ARTICOLO 111
“La giurisdizione si
attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.
Ogni processo si
svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un
giudice terzo imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.
Nel processo penale,
la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo
possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa e dei
motivi dell’accusa elevata a suo carico, disponga del tempo e delle condizioni
necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti a un giudice,
di interrogare e di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo
carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa
nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di
prova a suo favore, sia assistita da un interprete se non comprende o non parla
la lingua impiegata nel processo.
Il processo penale è
regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La
colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni
rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto
all’interrogatorio da parte dell’imputato o del su difensore.
La legge regola i
casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contradditorio per
consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per
effetto di provata condotta illecita.
Tutti i provvedimenti
giurisdizionali devono essere motivati.
Contro le sentenze e
contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi
giudiziali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per
violazione di legge. Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei
tribunali militari in tempo di guerra.
Contro le decisioni
del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti il ricorso in cassazione è
ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”.
Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.
L’articolo 111 è il primo della seconda sezione del titolo
IV della Costituzione Italiana. Questa parte della nostra legge fondamentale è
dedicata alla giurisdizione. L’etimologia della parola giurisdizione deriva dal
termine latino iuris dictio o ius dicere. Ambedue i termini della lingua dei
Romani antichi vogliono dire “ciò che la legge dice”. In via traslata il
termine definisce l’attività, solitamente dei megastrati ordinari, tesa
all’applicazione della norma giuridica al caso concreto. Insomma spetta ai
giudici capire “cosa la legge dice” e applicarla. A conti fatti tale attività
si traduce in un procedimento distinto in più fasi che ha come obbiettivo
l’emanazione di una sentenza, cioè l’attività principale della magistratura
giudicante. Bisogna notare che l’articolo 111 è stato ampliato dalla riforma
costituzionale del 23 novembre 1999. Questa ha iscritto nella nostra
costituzione i primi cinque commi dell’articolo 111, che era molto più breve
quando fu votato dalla Assemblea Costituente nel 1947. Il comma uno, come
abbiamo detto originariamente assente, introduce il concetto di giusto processo.
Cosa vuol dire? Che ogni cittadino ha il diritto di rispondere delle proprie
azioni davanti alla legge con garanzie ben precise. La prima è enunciata dal
secondo comma. Consiste nel diritto al contraddittorio. Le parti hanno la
possibilità di stare davanti a un giudice imparziale ed esporre le proprie tesi
in condizione di assoluta parità, il giudice inquirente è equiparato alla parte
imputata, le sue tesi sono importanti esattamente come quelle esposte
dall’imputato, il Pubblico Ministero non è posto in una posizione di
superiorità rispetto alle altre parti. Altro concetto importantissimo è il
diritto di chi affronta una causa ad avere una sentenza in tempi brevi. La
costituzione impone che i tempi processuali siano celeri, cosa che purtroppo
avviene raramente nella quotidianità giudiziaria. Bisogna notare che spesse
volte la brevità del processo non aiuta l’imputato. La prescrizione dei reati,
cioè la cessazione del processo quando i suoi tempi si protraggono allungo, è
un’arma fondamentale per la difesa. Forza
Italia e Lega, quando sono state al governo, hanno speso tutte le loro energie
politiche per fare in modo che chi ha commesso illeciti finanziari e fiscali
fosse difeso dalla legge con l’introduzioni di metodi giurisdizionali
farraginosi che impedissero di arrivare a sentenza vertenze in materia
finanziaria. Matteo Salvini ha voluto alla seconda carica dello stato, la
presidenza del senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, colei che da
sottosegretario alla giustizia ha fatto in modo che i processi contro l’ex
presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, fossero intralciati. La stampa
l’ha chiamata la “zia di Moubarak”, per il suo ruolo importantissimo nella
vicenda processuale che vedeva coinvolti Berlusconi e la giovane di origine
marocchina Rouby Rubacuori. Per il suo impegno in questo ambito lega, M5S e
Forza Italia l’hanno eletta presidente del senato.
In realtà il fine dell’articolo 111 non è quella di
difendere gli interessi personali di Silvio Berlusconi, almeno non dovrebbe
esserlo. La teleologica dell’articolo è quello di garantire a tutti un processo
trasparente. Le parti, sia gli imputati che le parti civili, devono essere
adeguatamente informate delle fasi di preparazione al processo. Chi è imputato
deve essere informato riservatamente delle ragioni dell’accusa elevata a suo
carico, come dice il terzo comma dell’articolo 111. Questo per evitare la
cosiddetta gogna mediatica, dovuta alle illazioni scaturite sul caso. È
necessario che l’imputato sia messo nelle condizioni di preparare una difesa
adeguata. Per farlo può e deve controinterrogare i testi dell’accusa e
introdurre testi a proprio favore, ovviamente coadiuvato e guidato da un
avvocato difensore. Può portare a suo favore ogni tipo di prova, che ovviamente
sarà messa al vaglio della corte, al pari di quelle dell’accusa. Se il processo
si tiene in una lingua che non conosce o che non padroneggia efficacemente ha
diritto ad un interprete. Questo diritto, sacrosanto, non vale solo per gli
stranieri, pensiamo ad un cittadino italiano e di lingua italiana che affronta
un processo in Alto Adige, in cui la lingua ufficiale del tribunale è il
tedesco. Oppure pensiamo ad un Altoatesino, di lingua tedesca, che affronta un
processo davanti a un tribunale che si esprime in italiano. Anche in questi
casi è un diritto della difesa e in generale di tutte le parti processuali ad
avere un interprete gratuitamente.
Il quarto comma dell’articolo 111 impone che in un’azione
giurisdizionale ci sia sempre un contradditorio. Le prove, per diventare strumento
processuale, devono essere presentate a tutte le parti processuali e dibattute
in fase preliminare. Questo per un principio di trasparenza. Le parti devono
sapere quali siano le “armi” della controparte. Ma non solo per questo, anche
per dare una opportunità di analizzare compiutamente le prove della parte
avversa e confutarle. Le prove non possono essere ammesse se chi le produce, o
attraverso oggetti o attraverso dichiarazioni, si rifiuta di sottostare al
controinterrogatorio della parte avversa, dell’imputato. Insomma la prova si fa
solo attraverso il dibattimento. Questa è un’innovazione profonda. Per
diventare prova processuale è indispensabile che il fatto probante sia discusso
in un dibattimento pubblico da tutte le parti. Prima non era così, il Pubblico
Ministero poteva limitarsi a presentare agli atti le dichiarazioni o le prove
contro il reo. Una novità fondamentale che serve a garantire chi è sotto
processo e a rendere più trasparente il procedimento. La riforma del 1999 ha
cambiato profondamente l’iter processuale, trasformando ancor di più il nostro
processo da una procedura di atti scritti a un dibattito dialogico. Insomma le
prove e gli atti processuali diventano vivi strumenti processuali solo se
dibattuti. Giuseppe Chiovenda, illustre giurista della prima metà degli anni
’20 del XX secolo, si è battuto tutta la vita per rendere il processo un atto
verbale che si svolgesse quasi interamente nell’ambito del dibattimento. La
riforma dell’articolo 111 sembra un tributo alla sua opera e al suo impegno
giuridico da fine proceduralista civile.
Il quinto comma regolamenta i casi in cui la prova non può
essere acquisita in dibattimento. Come abbiamo detto l’acquisizione dell’atto
in un confronto dialettico processuale è la regola. Ci possono essere eccezioni
dovute a cause di forza maggiore. In primis la legge ammette che una prova non
acquisita in dibattimento vada agli atti processuali se c’è il consenso
dell’imputato. Poi ammette che venga messa agli atti in caso di accertata
impossibilità. Pensiamo al caso di un teste che abbia dichiarato e messo a
verbale la sua deposizione nella fase preliminare del processo, ma che durante
il dibattimento sia venuto a mancare. In questo caso la sua testimonianza, se
adeguatamente registrata e protocollata, può entrare negli atti processuali. Lo
stesso vale per colui che è in stato di grave malattia o che abbia abbandonato
il nostro paese e che non possa, per ragioni indifferibili, presenziare al
processo. Pensiamo ai testimoni dei processi per mafia, la cui presenza in aula
può essere pericolosa per la loro stessa incolumità fisica. Comunque le
eccezioni alla regola della formazione delle prove attraverso il
contraddittorio devono essere previste per legge. Non è il magistrato o la
corte a decidere quale sia l’eccezione, ma è una norma dello stato. Il
magistrato si deve limitare ad appurare se nel caso specifico di cui tratta sia
incorso in un’eccezione prevista da legge e solo in quel caso può, e deve,
ammettere la prova non scaturita da dibattito. Importantissimo notare che la
condotta delittuosa volta ad impedire la produzione della prova in processo è
motivo per imporre al giudice di ammetterla fra gli atti. Se si minaccia un
teste, ad esempio, la sua testimonianza è considerata prova anche se la depone
fuori dal dibattimento processuale. Questo è voluto per combattere le
intimidazioni mafiose che sono un cancro sociale. La mafia e le organizzazioni
criminali in generale fanno del terrore uno strumento di potere.
L’intimidazione è il loro pane quotidiano. Per combatterle urge che chi ha il
coraggio di far sentire la sua voce contro questi criminali sia protetto e
difeso, per questo motivo la Costituzione ammette esplicitamente che una prova
sia ammissibile se non può essere presentata in dibattimento a causa di una
condotta illecita. Chi commette un crimine, chi uccide ad esempio un teste
oppure distrugge una prova oppure intimidisce, non può avere sconti giudiziari.
Il suo atto illecito non deve essere premiato con l’espulsione della prova
contro di lui in un processo penale. Anzi deve essere ulteriormente punito per
aver tentato di corrompere e di alterare una prova.
Il sesto comma era il primo comma dell’articolo 111 prima
della riforma costituzionale del 1999. Dice un concetto semplicissimo e
importantissimo. Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati.
Che vuol dire? Qualsiasi provvedimento del tribunale deve avere una
motivazione, una ragione d’essere. Le indagini preliminari, la prima fase
processuale, deve svolgersi perché vi sono evidenti indizi che giustificano un
avvio d’inchiesta. Le richieste di arresto, perquisizione o altro, gravissime
limitazione alla libertà personale dell’individuo, devono essere motivate e
firmate dal Giudice delle indagini preliminari. La sentenza stessa di un processo
deve essere motivata attraverso un dettagliato resoconto delle sue motivazioni,
che spesso è fatto da fascicoli di molte pagine, migliaia per i processi più
complessi. Insomma ogni atto della magistratura deve essere ragionato e questo
ragionamento deve essere scritto e protocollato e ovviamente devono essere
messe a verbale quale siano le norme di legge applicate. L’incipit di una
sentenza può essere: in nome della legge in virtù dell’articolo.. del codice..
si sentenzia.. Insomma le motivazioni sono la carne e il sangue di un atto
giudiziario. Nessuno deve essere come K. Il personaggio de “Il processo” di
Franz Kafka che viene imputato, giudicato e condannato a morte senza sapere il
motivo. Nessuno deve vivere nell’anonimato e nell’abbandono un momento spesso
tragico della vita quale può essere un procedimento giudiziario a suo carico.
La Costituzione garantisce a tutti la pubblicità degli atti. Tutti devono
sapere cosa succede. Un imputato deve sapere quali sono gli atti d’accusa a suo
carico, questo vale per tutti. Anche per Abu Omar, l’imman di Milano che il
governo Berlusconi consegno senza alcun processo ed atto formale alle forze
americane di repressione al terrorismo. La legalità, la certezza del diritto,
il diritto alla difesa sono capisaldi dell’ordinamento democratico. Non possono
e non devono essere in discussione, tanto meno per motivi razziali come nel
caso di Abu Omar.
Contro ogni provvedimento restrittivo della libertà
personale si può fare ricorso in Cassazione. Lo dice il comma 7 dell’articolo
111 della Costituzione. La libertà personale è sacra, è inviolabile, sancisce
l’articolo 13 della nostra legge fondamentale. Nessuno può essere imprigionato
se non per motivi tassativamente previsti dal codice penale. Si può fare
ricorso alle sentenze che privano della libertà sempre e comunque davanti alla
Corte di Cassazione che sarà chiamata ad appurare se vi siano le ragioni
giuridiche, di legge, che giustificano un così grave provvedimento della
magistratura. Si può ricorrere sia in caso di fermo e arresto preventivo, cioè
durante le fasi istruttorie del processo, sia in caso di sentenza definitiva se
si considera incongrua la pena dell’arresto come applicazione della sentenza,
oppure si ritiene, cosa ben più frequente, che vi siano motivazioni di salute
del reo, oppure altri motivi, che inducano a non applicare nel caso specifico
la detenzione. Urge notare che qualsiasi siano le ragioni per cui si chiede la
scarcerazione del reo, devono essere tassativamente previste da una legge, che
secondo la difesa non sarebbe stata contemplata dal provvedimento restrittivo.
Infatti la Corte di cassazione, in questi casi come in tutte le questioni nelle
quali è chiamata a giudicare, deve appurare solo e unicamente se vi sia stata
una violazione di legge nelle applicazioni di legge, non deve valutare e
giudicare ulteriormente le prove giudiziali già passate al vagli dei giudici di
primo e secondo grado. Deroghe all’appellarsi alla corte possono essere
previste solo in caso di guerra. Le leggi speciali introdotte durante un
eventuale conflitto possono esclude l’appellarsi ai provvedimenti restrittivi
operati dai tribunali militari.
È d’obbligo sottolineare che l’ultimo comma dell’articolo
111 esclude la competenza della Corte di Cassazione sul giudizio di merito del
Consiglio di Stato e della Corte di Cassazione. Ricordiamo che l’uno è l’organo
giudicante che annulla e censura gli atti amministrativi. L’atro è l’organo che
punisce i comportamenti antieconomici e contrari al principio di oculata
gestione finanziaria degli enti pubblici. Questi due organi sono considerati
già giudici di ultima istanza per le materie di loro competenza, la corte di
cassazione non può e non deve giudicare se applicano o no correttamente la
legge, spetta alla loro competenza utilizzare la saggezza e la scienza
necessaria per utilizzare correttamente le norme. La Corte di Cassazione può
intervenire solo nell’importantissimo caso in cui le due alte corti dello stato
operino al di fuori della loro giurisdizione. Se giudicano materie che esulano
dalle loro competenze indicate tassativamente dalla Costituzione e dalle norme
dello stato. Solo in quel caso la Corte di cassazione, con sentenza, toglie il
processo dalle loro mani ed eventualmente l’affida al tribunale competente.
L’articolo 111 è l’architrave del nostro sistema
giudiziario. Delinea il funzionamento e la vita di tutti i processi. Ne
delimita gli ambiti. Mette importanti paletti all’azione dei giudici. Indica le
fasi processuali che saranno compiutamente normate dai vari codici di procedura
penale, civile, amministrativa etc. insomma è un punto di riferimento di
legalità. È la garanzia che il cittadino non deve essere schiacciato dalla
macchina burocratica dello stato. Il cittadino, imputato o parte civile, ha dei
propri diritti inalienabili che deve far valere davanti al tribunale. Ha
diritto a un giusto processo, che vuol dire che non deve soccombere davanti
alle logiche prevaricanti della burocrazia. La difesa dei più deboli, dei meno
attrezzati a difendersi dagli strali della vita, parte anche da una
magistratura sensibile ai bisogni della gente. La libertà deve essere sentita
anche nei processi. La giustizia, bene ultimo e assoluto a cui le aule dei
tribunali devono tendere, si raggiunge con la strenua difesa delle garanzie di
tutti e della dignità umana. Nessuno deve essere umiliato, anche se in
cattività, anche se è indagato è innanzitutto
un essere umano.
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