venerdì 27 aprile 2018

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: ARTICOLO 111



ARTICOLO 111

“La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.

Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.

Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico, disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti a un giudice, di interrogare e di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore, sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo.

Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del su difensore.

La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contradditorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita.

Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati.

Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giudiziali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge. Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra.
Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti il ricorso in cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”.

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.

L’articolo 111 è il primo della seconda sezione del titolo IV della Costituzione Italiana. Questa parte della nostra legge fondamentale è dedicata alla giurisdizione. L’etimologia della parola giurisdizione deriva dal termine latino iuris dictio o ius dicere. Ambedue i termini della lingua dei Romani antichi vogliono dire “ciò che la legge dice”. In via traslata il termine definisce l’attività, solitamente dei megastrati ordinari, tesa all’applicazione della norma giuridica al caso concreto. Insomma spetta ai giudici capire “cosa la legge dice” e applicarla. A conti fatti tale attività si traduce in un procedimento distinto in più fasi che ha come obbiettivo l’emanazione di una sentenza, cioè l’attività principale della magistratura giudicante. Bisogna notare che l’articolo 111 è stato ampliato dalla riforma costituzionale del 23 novembre 1999. Questa ha iscritto nella nostra costituzione i primi cinque commi dell’articolo 111, che era molto più breve quando fu votato dalla Assemblea Costituente nel 1947. Il comma uno, come abbiamo detto originariamente assente, introduce il concetto di giusto processo. Cosa vuol dire? Che ogni cittadino ha il diritto di rispondere delle proprie azioni davanti alla legge con garanzie ben precise. La prima è enunciata dal secondo comma. Consiste nel diritto al contraddittorio. Le parti hanno la possibilità di stare davanti a un giudice imparziale ed esporre le proprie tesi in condizione di assoluta parità, il giudice inquirente è equiparato alla parte imputata, le sue tesi sono importanti esattamente come quelle esposte dall’imputato, il Pubblico Ministero non è posto in una posizione di superiorità rispetto alle altre parti. Altro concetto importantissimo è il diritto di chi affronta una causa ad avere una sentenza in tempi brevi. La costituzione impone che i tempi processuali siano celeri, cosa che purtroppo avviene raramente nella quotidianità giudiziaria. Bisogna notare che spesse volte la brevità del processo non aiuta l’imputato. La prescrizione dei reati, cioè la cessazione del processo quando i suoi tempi si protraggono allungo, è un’arma fondamentale per la difesa.  Forza Italia e Lega, quando sono state al governo, hanno speso tutte le loro energie politiche per fare in modo che chi ha commesso illeciti finanziari e fiscali fosse difeso dalla legge con l’introduzioni di metodi giurisdizionali farraginosi che impedissero di arrivare a sentenza vertenze in materia finanziaria. Matteo Salvini ha voluto alla seconda carica dello stato, la presidenza del senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, colei che da sottosegretario alla giustizia ha fatto in modo che i processi contro l’ex presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, fossero intralciati. La stampa l’ha chiamata la “zia di Moubarak”, per il suo ruolo importantissimo nella vicenda processuale che vedeva coinvolti Berlusconi e la giovane di origine marocchina Rouby Rubacuori. Per il suo impegno in questo ambito lega, M5S e Forza Italia l’hanno eletta presidente del senato.

In realtà il fine dell’articolo 111 non è quella di difendere gli interessi personali di Silvio Berlusconi, almeno non dovrebbe esserlo. La teleologica dell’articolo è quello di garantire a tutti un processo trasparente. Le parti, sia gli imputati che le parti civili, devono essere adeguatamente informate delle fasi di preparazione al processo. Chi è imputato deve essere informato riservatamente delle ragioni dell’accusa elevata a suo carico, come dice il terzo comma dell’articolo 111. Questo per evitare la cosiddetta gogna mediatica, dovuta alle illazioni scaturite sul caso. È necessario che l’imputato sia messo nelle condizioni di preparare una difesa adeguata. Per farlo può e deve controinterrogare i testi dell’accusa e introdurre testi a proprio favore, ovviamente coadiuvato e guidato da un avvocato difensore. Può portare a suo favore ogni tipo di prova, che ovviamente sarà messa al vaglio della corte, al pari di quelle dell’accusa. Se il processo si tiene in una lingua che non conosce o che non padroneggia efficacemente ha diritto ad un interprete. Questo diritto, sacrosanto, non vale solo per gli stranieri, pensiamo ad un cittadino italiano e di lingua italiana che affronta un processo in Alto Adige, in cui la lingua ufficiale del tribunale è il tedesco. Oppure pensiamo ad un Altoatesino, di lingua tedesca, che affronta un processo davanti a un tribunale che si esprime in italiano. Anche in questi casi è un diritto della difesa e in generale di tutte le parti processuali ad avere un interprete gratuitamente.

Il quarto comma dell’articolo 111 impone che in un’azione giurisdizionale ci sia sempre un contradditorio. Le prove, per diventare strumento processuale, devono essere presentate a tutte le parti processuali e dibattute in fase preliminare. Questo per un principio di trasparenza. Le parti devono sapere quali siano le “armi” della controparte. Ma non solo per questo, anche per dare una opportunità di analizzare compiutamente le prove della parte avversa e confutarle. Le prove non possono essere ammesse se chi le produce, o attraverso oggetti o attraverso dichiarazioni, si rifiuta di sottostare al controinterrogatorio della parte avversa, dell’imputato. Insomma la prova si fa solo attraverso il dibattimento. Questa è un’innovazione profonda. Per diventare prova processuale è indispensabile che il fatto probante sia discusso in un dibattimento pubblico da tutte le parti. Prima non era così, il Pubblico Ministero poteva limitarsi a presentare agli atti le dichiarazioni o le prove contro il reo. Una novità fondamentale che serve a garantire chi è sotto processo e a rendere più trasparente il procedimento. La riforma del 1999 ha cambiato profondamente l’iter processuale, trasformando ancor di più il nostro processo da una procedura di atti scritti a un dibattito dialogico. Insomma le prove e gli atti processuali diventano vivi strumenti processuali solo se dibattuti. Giuseppe Chiovenda, illustre giurista della prima metà degli anni ’20 del XX secolo, si è battuto tutta la vita per rendere il processo un atto verbale che si svolgesse quasi interamente nell’ambito del dibattimento. La riforma dell’articolo 111 sembra un tributo alla sua opera e al suo impegno giuridico da fine proceduralista civile.

Il quinto comma regolamenta i casi in cui la prova non può essere acquisita in dibattimento. Come abbiamo detto l’acquisizione dell’atto in un confronto dialettico processuale è la regola. Ci possono essere eccezioni dovute a cause di forza maggiore. In primis la legge ammette che una prova non acquisita in dibattimento vada agli atti processuali se c’è il consenso dell’imputato. Poi ammette che venga messa agli atti in caso di accertata impossibilità. Pensiamo al caso di un teste che abbia dichiarato e messo a verbale la sua deposizione nella fase preliminare del processo, ma che durante il dibattimento sia venuto a mancare. In questo caso la sua testimonianza, se adeguatamente registrata e protocollata, può entrare negli atti processuali. Lo stesso vale per colui che è in stato di grave malattia o che abbia abbandonato il nostro paese e che non possa, per ragioni indifferibili, presenziare al processo. Pensiamo ai testimoni dei processi per mafia, la cui presenza in aula può essere pericolosa per la loro stessa incolumità fisica. Comunque le eccezioni alla regola della formazione delle prove attraverso il contraddittorio devono essere previste per legge. Non è il magistrato o la corte a decidere quale sia l’eccezione, ma è una norma dello stato. Il magistrato si deve limitare ad appurare se nel caso specifico di cui tratta sia incorso in un’eccezione prevista da legge e solo in quel caso può, e deve, ammettere la prova non scaturita da dibattito. Importantissimo notare che la condotta delittuosa volta ad impedire la produzione della prova in processo è motivo per imporre al giudice di ammetterla fra gli atti. Se si minaccia un teste, ad esempio, la sua testimonianza è considerata prova anche se la depone fuori dal dibattimento processuale. Questo è voluto per combattere le intimidazioni mafiose che sono un cancro sociale. La mafia e le organizzazioni criminali in generale fanno del terrore uno strumento di potere. L’intimidazione è il loro pane quotidiano. Per combatterle urge che chi ha il coraggio di far sentire la sua voce contro questi criminali sia protetto e difeso, per questo motivo la Costituzione ammette esplicitamente che una prova sia ammissibile se non può essere presentata in dibattimento a causa di una condotta illecita. Chi commette un crimine, chi uccide ad esempio un teste oppure distrugge una prova oppure intimidisce, non può avere sconti giudiziari. Il suo atto illecito non deve essere premiato con l’espulsione della prova contro di lui in un processo penale. Anzi deve essere ulteriormente punito per aver tentato di corrompere e di alterare una prova.

Il sesto comma era il primo comma dell’articolo 111 prima della riforma costituzionale del 1999. Dice un concetto semplicissimo e importantissimo. Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. Che vuol dire? Qualsiasi provvedimento del tribunale deve avere una motivazione, una ragione d’essere. Le indagini preliminari, la prima fase processuale, deve svolgersi perché vi sono evidenti indizi che giustificano un avvio d’inchiesta. Le richieste di arresto, perquisizione o altro, gravissime limitazione alla libertà personale dell’individuo, devono essere motivate e firmate dal Giudice delle indagini preliminari. La sentenza stessa di un processo deve essere motivata attraverso un dettagliato resoconto delle sue motivazioni, che spesso è fatto da fascicoli di molte pagine, migliaia per i processi più complessi. Insomma ogni atto della magistratura deve essere ragionato e questo ragionamento deve essere scritto e protocollato e ovviamente devono essere messe a verbale quale siano le norme di legge applicate. L’incipit di una sentenza può essere: in nome della legge in virtù dell’articolo.. del codice.. si sentenzia.. Insomma le motivazioni sono la carne e il sangue di un atto giudiziario. Nessuno deve essere come K. Il personaggio de “Il processo” di Franz Kafka che viene imputato, giudicato e condannato a morte senza sapere il motivo. Nessuno deve vivere nell’anonimato e nell’abbandono un momento spesso tragico della vita quale può essere un procedimento giudiziario a suo carico. La Costituzione garantisce a tutti la pubblicità degli atti. Tutti devono sapere cosa succede. Un imputato deve sapere quali sono gli atti d’accusa a suo carico, questo vale per tutti. Anche per Abu Omar, l’imman di Milano che il governo Berlusconi consegno senza alcun processo ed atto formale alle forze americane di repressione al terrorismo. La legalità, la certezza del diritto, il diritto alla difesa sono capisaldi dell’ordinamento democratico. Non possono e non devono essere in discussione, tanto meno per motivi razziali come nel caso di Abu Omar.
Contro ogni provvedimento restrittivo della libertà personale si può fare ricorso in Cassazione. Lo dice il comma 7 dell’articolo 111 della Costituzione. La libertà personale è sacra, è inviolabile, sancisce l’articolo 13 della nostra legge fondamentale. Nessuno può essere imprigionato se non per motivi tassativamente previsti dal codice penale. Si può fare ricorso alle sentenze che privano della libertà sempre e comunque davanti alla Corte di Cassazione che sarà chiamata ad appurare se vi siano le ragioni giuridiche, di legge, che giustificano un così grave provvedimento della magistratura. Si può ricorrere sia in caso di fermo e arresto preventivo, cioè durante le fasi istruttorie del processo, sia in caso di sentenza definitiva se si considera incongrua la pena dell’arresto come applicazione della sentenza, oppure si ritiene, cosa ben più frequente, che vi siano motivazioni di salute del reo, oppure altri motivi, che inducano a non applicare nel caso specifico la detenzione. Urge notare che qualsiasi siano le ragioni per cui si chiede la scarcerazione del reo, devono essere tassativamente previste da una legge, che secondo la difesa non sarebbe stata contemplata dal provvedimento restrittivo. Infatti la Corte di cassazione, in questi casi come in tutte le questioni nelle quali è chiamata a giudicare, deve appurare solo e unicamente se vi sia stata una violazione di legge nelle applicazioni di legge, non deve valutare e giudicare ulteriormente le prove giudiziali già passate al vagli dei giudici di primo e secondo grado. Deroghe all’appellarsi alla corte possono essere previste solo in caso di guerra. Le leggi speciali introdotte durante un eventuale conflitto possono esclude l’appellarsi ai provvedimenti restrittivi operati dai tribunali militari.

È d’obbligo sottolineare che l’ultimo comma dell’articolo 111 esclude la competenza della Corte di Cassazione sul giudizio di merito del Consiglio di Stato e della Corte di Cassazione. Ricordiamo che l’uno è l’organo giudicante che annulla e censura gli atti amministrativi. L’atro è l’organo che punisce i comportamenti antieconomici e contrari al principio di oculata gestione finanziaria degli enti pubblici. Questi due organi sono considerati già giudici di ultima istanza per le materie di loro competenza, la corte di cassazione non può e non deve giudicare se applicano o no correttamente la legge, spetta alla loro competenza utilizzare la saggezza e la scienza necessaria per utilizzare correttamente le norme. La Corte di Cassazione può intervenire solo nell’importantissimo caso in cui le due alte corti dello stato operino al di fuori della loro giurisdizione. Se giudicano materie che esulano dalle loro competenze indicate tassativamente dalla Costituzione e dalle norme dello stato. Solo in quel caso la Corte di cassazione, con sentenza, toglie il processo dalle loro mani ed eventualmente l’affida al tribunale competente.

L’articolo 111 è l’architrave del nostro sistema giudiziario. Delinea il funzionamento e la vita di tutti i processi. Ne delimita gli ambiti. Mette importanti paletti all’azione dei giudici. Indica le fasi processuali che saranno compiutamente normate dai vari codici di procedura penale, civile, amministrativa etc. insomma è un punto di riferimento di legalità. È la garanzia che il cittadino non deve essere schiacciato dalla macchina burocratica dello stato. Il cittadino, imputato o parte civile, ha dei propri diritti inalienabili che deve far valere davanti al tribunale. Ha diritto a un giusto processo, che vuol dire che non deve soccombere davanti alle logiche prevaricanti della burocrazia. La difesa dei più deboli, dei meno attrezzati a difendersi dagli strali della vita, parte anche da una magistratura sensibile ai bisogni della gente. La libertà deve essere sentita anche nei processi. La giustizia, bene ultimo e assoluto a cui le aule dei tribunali devono tendere, si raggiunge con la strenua difesa delle garanzie di tutti e della dignità umana. Nessuno deve essere umiliato, anche se in cattività, anche se è indagato è innanzitutto  un essere umano.

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