introdotte durante un eventuale conflitto possono esclude l’appellarsi ai provvedimenti restrittivi operati dai tribunali militari.

È d’obbligo sottolineare che l’ultimo comma dell’articolo 111 esclude la competenza della Corte di Cassazione sul giudizio di merito del Consiglio di Stato e della Corte di Cassazione. Ricordiamo che l’uno è l’organo giudicante che annulla e censura gli atti amministrativi. L’atro è l’organo che punisce i comportamenti antieconomici e contrari al principio di oculata gestione finanziaria degli enti pubblici. Questi due organi sono considerati già giudici di ultima istanza per le materie di loro competenza, la corte di cassazione non può e non deve giudicare se applicano o no correttamente la legge, spetta alla loro competenza utilizzare la saggezza e la scienza necessaria per utilizzare correttamente le norme. La Corte di Cassazione può intervenire solo nell’importantissimo caso in cui le due alte corti dello stato operino al di fuori della loro giurisdizione. Se giudicano materie che esulano dalle loro competenze indicate tassativamente dalla Costituzione e dalle norme dello stato. Solo in quel caso la Corte di cassazione, con sentenza, toglie il processo dalle loro mani ed eventualmente l’affida al tribunale competente.

L’articolo 111 è l’architrave del nostro sistema giudiziario. Delinea il funzionamento e la vita di tutti i processi. Ne delimita gli ambiti. Mette importanti paletti all’azione dei giudici. Indica le fasi processuali che saranno compiutamente normate dai vari codici di procedura penale, civile, amministrativa etc. insomma è un punto di riferimento di legalità. È la garanzia che il cittadino non deve essere schiacciato dalla macchina burocratica dello stato. Il cittadino, imputato o parte civile, ha dei propri diritti inalienabili che deve far valere davanti al tribunale. Ha diritto a un giusto processo, che vuol dire che non deve soccombere davanti alle logiche prevaricanti della burocrazia. La difesa dei più deboli, dei meno attrezzati a difendersi dagli strali della vita, parte anche da una magistratura sensibile ai bisogni della gente. La libertà deve essere sentita anche nei processi. La giustizia, bene ultimo e assoluto a cui le aule dei tribunali devono tendere, si raggiunge con la strenua difesa delle garanzie di tutti e della dignità umana. Nessuno deve essere umiliato, anche se in cattività, anche se è indagato è innanzitutto  un essere umano.

giovedì 26 aprile 2018

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: ARTICOLO 110



ARTICOLO  110

“Ferme le competenze del Consiglio superiore della magistratura, spettano al Ministro della Giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”.

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.

Il ruolo del Ministro della Giustizia è importantissimo. L’articolo 110 della Costituzione italiana gli attribuisce i compiti di organizzatore dei servizi relativi alla giustizia. In sostanza è lui il responsabile del funzionamento amministrativo di tutti i tribunali del paese. È il ministro che si occupa di garantire che ogni tribunale abbia a disposizione tutti gli strumenti, dalle suppellettili alle fonti di consultazione giuridica, necessari per compiere l’alto incarico di emettere sentenze secondo giustizia. Mentre il Consiglio Superiore della Magistratura, citato dagli articolo 104, 105, 106 e 107 della nostra Carta fondamentale, ha il compito di garantire l’indipendenza e l’autonomia dell’ordine. Il Ministro della Giustizia ha l’onere di occuparsi delle misure che attengono al suo operato, cioè il concreto funzionamento degli uffici. Questa divisione di ruoli deve garantire l’indipendenza della Magistratura da ogni condizionamento da parte di altri poteri dello stato e soprattutto da parte del governo. Il Ministro di Giustizia non ha un ruolo di controllore dell’operato dei giudici, non è un superiore gerarchico rispetto ai magistrati. Non spetta a lui, ma al CSM di giudicare e censurare il lavoro della Magistratura. Il suo ruolo in questo ambito si limita a quello si segnalatore. In forza dell’articolo 107 secondo comma della Costituzione può promuovere azione disciplinare presso il Consiglio Superiore della Magistratura, ma non è lui che decide eventuali trasferimenti o provvedimenti disciplinari. Non è lui che giudica l’operato dei singoli giudici e dell’intero sistema giudiziario. In questo aspetto il Ministro della Giustizia ha titolo ad esprimersi esattamente come un qualsiasi cittadino, senza alcuna legittimazione superiore dovuta al proprio ruolo. Il suo compito si limita a segnalare un comportamento da lui considerato inopportuno. In questi anni il ruolo del ministro della giustizia ha avuto un ruolo centrale. Durante il cosiddetto periodo delle grandi inchieste giudiziarie, i ministri della giustizia che facevano parte delle coalizioni Lega – Forza Italia, hanno provato ad interpretare il ruolo di Ministro di Grazia e Giustizia ampliandone le funzioni di fatto. Mentre i magistrati chiedevano l’attivazione del ministero per potenziare gli uffici giudiziari, dotandoli ad esempio di computer o di strumenti di cancelleria. I ministri di destra invece utilizzavano lo strumento dell’ispezione ministeriale per fermare le inchieste che sul finire degli anni ’90 vedevano come imputati Umberto Bossi e Silvio Berlusconi. Qualche anno prima, ricordiamolo, Umberto Bossi condannato per le tangenti ricevute dall’industria Enimont, uscì dal tribunale con la gente leghista festante, orgogliosa che il suo capo avesse chiesto soldi per il partito e per il progetto di Padania Indipendente. Insomma la destra ha utilizzato il potere del Ministro di Giustizia per fermare i processi. Non è un caso che il Leder odierno della Lega Matteo Salvini, in nome della continuità storica della guerra ai magistrati, abbia voluto come presidente del senato l’avvocato Elisabetta Alberti Casellati che in passato è stata viceministro della giustizia dei governi Berlusconi e ha operato per fermare le inchieste contro i politici di destra. I giornalisti la chiamano “la zia di Moubarak”. Questo nomignolo le è stato affibbiato perché ha avuto l’idea di far pronunciare il parlamento su una mozione che affermava che Ruby Rubacuori, la minorenne pupilla di Silvio Berlusconi, era realmente parente del presidente egiziano e alla luce di questo giustificare l’intervento di Silvio Berlusconi presso la questura di Milano al fine di liberare la ragazza che era in stato di fermo. Il parlamento insomma dichiarò che la libertà della giovane marocchina era una questione di stato e di conseguenza era giusto che Berlusconi intervenisse. Sul fatto che era evidente a tutti che una giovane donna marocchina residente fin da piccola in Italia non potesse essere parente di un presidente egiziano e non potesse avere ruoli diplomatici che necessitassero l’intervento del capo del governo, i giornali mondiali ancora ridono, alzano le spalle e dicono les italiens. Comunque questo è solo uno dei tanti episodi della guerra di Arcore, lo scontro di lega e Forza Italia contro i principi del diritto. Scegliere se il guardia sigilli operi in maniera incisiva nell’operato della magistratura o abbia un ruolo di mero gestore degli atti che riguardano la sua amministrazione è un dirimente importantissimo per la politica del governo. È inutile negare che anche la sinistra ha avuto modo di intervenire nei processi contro i propri dirigenti. È il caso dell’inchiesta “Banca Etruria” che vedeva coinvolto il padre dell’allora segretario del Partito Democratico e Presidente del Consiglio in carica, Matteo Renzi. Anche in quel caso il ministro Lotti, che in realtà non aveva la nomina al dicastero della giustizia ma era ministro dello Sport, ha provato ad interferire con la giustizia. Questo episodio è la lampante dimostrazione che gli esecutivi hanno provato sempre ad ampliare il loro ruolo, spesso per motivi fraudolenti. Quando la costituzione dice che il ministro si occupa del funzionamento dei servizi giurisdizionali, la politica ha interpretato questo passo come giustificazione ad entrare nel dettaglio delle inchieste. Questo è un principio aberrante. Il ministero ha un ruolo di mero potenziamento delle strutture tecnico operative, un controllo politico e gerarchico è escluso. Solo durante il regime fascista l’ordine giudiziario era sottomesso al regime.  È giusto che la magistratura abbia la sua indipendenza. Mi rivolgo agli elettori di destra. Chi in passato ha votato Partito Democratico ha voltato le spalle al pd proprio perché ha provato a truccare i processi. Perché gli elettori di destra non fanno lo stesso? Perché gli elettori Molisani di lega e Forza Italia non hanno abbandonato i loro partiti e hanno eletto un presidente regionale di destra? Veramente chi vota lega e Forza Italia considera poca cosa la legalità? Veramente gli elettori del Friuli voteranno il candidato di Salvini e Berlusconi alla presidenza della propria regione, nonostante un importantissimo esponente di destra, Marcello Dell’Utri sia stato imputato e condannato per mafia? Stando ai sondaggi, la risposta sembra “si”. Lo sconforto verso questo poco rispetto per i principi di legalità è forte. Viene da dire che non è solo la Casellati la “zia di Moubarak” siamo tutti noi che calpestiamo i principi di indipendenza della magistratura.

martedì 24 aprile 2018

BUONA LIBERAZIONE



CHE BELLA GIORNATA DI SOLE
Oggi è 25 aprile. Si festeggia la fine di una guerra. Non un conflitto qualsiasi, ma un vero e proprio sterminio di persone innocenti. Sotto le bombe fra il 1939 e il 1945 sono morte milioni di vittime innocenti. Nei lager nazisti hanno perso la vita persone ree solo di essere ebree, rom, disabili, insomma diverse da quello che la folle mente di Hitler considerava l'ariano puro, il modello ideale di uomo a cui la Germania Nazista doveva propendere. Il 25 aprile è questo. E' una vera e propria liberazione, almeno per il nostro paese. Infatti per il resto dell'Europa il conflitto proseguì fino agli inizi di Maggio.Una giornata di sole, dopo le tenebre che hanno oscurato ogni speranza per il genere umano. A Milano il 25 aprile del 1945 si arresero definitivamente le forze naziste che occupavano l'Italia. Finì l'incubo per i nostri padri e i nostri nonni. Fu un giorno di pace, di serenità, di speranza. Si poteva pensare al domani. Le persone scesero in piazza a Genova, a Milano e in centinaia di città. Abbracciavano i partigiani, che avevano lottano strenuamente contro la barbarie nazifascista, abbracciarono gli alleati (americani, inglesi neozelandesi etc.) che avevano combattuto sul nostro territorio per la libertà di tutti. Oggi si festeggia la pace. Oggi si festeggia il sogno di una democrazia che allora sembrava possibile e che oggi viviamo con tutte le sue contraddizioni. E' vero la nostra Repubblica ha un mucchio di difetti. La debolezza umana la fa vulnerabile alla corruzione, all'odio al rancore. Non dimentichiamoci però che la democrazia è pace. Il 25 aprile ci ricorda che le dittature, di qualsiasi colore politico siano, sono latrici di morte. Il 25 aprile ci ricorda che le teorie "eugenetiche", quelle che asseriscono che una "razza" è superiore a un'altra, portano solo orrore e stragi. Ricordiamo Primo Levi, uno dei pochi sopravvissuti ad Auswitz, che racconta l'orrore dei campi di sterminio. Sono queste cose che dobbiamo tenere care nel nostro cuore. Sono la consapevolezza dell'orrore della violenza dell'uomo sull'uomo. Sono la certezza che il razzismo uccide e non salva nessuno da presunte invasioni di clandestini. Sono la certezza che la Liberazione è una festa di parte, una festa che sta dalla parte di chi crede che il valore della vita umana sia incommensurabile. Che la dignità umana sia un bene da difendere sempre e comunque. Una festa che ci dice che siamo tutti uguali. Una festa che ci dice che tutti abbiamo diritto di parlare, pensare, amare, vivere. Una festa di pace. Una festa che ricorda una guerra finita grazie allo sforzo immane di tanti uomini e donne di pace. Buon 25 aprile a tutti. Buon 25 aprile a chi è ancora in guerra, augurandogli che anche per lui arriverà il giorno della Liberazione, il giorno della Pace. Auguri anche a chi non considera sua la festa del 25 Aprile, impari che i valori di giustizia, di libertà, di fraternità di lotta alle brutture prodotte dal nazismo sono un beneficio anche per lui.
Auguri a tutti noi, evviva la pace, evviva la democrazia, evviva il diritto che abbiamo di sognare una società libera da ingiustizie discriminazioni e pregiudizi.

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: ARTICOLO 109



ARTICOLO 109

“L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria”.

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.

L’articolo 109 della Costituzione è laconico. Esprime una disposizione apparentemente tecnica e di natura amministrativa. Dice che la magistratura ha a disposizione una parte delle forze dell’ordine  per svolgere con maggiore accuratezza le indagini riguardanti una causa o una circostanza fattuale in cui potrebbero configurarsi reati di natura penale. È subito da dire che la polizia giudiziaria non è composta solo da membri della Polizia di Stato, ne fanno parte componenti di tutte le forze dell’ordine: carabinieri, Guardie di finanza, corpi forestali etc. Ogni arma è chiamata ha dare il suo contributo, secondo le proprie competenze, al lavoro dei magistrati. Il ruolo di supporto della polizia giudiziari alla magistratura è normato dall’articolo 55 e seguenti del Codice di Procedura Penale. L’articolo 55 del C.P.P. dice che la polizia giudiziaria deve prendere notizia di reati,anche di propria iniziativa. Cioè deve svolgere indagini per conto dei giudici ma può anche prendere contezza di affari illeciti senza essere sollecitata da un giudice, notificandoli al pubblico ministero competente a svolgere l’inchiesta. L’articolo 57 del C.P.P. stabilisce che sono chiamati al compito di polizia giudiziaria tutti gli ufficiali e i loro sottoposti delle tre principali forze di sicurezza pubblica. È d’obbligo sottolineare come le forze dell’ordine abbiano un duplice mandato di fedeltà, una verso il proprio ministero di competenza (ministero degli interni, ministero delle finanze o della difesa) l’una verso gli uffici della magistratura. Sono chiamati a compiere il loro mestiere sotto il controllo e la potestà di due poteri distinti dello stato: quello esecutivo, il governo, e quello della magistratura. Come conciliare questo duplice ruolo, questa duplice funzione? La risposta è nel valore unificante dello spirito democratico. Gli appartenenti alle strutture organizzative dello stato non servono un particolare ministro, una particolare figura istituzionale, sono al servizio della Repubblica e dei cittadini. La finalità dell’azione delle forze dell’ordine è quella di difendere l’ordinamento democratico. È essere al servizio delle leggi. Alla luce di questo principio l’articolo 59 del Codice di Procedura Penale dispone che  debbano essere istituite apposite sezioni di polizia giudiziaria. Queste debbono essere al servizio della magistratura. Tali forze dell’ordine dipendono strettamente dai magistrati. Tali esponenti delle forze dell’ordine servono la patria, servono gli interessi superiori della nazione che impongono che vi sia il rispetto assoluto delle leggi e la sottomissione di tutti ai principi di legalità. Insomma le forze dell’ordine che collaborano con i magistrati sono l’epifania dell’effettività del diritto. Se una legge non è rispettata, lo stato interviene, impone che l’ordine sia ripristinato e punisce che trasgredisce. Lo fa con l’opera della magistratura supportata dalle forze dell’ordine. Come si può ben vedere quindi l’articolo 109 della Costituzione Italiana non è soltanto un articolo dispositivo. Non è un mero distribuire competenze: la polizia giudiziaria deve svolgere le indagini. Le indagini giudiziarie, il lavoro indefesso delle forze dell’ordine, sono uno strumento preziosissimo per garantire l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, per stabilire che l’onestà è un valore civico da perseguire indefessamente. In questi anni questo è stato messo in discussione. Davanti alle inchieste giudiziarie che mettevano alla sbarra imprenditori e politici, la popolazione ha reagito votando Lega e Forza Italia che apertamente negano il diritto della legge di indagare i potenti. Ricordiamo l’indefessa lotta di Silvio Berlusconi contro chi lo indagava per i suoi fondi neri all’estero. Per la destra la legalità non è un valore. A dire il vero anche la sinistra, pensiamo al ministro dell’attuale governo Lotti che ha provato a condizionare le indagini delle forze dell’ordine, ha commesso azioni gravissime. Ha provato a manipolare indagini. Ma quello che preme sottolineare è che per la sinistra tali atti sono da tenere nascosti. Ogni scandalo giudiziario produce un calo di consensi. Mentre per la destra commettere reati, commettere illeciti, è un punto d’onore. Ogni volte che alcuni esponenti di Forza Italia o lega sono condannati per reati di qualche tipo, la reazione dell’elettorato è di solidarietà. La condanna per mafia di Cesare Previti, storico cofondatore di Forza Italia, ha portato la vittoria della destra in Molise, domenica scorsa, e probabilmente porterà al trionfo dei partiti di salvini e Berlusconi in Friuli Venezia Giulia. Un segnale chiaro di voto contro i principi di legalità e giustizia. Bisogna cambiare la Costituzione? Bisogna che lo “spirito del ‘94”, l’ideologia Forza Leghista che premia chi commette reati finanziari, prevalga? Forse la risposta è nella figura dell’attuale presidente del senato, l’onorevole Elisabetta Alberti Casellati, ha operato da sempre non per abrogare le leggi di natura penale, ma per fare in modo che dirigenti leghisti e forzisti non fossero condannati. Da sottosegretario alla giustizia durante i governi Berlusconi ha operato affinché vi fossero leggi che tutelassero gli esponenti di destra, norme ad pernsam come dicevano in gergo i giornalisti. Staremo a vedere se l’attuale legislatura andrà in questa direzione, come l’accordo fra Lega, Forza Italia e M5S che ha voluto la Casellati presidente del senato sembra promettere. Intanto la vittoria del candidato presidente della destra in Friuli sarebbe un modo per dare conforto a Cesare Previti, da poco condannato.

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: ARTICOLO 108



ARTICOLO 108

“Le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite per legge.

La legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei che partecipano all’amministrazione della giustizia”.

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.

Il primo comma dell’articolo 108 della Costituzione Italiana stabilisce che le norme che regolamentano la vita e l’organizzazione di ogni magistratura devono essere stabilite da legge dello stato. Che sia il giudice ordinario, che sia il magistrato amministrativo o militare il suo operato deve essere stabilito da una norma. Questo è per garantire l’indipendenza della magistratura da ogni altro potere dello stato, come si dice nel secondo comma di questo stesso articolo. Le Leggi hanno anche la capacità di rendere trasparente l’operato di chi vi è sottoposto. Il magistrato è sottomesso alla norma. Opera solo in funzione dell’adempimento della legge. Le regole che presiedono le modalità d’azione e gli uffici del giudice sono dette ordinamento giudiziario. L’ordinamento giudiziario è l’insieme di norme che regolano la costituzione e il funzionamento di ogni ufficio giurisdizionale. Sono le leggi che danno gli strumenti necessari allo stato per applicare il diritto oggettivo. Insomma l’ordinamento giudiziario permette di applicare quelle norme che regolano i rapporti all’interno dello stato – comunità di cittadini. Di rendere viventi quelle regole che vietano alcuni comportamenti, che incoraggiano altri, che pongono le basi per una convivenza civile. Alla luce di questo si comprende perché la Costituzione ha a cuore che questo. L’ordinamento giudiziario, è frutto della volontà del Parlamento, che è la sede del potere popolare che si esplica attraverso i suoi rappresentanti. La magistratura deve essere sottoposta solo alla legge. Gli organi giudiziari sono regolati al fine di garantirne l’indipendenza. Gli organi giudiziari speciali, ad esempio il Consiglio di Stato o la Corte dei Conti, per le loro funzioni sono spesso in stretto raccordo con il potere esecutivo. Svolgono anche la funzione di consiglieri degli organi politici. I loro membri sono nominati con decreto presidenziale, di fatto sono scelti dal governo. Alla luce di questo appare importantissimo che sia garantita loro l’indipendenza di giudizio e di azione. Pur operando nell’ambito del potere amministrativo e legislativo, devono mantenere l’indipendenza propria di quello giurisdizionale. Devono dimostrasi duri censori nell’ambito dell’economia e della finanza pubblica, è il caso della Corte dei Conti, e devono apparire ligi nel giudicare gli atti amministrativi, il tribunale di stato. Per questo la legge deve garantirne l’indipendenza. Le giurisdizioni speciali sono anche il tribunale superiore delle acque pubbliche e i tribunali regionali delle acque pubbliche. La loro competenza è ristretta alle questioni relative alle acque pubbliche. Il tribunale superiore funge d’appello a quello regionale. Anche questo importante magistero è sottoposto al principio di indipendenza e di sottomissione alla legge, proprio di ogni magistratura. Pari sorte hanno le commissioni tributarie che hanno il duplice e delicatissimo ruolo di cooperare con il ministero delle finanza in materia di tassazione e di compiere alcuni accertamenti fiscali al fine di controllare che i cittadini paghino le tasse. Tutti queste giurisdizioni speciali sono sottoposte alla legge. Anche chi collabora, in forma di membro laico dei tribunali o di giuria popolare, ha un ruolo importantissimo. Il giudice di pace, la giuria popolare nei processi tenute dalle Corti di assise, gli esperti chiamati ad operare come consulenti all’interno dei tribunali devono agire scevri da ogni condizionamento esterno che ottenebri il loro giudizio nell’ambito dell’azione processuale. Ogni soggetto che operi all’interno del tribunale, quale figura terza e collaboratrice del magistrato giudicante, deve apparire sottomessa soltanto alle norme di legge e assolutamente indipendente. Questo principio è basilare per garantire un giusto processo. Insomma l’articolo 108 impone che tutto il funzionamento dei processi e delle strutture organizzative delle magistrature ordinarie e speciali siano regolamentate per legge. Dispone che tutti coloro che hanno funzione di organo giudicante o che collaborino con esso abbiano come fondamento del loro operare il principio di imparzialità. Che tutti i tribunali speciali siano indipendenti, pensiamo ai tribunali militari che devono sentenziare senza che il loro operato sia condizionato da ordini superiori, pur operando all’interno di un’istituzione dello stato in cui la gerarchia e il rispetto degli ordini dei superiori è fondamentale. La giustizia prevale su ogni potestà. Il potere gerarchico, economico, politico si deve fermare davanti al diritto e deve inchinarsi davanti alla sua superiorità morale. Ciò nel quotidiano, purtroppo, non spesso avviene. È dovere di ogni cittadino e organo dello stato fare in modo che questo difetto sia superato. La giustizia deve prevalere su tutto.

lunedì 23 aprile 2018

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: ARTICOLO 107



ARTICOLO 107

“I magistrati sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del Consiglio superiore della magistratura, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall’ordinamento giudiziario o con il loro consenso.

Il ministro della giustizia ha la facoltà di promuovere l’azione disciplinare.

I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni.

Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme dell’ordinamento giudiziario”.

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.

L’articolo 107 della Costituzione pone dei principi basilari per garantire l’indipendenza dei magistrati da altri poteri dello stato e li pone fuori da ogni logica gerarchica, non sottoponendoli ad alcuna autorità superiore se non la legge dello stato. Per garantirgli l’indipendenza la nostra carta fondamentale afferma che sono inamovibili. L’esecutivo non può trasferirli o defenestrarli per intralciare il loro lavoro. È il Consiglio Superiore della Magistratura, organo di autogoverno della magistratura, a decidere se sospenderli o dispensarli dal servizio oppure trasferirli ad altre sedi. Ma anche il CSM non può e non deve compiere tali atti arbitrariamente. Tali azioni devono essere motivate da gravi motivi di incompatibilità ambientale e da motivi di opportunità volta alla salvaguardia dell’onore dell’ufficio giudiziario. L’ordinamento giudiziario, il corpus di leggi che regolamenta il ruolo e le attività dei giudici, deve essere la stella polare su cui orientarsi per motivare eventuali atti contro un singolo giudice. Non vi è la possibilità di compiere arbitri. Non si è nel campo dell’attività amministrativa, in cui l’autorità gerarchica può giustificare un atto d’imperio del superiore rispetto al subordinato. In magistratura vige il principio dell’uguaglianza, tutti i magistrati hanno la stessa autorità, si possono distinguere fra loro solo per diversità di funzioni, come afferma il terzo comma dell’articolo 107. Alla luce di questo è il CSM che stabilisce come procedere in eventuali casi di indubbia necessità di trasferimento. A far richiesta di intervento del Consiglio è il Ministro della Giustizia. Tale organo dell’esecutivo non ha il potere di agire con azioni disciplinari, ha la possibilità di promuovere l’azione, cioè di chiedere che il magistrato sia punito, ma sarà il csm a valutare se farlo e come farlo. È d’obbligo sottolineare che il Consiglio Superiore della Magistratura può trasferire o dare altro compito a un magistrato con il suo consenso o su sua richiesta. In questo caso non sono necessarie le garanzie di difesa concesse al giudice. Ovviamente tali atti non sono da considerarsi censori del suo operato o punitivi. In tali situazioni l’ordinamento giudiziario è meno rigido nelle modalità di esecuzione del provvedimento del Consiglio Superiore della Magistratura. In casi, invece, di trasferimento forzato è bene che il magistrato esponga in maniera chiara le sue ragioni e ci sia un vero e proprio contradditorio in sala di consiglio al fine di garantire chiarezza e trasparenza in un provvedimento che è nei fatti censorio verso l’operato del giudice. I magistrati si distinguono solo per diversità di funzioni, per il loro agire in uffici diversi all’interno del palazzo giudiziario. Chi svolge l’attività all’interno del tribunale dei minori ha la stessa autorità e ruolo di chi opera nell’ambito del processo civile, penale etc. Particolare attenzione è posto sul ruolo del Pubblico Ministero. Non certo perché tale figura sia diversa giuridicamente e professionalmente dagli altri magistrati. Il Pubblico Ministero è un magistrato al pari di tutti gli altri. È la sua funzione ad essere particolare. Il suo compito è quello di preparare le basi per un processo penale. Il suo compito è appurare i fatti che sono da ritenersi scaturenti di un reato. Il suo compito è quello di mettere insieme le prove, gli elementi materiali che raccontano come si sia svolta un’azione che potrebbe essere censurabile dal punto di vista penale, e presentarle al giudice che presiede il dibattimento. È d’obbligo precisare che per il nostro ordinamento il pubblico ministero non è propriamente da considerarsi “parte” di un processo. Non si può certo dire che agisca contro l’imputato. Come qualsiasi giudice ha la funzione di appurare la verità, non è il “nemico” dell’accusato. Svolge un’azione di indagine con il supporto delle forze dell’ordine. Il suo ruolo è quello di presentare fatti e circostanze davanti al giudice giudicante, quest’ultimo è chiamato poi a pronunciare sentenza. Questa visione del Pubblico Ministero come superpartes aveva indotto i costituenti a non ritenere necessario che fosse chiara e lampante la parità di forze fra il giudice delle indagini e il reo. Il Pubblico Ministero aveva prerogative e strumenti di indagine che lo mettevano in una situazione di privilegio rispetto agli avvocati della difesa. L’introduzione in Costituzione del principio del principio del “giusto Processo” attraverso il novellare dell’articolo 111, ha cambiato le cose. Oggi la difesa ha più poteri di contro indagine, ha un ruolo di parità con i P.M. in caso di interrogatorio dei testi. L’ordinamento italiano ha preso spunto da quello anglosassone per riformarsi. Ma negli Stati Uniti il funzionamento della giustizia è diverso. Il procuratore non è organo neutrale, è un funzionario del governatore dello stato federato. Forse era giusto tener conto di questo, prima di introdurre nel nostro ordinamento il concetto di parità assoluta fra accusa e difesa. Questo ovviamente non vuol dire che il Magistrato dovrebbe prevaricare sull’imputato. È bene che chi è oggetto di indagine ed è sotto processo abbia tutte le tutele giuridiche necessarie e sia considerato innocente fino a sentenza definitiva, come afferma solennemente l’articolo 27 della Costituzione. È bene che sia ascoltato e abbia un avvocato che lo assisti. L’articolo 24 della nostra carta fondamentale ricorda che la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento giudiziario. È bene che la sua libertà personale sia tutelata. Lo afferma l’artico 13 della Legge delle Leggi. Quello che ci lascia perplessi è il considerare il Pubblico Ministero il nemico dell’imputato e non un umile servitore della verità giudiziaria, quale i costituenti nel 1948 l’hanno voluto.

Scritto da Gianfranco Pellecchia