giovedì 31 maggio 2018

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: VI DISPOSIZIONE TRANSITORIA E FINALE



VI. DISPOSIZIONE TRANSITORIA E FINALE

“Entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione si procede alla revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti, salvo le giurisdizioni del Consiglio di Stato, della Corte dei conti e dei tribunali militari.

Entro un anno dalla stessa data si provvede con legge al riordinamento del Tribunale superiore militare in relazione all’articolo 111.”

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.

Le disposizioni transitorie e finale, scritte all’epilogo della Carta Costituzionale, avevano il compito di disciplinare il passaggio dal regime monarchico a quello repubblicano. Ambito delicatissimo era la giurisdizione. Gli organi giurisdizionali sono lo strumento di applicazione della legge. Attraverso di essi lo stato manifesta la sua potestà. Le leggi diventano effettive quando c’è un giudice che richiama chi non le rispetta. L’articolo 102 della nostra Legge Fondamentale è chiarissimo. Esso dice: “La funzione giurisdizionale è esercitata dai magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario. Non possono essere istituiti giudici straordinari o speciali. Possono soltanto istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura”.  Alla luce di questo articolo è obbligo dello stato smantellare tutti quei tribunali speciali sorti durante il fascismo. Tribunali politici nati per controllare il pensiero delle persone, più che fermare il crimine. In realtà molti tribunali speciali sono rimasti ancora vigenti nel nostro ordinamento. Anzi se ne sono aggiunti altri, pensiamo al Tribunale Amministrativo Regionale, perno della giustizia amministrativa repubblicana. Insomma i tribunali speciali esistono, rimangono lo strumento per gestire delicate materie. Faccio l’esempio del “tribunale delle acquee” che ha il delicatissimo compito di regolamentare e di censurare l’utilizzo sbagliato di un bene preziosissimo quali le nostre risorse idriche. Tali tribunali speciali restano anche nella nostra repubblica. Quello che cambia rispetto al regime monarchico è che anch’essi, come i tribunali ordinari, devono essere “terzi”, cioè al momento in cui esercitalo la funzione giudiziale devono essere indipendenti dal potere esecutivo. Ecco perché, ad esempio, anche i tribunali amministrativi hanno un organo di autogoverno, che svolge le stesse funzioni che il Consiglio Superiore della Magistratura esercita per i giudici ordinari. È l’organo di autogoverno amministrativo che decreta i trasferimenti dei magistrati, su loro richiesta o per motivi di gravi incompatibilità ambientale. Insomma la magistratura speciale è ordinamentata sullo stesso modello della magistratura ordinaria. Non vi può essere ingerenza della politica. Il Consiglio di Stato, ad esempio, è la massima assise del tribunale amministrativo. Ha la doppia funzione di servire l’esecutivo, offrendogli suggerimenti e ammonimenti su come governare la macchina statale, ma allo stesso tempo ha il delicatissimo compito di essere massimo giudice e ultimo appello  nelle vertenze giudiziarie che vertono di questioni amministrative. Il suo duplice ruolo impone che sia conforme al principio di imparzialità e di autonomia da ogni fonte di influenza politica. Insomma tutti i tribunali speciali che ancora vigono nel nostro paese, compresa la corte dei conti, che si occupa di censurare un illecito o inadeguato utilizzo delle risorse finanziarie pubbliche, devono essere indipendenti da ogni altro potere dello stato. Devono essere assolutamente scevri da ogni tipo di influenza parlamentare. Bisogna che sia debellata la prassi monarchica di un potere giudiziario prono al potere del re, o meglio del presidente del consiglio. L’articolo VI delle disposizioni transitorie impone un tempo di cinque anni dal 1948, anno di entrata in vigore della Costituzione, per riformare radicalmente l’ordinamento giudiziario. Questa operazione di altra politica dello stato è stata compiuta, anche se con grosse difficoltà. Pian piano sono stati rimossi gli uffici di collegamento fra politica e magistratura, non solo grazie all’intervento del legislatore, ma anche grazie alle sentenze della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale che hanno smantellato molti orpelli giuridici incompatibili con la costituzione, rendendole inapplicabili (la corte di cassazione) è incostituzionali, quindi espellendole dall’ordinamento( la Corte Costituzionale).
Il secondo comma di questa disposizione transitoria si occupa dei tribunali militari. Impone che ci sia una radicale riforma dell’ordinamento giudiziario militare al fine di garantire che si rispetti l’articolo 111 della costituzione che impone che anche nei tribunali militari siano garantiti i diritti dell’imputato. Questo vuol dire che devono essere garantiti i diritti di difesa, il diritto alla terzietà del giudice chiamato a giudicare, rispetto alla accusa. Il tribunale militare deve ricalcare i principi di giustizia propri di quello civile. Anche sotto le armi i valori della Costituzione e i principi di libertà devono valere. Una serie di riforme negli anni hanno compiuto questo passo di avvicinamento del tribunale militare a quello ordinario. Un gesto importantissimo, sia simbolicamente sia per i suoi risvolti pratici, è la cancellazione della pena di morte anche come pena in caso di guerra. Originariamente prevista e definitivamente cancellata con norma costituzionale. Insomma tutti i tribunali, anche quello militare, devono essere orientati alla difesa della dignità della persona. Devono essere improntati al rispetto dei valori fondanti che la Costituzione Italiana fa propri. Nessun cittadino, nessuna persona, può essere oggetto di soprusi in un sistema giudiziale e penale oppressivo. Alla luce di questo bisogna tenere in gran conto lo sforzo di garantire i diritti della persona anche all’interno delle carceri. Il condannato, il recluso, è un essere umano, anche se sta scontando una pena. Bisogna ricordare che la colpa deve essere espiata, ma non può essere celata l’umanità che caratterizza ogni persona, anche quella chiamata ad espiare un torto contro l’intera società.

martedì 29 maggio 2018

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: QUINTA DISPOSIZIONE TRANSITORIA E FINALE



QUINTA DISPOSIZIONE TRANSITORIA E FINALE

“La disposizione dell’articolo 80 della Costituzione, per quanto concerne i trattati internazionali che impongono oneri alle finanze o modificazioni di legge, ha effetto dalla data di convocazione delle Camere”

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.

Le disposizioni transitorie e finali sono state approvate dalla Assemblea Costituente per regolare il passaggio fra il regime monarchico e quello repubblicano. La loro funzione era anche quella di superare l’epoca tragica della seconda guerra mondiale. Durante il grande conflitto le istituzioni hanno di fatto smesso di funzionare. Le assemblee legislative, già depauperate durante il fascismo con le leggi “fascistissime” del 1928, con l’armistizio del 1943 e la conseguente crisi politica, furono sciolte. Il governo, l’esecutivo, legiferava attraverso decreti. Il Governo Monarchico, fatto decadere Benito Mussolini dalla carica di Presidente del Consiglio, dovette affrontare una crisi gravissima. L’Italia era occupata dalle truppe tedesche al Nord e dall’esercito statunitense al Sud. L’Italia di fatto era sottomessa al potere militare straniero. L’esecutivo, che nel 1943, caduto Mussolini, era guidato dal generale Pietro Badoglio, aveva anche il potere di sottoscrivere accordi internazionali senza bisogno di ratifica da parte del parlamento, di fatto disciolto. La stessa prassi assunsero i governi successivi. I governi di Ivanoe Bonomi, Ferruccio Parri e Alcide De Gasperi, che si sono succeduti l’uno all’altro fino all’insediamento delle Camere a seguito delle elezioni del 18 aprile 1948, avevano la potestà di sottoscrivere trattati internazionali senza l’autorizzazione delle Camere, come invece prescrive l’articolo 80 della Costituzione. L’Assemblea Costituente stessa, che rappresentava la nazione ed era l’espressione della volontà popolare manifestata con il voto del 2 giugno 1946, non aveva potere in materia di trattati internazionali. I governi informavano e dialogavano con l’assise costituente in tali materie, sentivano il suo parere, ma alla fine i trattati si stipulavano senza un formale coinvolgimento del potere rappresentativo. Con la promulgazione della Costituzione questo non poteva essere più. L’articolo 80, come abbiamo detto, impone che il paralamento sia coinvolto attraverso, un suo voto necessario e vincolante, nelle questioni internazionali che vertono su arbitrati, regolamenti giudiziari, importano variazioni del territorio ed oneri alle finanze oltre a modificazioni di legge. Insomma la stipula dei trattati internazionali è formalmente atto presidenziale (è il capo dello stato che firma l’accordo ed è un suo atto, il decreto del presidente, che lo fa entrare in vigore nella nostra repubblica), sostanzialmente atto governativo (perché è tale organo dello stato a trattare con gli stati stranieri), ma non può esistere senza la previa autorizzazione delle Camere. Ma tale modello costituzionale può valere in un contesto di piena applicazione della Costituzione. Prima dell’insediamento della prima legislatura repubblicana il raccordo esecutivo parlamento non era possibile. La quinta disposizione transitoria e finale da un lato specifica che al momento della nascita della prima legislatura repubblicana l’articolo 80 della Costituzione è vincolante. Dall’otto maggio 1948, data dell’insediamento del primo parlamento repubblicano, nessun accordo internazionale di una delle fattispecie elencate dall’articolo 80 della nostra Carta Fondamentale, potrà mai essere ratificato senza il preventivo intervento di camera e senato attraverso due voti di espressa approvazione del contenuto della norma internazionale che l’Italia sarà chiamata a sottoscrivere. Dall’altra, però, convalida trattati che l’Italia ha stipulato nell’arco di tempo 1943 – 1948 senza che fosse intercorso un voto parlamentare. “Pacta sunt servanda” è il brocardo latino, il motto giurisprudenziale di antica saggezza, che regolamenta il diritto internazionale. Ciò che una nazione ha accettato come regolamento internazionale, non può essere ridiscusso successivamente e messo in discussione dalla stessa, anche se sono cambiati i soggetti politici che regolamentano i poteri dello stato. La Costituzione impone il coinvolgimento del Parlamento nelle decisioni internazionali, ma attraverso la quinta disposizione transitoria e finale istituzionalizza e rende parti effettivi dell’ordinamento italiano quegli accordi internazionali precedente al 1948 stipulati senza il coinvolgimento delle assemblee rappresentative.

DUELLO COSTITUZIONALE


CHI HA RAGIONE?
Come scrive Temistocle Martines nel suo manuale di Diritto costituzionale, la Costituzione è laconica nel descrivere le modalità di nomina del presidente del consiglio e dei ministri. L'articolo 92, secondo comma, si limita a dire: il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i ministri. Allora proviamo a riassumere il pensiero di Martines. Primo appare chiaro che la nomina del presidente del consiglio è prerogativa del Presidente della Repubblica. Secondo, però, è lampante che la nomina dei ministri, pur essendo anch'essa attribuita al primo cittadino della Repubblica, deve avvenire su proposta del presidente del Consiglio. Il Martines arriva ad affermare che il presidente della Repubblica non ha alcun margine di discrezionalità nella scelta dei ministri. Secondo il giurista, quindi, la proposta del Presidente del Consiglio è vincolante, non ammette alcuna ingerenza da parte del Quirinale. Alla luce di tale elaborazione dottrinaria l'azione di Sergio Mattarella è, non solo arbitraria, ma anche incostituzionale. Livio Paladin, altro illustre costituzionalista, è anch'esso dell'idea che la lista dei ministri fornita al capo dello stato da parte del Presidente del Consiglio incaricato è vincolante. Il compito del Presidente della Repubblica è costatare che il governo abbia chance di avere la fiducia delle Camere. Se questa premessa c'è, è dovere del Quirinale farlo giurare e quindi renderlo nel pieno delle funzioni. Mattarella ha fatto l'esatto opposto. Ha costatato che il governo presieduto dal giurista Giuseppe Conte aveva la maggioranza sia alla Camera che al Senato, grazie alla alleanza fra Lega e Movimento Cinque Stelle, eppure si è rifiutato di nominare al ministero dell'economia Paolo Savona, noto economista antieuro. Cioè ha sindacato sulla nomina dei dicasteri. A tale presa di posizione il segretario della Lega, Matteo Salvini, è insorto. "O lui, o nessuno" ha detto. Se il governo Conte non avrà Savona come ministro, non nascerà. Così è successo! Mattarella ha dovuto registrare la rinuncia a formare il governo da parte di Giuseppe Conte, ed ha assegnato l'ingrato compito a Carlo Cottarelli. Ma per capire il perché di questa crisi istituzionale forse basta vedere quali siano le personalità di Savona e Cottarelli. L'uno sostenitore della spesa pubblica e l'altro dei tagli, agli sprechi dice. L'uno sostenitore della lotta alla Ue, l'altro sostenitore di una riforma della Pubblica Amministrazione che tagli i rami improduttivi. Insomma Savona persegue un'idea di economia politica volta ad aumentare la spesa pubblica, fumo negli occhi per l'Unione Europea che vorrebbe al contrario un taglio. Cottarelli vorrebbe diminuirla. Obbiettivo, bisogna dire, arduo. Mattarella è in mezzo. Legato dall'articolo 11 e dell'articolo 117 della Costituzione che impongono di rispettare i parametri finanziari della UE, perché frutto di trattati internazionali. Ma allo stesso tempo vincolato da una maggioranza parlamentare che vorrebbe rompere con quel che la stampa chiama "rigore" e che oggettivamente tanto dolore e impoverimento ha portato al paese in questi decenni. Fra il rispetto rigoroso dei trattati e la scelta di dare il via a un governo antieuropeo, Mattarella ha compiuto la prima scelta. Alcuni giuristi si sono strappati le vesti, forse a ragione, dichiarando che così si tradisce la sovranità popolare. Altri hanno applaudito Mattarella per la sua coerenza e il suo rigore. Bisogna osservare che l'atto di Mattarella è comunque senza precedenti. Per un nome, per una poltrona, si è fatto saltare un governo che aveva una maggioranza solida in Parlamento. Si è svolto un duello a fior di prassi e consuetudini costituzionali, che rischia di avere come vittima l'intero popolo italiano. Cottarelli sarà pur un economista degno di stima, ma non ha la maggioranza parlamentare per formare il governo. La responsabilità di questo caos è da attribuire a tutti i soggetti della vicenda che non hanno saputo trovare un compromesso che garantisse la formazione di un governo legittimato dalla maggioranza del parlamento e della cittadinanza e che allo stesso tempo garantisse gli accordi internazionali presi dall'Italia. Ancora una volta la politica italiana appare imbelle ed incapace. Peccato che questi appellativi, non certo edificanti, lambiscano anche le sale del Quirinale.

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: TERZA DISPOSIZIONE FINALE E TRANSITORIA


TERZA DISPOSIZIONE TRANSITORIA E FINALE
“Per la prima composizione del Senato della Repubblica sono nominati senatori, con decreto del Presidente della Repubblica, i deputati dell’Assemblea Costituente che posseggono i requisiti di legge per essere senatori e che:
sono stati presidenti del Consiglio dei Ministri e di Assemblee legislative;
hanno fatto parte del disciolto Senato;
hanno avuto almeno tre elezioni, compresa quella dell’Assemblea costituente.
sono stati dichiarati decaduti nella seduta della Camera dei deputati del 9 novembre 1926;
hanno scontato la pena della reclusione non inferiore a cinque anni in seguito a condanna del tribunale speciale fascista per la difesa dello Stato.
Sono nominati altresì senatori con decreto del Presidente della Repubblica, i membri del disciolto Senato che hanno fatto parte della Consulta Nazionale.
Al diritto di essere nominati senatori si può rinunciare prima della firma del decreto di nomina. L’accettazione della candidatura alle elezioni politiche implica rinuncia al diritto di nomina a senatore.”
Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.
Le disposizioni transitorie e finali sono diciassette articoli, approvati dell’assemblea costituente il 1947, che hanno la funzione di regolamentare il passaggio dal regime monarchico a quello repubblicano. Sono norme importantissime. Norme che hanno permesso di garantire la continuità istituzionale dello stato, anche in un periodo di grande rottura costituzionale. È bene ricordare che la nascita della Costituzione e l’esito del Referendum del 2 giugno 1946 segnavano il mutamento della forma di Stato. L’Italia da monarchia diventava Repubblica. Le disposizioni transitorie indicano la via per compiere questo guado istituzionale. In quest’ottica l’articolo terzo delle disposizioni transitorie e finali determina la composizione del primo senato repubblicano. Bisogna dire che la maggior parte dei senatori saranno eletti direttamente dal popolo alle consultazioni elettorali del 18 aprile 1948. Solo alcuni illustri personaggi, per il loro impegno antifascista e per la loro emerita attività politica nella prima parte del XX secolo, hanno avuto il privilegio di sedere sugli scranni del senato nella prima legislatura di diritto. Sono in realtà una decina. Sono persone che hanno svolto un ruolo centrale nel passaggio, tragico, della guerra in cui l’Italia scelse di stare al fianco degli americani nella lotta contro il fascismo. Ricordiamo Ivanoe Bonomi, ultimo presidente del consiglio prima del fatidico colpo di stato voluto da Mussolini. Sono state nominate senatori persone che hanno visto la prigione fascista e l’esilio. Insomma tutti coloro che furono protagonisti nella lotta all’antifascismo, ricoprendo cariche istituzionali, ebbero il diritto di essere componenti del primo senato della storia repubblicana. Per garantire la continuità storica dello stato i padri costituenti hanno voluto che illustri personalità,che sono stati protagonisti della storia della Monarchia, fossero partecipi della costruzione dello stato Repubblicano. Ancora una volta lo spirito di conciliazione, la voglia di superamento dello scontro fra le parti, prevalse. Uno spirito "bipartizan" che dovrebbe essere preso d'esempio ancor oggi. La Repubblica nasceva antifascista. Era inevitabile che ciò avvenisse, il regima di Mussolini aveva prodotto la catastrofe della seconda guerra mondiale, aveva ridotto le libertà delle persone, aveva imprigionato oppositori politici. Allo stesso tempo, però, la Repubblica aveva a cuore di acquisire, come prezioso bagaglio ideale, quella cultura liberale che aveva caratterizzato la prima fase della storia unitaria della nostra penisola. Ecco perché si è voluto che coloro che scelsero il cosiddetto "Aventino", coloro che abbandonarono il Parlamento quando il regime fascista vilmente uccise Giacomo Matteotti, diventassero di diritto senatori della Repubblica. Il loro impegno civile, il loro rimanere legati ai valori di giustizia e democrazia, li spinsero a sfidare Benito Mussolini, nonostante il fascismo si fosse dimostrato capace di uccidere chi a lui si opponesse. Insomma la terza disposizione transitoria è la manifestazione della volontà di riallacciare i nodi politici e costituzionali, per poter superare definitivamente le nefandezze del fascismo.Coloro che avevano subito l'onta di essere giudicati dal tribunale politico fascista avevano anch'essi diritto a diventare senatori. Chi durante la dittatura di Mussolini era stato processato e messo al confino per aver detto ciò che pensava, durante la Repubblica era chiamato a professare le proprie convinzioni nelle aule del Senato contribuendo a costruire l'era nuova della democrazia. Il tributo va a persone come Altiero Spinelli, che durante il fascismo erano stati costretti a vivere, reclusi, nell'isola di Ventotene. Persone che seppero vivere la prigionia come un momento per elaborare idee e pensieri utili a rendere forti e vitali i valori di libertà e democrazia. Insomma la terza disposizione transitoria, che rende senatori persone illustri, è l'epifania dello spirito di rinascita morale, sociale e culturale che ha animato i padri costituenti. La storia non si cancella, il passato generosamente si fa strumento per costruire il presente e progettare il futuro. Non è un caso che furono nominati senatori anche i membri della Consulta Nazionale. Un organismo, prezioso e forse poco conosciuto, che ha assunto il ruolo di coadiutore nei confronti dei governi di guerra che dopo l'otto settembre del 1943 cercavano di dirigere un'Italia ancora nel pieno di un conflitto ricco di lutti e di dolori ed occupata dal nazismo. Quell'assemblea, composta da membri dei partiti antifascisti e da illustri personalità nominate dal re (su indicazione dell'esecutivo), è stata al fianco del Comitato di Liberazione Nazionale nella lotta partigiana. Ha avuto un ruolo chiave nel riportare libertà e democrazia in un paese che aveva conosciuto vent'anni di dittatura. Certo la Consulta Nazionale ha avuto un ruolo di mero organo di consiglio. I decreti e gli atti aventi forza di legge erano voluti ed emanati dal governo. Tutti gli organi parlamentari del passato non esistevano più, depauperati e svuotati dalla barbarie fascista. Ma bisogna dare il merito alla Consulta Nazionale e ai suoi membri di aver riportato la dinamica democratica all'interno di un paese prostrato dalla guerra. All'interno della Consulta Nazionale ricominciò la palestra della democrazia parlamentare. Si cominciarono a delineare i ruoli e le idee dei partiti che caratterizzarono i primi vagiti della Repubblica, che riportarono la "normalità" democratica in un paese segnato da un potere dispotico. Insomma riassumiamo erano senatori di diritto nella prima legislatura repubblicana: coloro che erano stati presidenti del consiglio dei ministri o di assemblee legislative, coloro che avevano fatto parte del disciolto senato, coloro che erano stati eletti almeno tre colte come deputati; coloro che avevano scelto di opporsi al sopruso fascista abbandonando le camere il 9 novembre 1926, all'indomani dell'omicidio Matteotti, coloro che avevano scontato una condanna di almeno cinque anni per ragioni politiche di avversità al fascismo. Qui il pensiero è a Silvio Berlusconi, Sandro Pertini era considerato un martire perché imprigionato durante il ventennio per le sue idee, Berlusconi è considerato un martire da chi vota Lega e Forza Italia perché condannato dalla Repubblica per evasione fiscale. Matteo Salvini, alla notizia che la sua condanna del Cavaliere era estinta, ha dichiarato: si è messo fine a un'ingiustizia. Il pensiero va alla costatazione di come cambia il modo di pensare. Nel 1945 si pensava che lo stato che nega la libertà di pensiero commettesse ingiustizia, oggi si pensa che sia la guardia di finanza, che persegue Berlusconi e gli evasori fiscali come lui, a commettere un'ingiustizia. Forse la lega e forza italia porranno che gli evasori fiscali diventino senatori di diritto, imitando l'assemblea costituente che invece volle che lo fossero i prigionieri politici del fascismo.A conclusione bisogna ricordare che molti dei martiri della patria che avrebbero avuto diritto ad essere nominati senatori, fra cui molti partigiani come Sandro Pertini, scelsero l'agone elettorale, scelsero di presentarsi ai cittadini e chiedere il loro voto. Ricordiamo anche per questa sua scelta Tina Anselmi, eroica staffetta partigiana, e protagonista indiscussa della Repubblica che verrà. Insomma è bene commemorare coloro che si distinsero per il loro coraggio in guerra, contro il fascismo, e in pace per la loro cocciuta decisione di portare avanti le proprie idee e i propri valori e rendere questi vivi e operanti nelle aule parlamentari e nelle piazze, davanti alla gente.

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: IV DISPOSIZIONE TRANSITORIA E FINALE


IV DISPOSIZIONE TRANSITORIA E FINALE

“Per la prima elezione del Senato il Molise è considerato come Regione a sé stante, con il numero dei senatori che gli compete in base alla sua popolazione”.

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.

Le disposizioni transitorie e finali della Costituzione Italiana sono diciotto. Sono norme che facilitano l’attuazione della nostra Carta Fondamentale. Contengono norme imperiture, che probabilmente varranno per l’intera storia Repubblicana. Come ad esempio la XIV disposizione che dichiara che i titoli nobiliari non sono riconosciuti. Ci sono invece norme che sono durate per quel breve o lungo, a seconda dei casi, lasso di tempo in cui era opportuno supplire a un vuoto normativo. È il caso della IV disposizione. È stata effettiva ed efficace fino alla riforma costituzionale del 27 dicembre 1963, che inserì nell’articolo 131 della Costituzione il Molise quale Regione della Repubblica, tale territorio era stata fino ad allora parte integrante dell’Abruzzo.  Tale riforma era in deroga all’articolo 132 che impone che ogni nuova regione abbia un minimo di un milione d’abitanti. Il Molise all’epoca non raggiungeva tale numero di abitanti. Ciò fu possibile in forza della disposizione transitoria XI, che autorizzava per un lasso di tempo ben definito le assemblee legislative nazionali a ignorare questo divieto a formare una regione sotto al milione d’abitanti. Il Parlamento, seguendo l’iter di legge costituzionale sancito dall’articolo 138, istituì la regione Molise. La consapevolezza che il Molise avesse una tradizione storica e una morfologia geografica che la rendeva entità autonoma, spinse i padri costituenti a garantirgli anche in Senato una rappresentanza, ancor prima che nascesse come ente regionale a sé stante. Ecco il senso della IV disposizione transitoria. In forza dell’articolo 57, terzo comma, il Molise ha oggi e già aveva prima di nascere diritto a due senatori che lo rappresentassero a palazzo Madama, sede del senato. Ricordiamo che mentre la camera dei deputati vede l’elezione dei propri membri in base alla divisione del territorio in circoscrizioni, istituite in base ai dati forniti dall’ultimo censimento. Il senato elegge i propri membri su base regionale. È la Regione la circoscrizione del Senato. In teoria, quindi, il Molise, fino alla sua costituzione quale istituzione regionale, non aveva diritto a rappresentanza al senato.  I costituenti ritennero opportuno ovviare a questo, concedendo al Molise due senatori ancor prima della legge costituzionale del 27 dicembre 1963. La centralità della Regione, quale ente di autonomia territoriale, è esaltato dalla storia della nascita della Regione Molise. Un processo storico che ha visto coinvolta l’intera comunità. I cittadini di Campobasso ed Isernia, le due città capoluogo di provincia che sono i due perni urbani del Molise, si sono impegnati nella costituzione della nuova entità. Hanno impegnato le loro energie mentali e fisiche per costruire una entità territoriale nuova ed allo stesso tempo fondata su tradizioni culturali e su una storia che affondano nei millenni. In un meridione d’Italia che si affacciava con fatica alla modernità. In un contesto sociale fondato sull’agricoltura e sulla pastorizia. L’esperienza della nascita della regione Molise è una storia di emancipazione sociale e di apertura al progresso. Da allora il Molise è diventata una regione turistica con i suoi splendidi monti appenninici e con le sue stupende spiagge accarezzate dai flutti dell’Adriatico ed affollate, in estate e non solo, da villeggianti. È anche una regione industriale, con un settore manifatturiero e petrolchimico fiorente. La sua storia è un racconto di emancipazione sociale e civile. La strada che porta al progresso non finisce mai. Il Molise, come tante regioni del Sud, ha ancora tanta strada da fare. Però pensare che il cammino verso il futuro è iniziato tanti anni fa, ben settanta, ed è coinciso con la scelta dei nostri padri costituenti di dare ai molisani due sentori, quali rappresentanti del territorio, fa capire come la Storia si compia non solo attraverso atti concreti, non solo attraverso l’economia e il lavoro (pur indispensabili), ma anche con gesti che apparentemente sembrano meramente simbolici.

sabato 26 maggio 2018

GIORNATA PUGLIESE DELLA DISABILITA'




UN GIORNO SPECIALE
Come ogni anno il 24 maggio si è celebrata la Giornata Regionale pugliese del diversamente abile. Questa ricorrenza è stata istituita con legge regionale n. 24 del 1/12/2003. Sono ormai quindici anni che questa data è dedicata a un momento di riflessione sulle cose fatte e sulle cose ancora da fare per aiutare chi ha problemi di carattere fisico e psichico. E' anche un momento in cui coloro che sono affetti da disabilità raccontano se stessi e raccontano la loro esperienza in questo lungo viaggio che è la vita. Infatti le iniziative regionali del 24 maggio non sono solo un prezioso confronto dialettico su come approcciarsi al tema della disabilità, ma anche un modo per toccare con mano l'enorme creatività che queste persone speciali hanno. Nell'aula del consiglio comunale infatti si sono esibiti tenori speciali, cori eccezionali, cantori fantastici, che solo per onor di cronaca dobbiamo ricordare che sono non - vedenti, affetti d'autismo, oppure non in grado di deambulare. La loro performance è stata comunque stupefacente. A presiedere l'evento è stato il presidente del consiglio regionale, Mario Loizzo, accompagnato da alcuni rappresentanti delle varie forze politiche. A fare gli onori di casa è stato il Cavaliere Dottore Giuseppe Tulipani. Il garante della disabilità, solo poche settimane fa nominato dal Consiglio Regionale. Pino, come chiamano tutti il garante, è da sempre impegnato nella difesa dei diritti dei più deboli e nella valorizzazione delle capacità e dell'umanità delle persone speciali. Il suo intervento è stato un momento per tracciare la politica, quella moralmente e umanamente alta, della Regione Puglia. Una politica di servizio ai disabili e ai meno fortunati. Una politica che non divide, ma unisce. Una politica comune fatta di carezze ed impegno. Una politica che intende, concretamente, abbattere le barriere fisiche e culturali che ancora oggi sono presenti nella nostra Puglia. Cambiare è possibile, vivere meglio insieme la vita non è utopia. Si può costruire un futuro migliore per tutti, per i disabili, per i giovani, per gli anziani, per tutti coloro che soffrono, ma anche per tutti i cittadini. Basta crederci. Basta che il giorno della disabilità diventi ogni giorno dell'anno. Ogni minuto della nostra vita deve essere orientato al bene. Pino Tulipani ha provato a tracciare una via. Con lui garante della disabilità la Regione Puglia ha una strada da percorrere che ha come traguardo l'inclusione. Spetta a noi tutti, a noi cittadini, fare in modo di arrivare insieme a quella meta, senza che nessuno rimanga indietro

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: SECONDA DISPOSIZIONE TRANSITORIA E FINALE



SECONDA DISPOSIZIONE TRANSITORIA E FINALE

“Se alla data della elezione del Presidente della Repubblica non sono costituiti tutti i Consigli regionali, partecipano alla elezione soltanto i componenti delle due Camere”

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.

Per comprendere il senso della seconda disposizione transitoria e finale bisogna ricordare cosa prescrive l’articolo 83 della Costituzione. I primi due comma di tale articolo dicono: Il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri. / All’elezione partecipano tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze. La Valle d’Aosta ha un solo delegato”. Alla luce di ciò appare chiaro che i rappresentanti dei consigli regionali sono elettori del presidente della repubblica. In realtà fino al 1970, anno di costituzione dell’ordinamento regionale ordinario, le Regioni non avevano una forma di autogoverno. I decreti delegati del 1970, in cui furono trasferiti i poteri amministrativi alle regione in forza di ciò che indicava il titolo V della Costituzione. In base a ciò si istituì il Consiglio Regionale. Solo da allora è stato possibile che si designassero i delegati regionali. Quindi con la nascita delle regioni a statuto ordinario questa norma transitoria ha perso efficacia. Tale norma autorizzava il solo parlamento in seduta comune ad eleggere il presidente della Repubblica. Tale regola ha avuto effetto fin quando le regioni a statuto ordinario non sono entrate nel pieno delle loro funzioni.  È bene sottolineare che la Repubblica ci ha messo più di vent’anni per rendere effettivo un’istituzione, quale quella Regionale, che è una dei capisaldi del nostro ordinamento. Questo ritardo storico ha avuto conseguenze rilevanti, non certo per la mancata designazione dei delegati regionali alla elezione del presidente della Repubblica, visto l’esiguo numero di tali rappresentanti, una quarantina scarsa, poca cosa rispetto ai mille componenti del Parlamento. Ha avuto conseguenze nel mancato avvio delle istituzioni locali che dovevano avere un profondo legame con la cittadinanza. Le Regioni dovevano essere il cuore della rinascita repubblicana, per questo motivo i Costituenti hanno voluto che una loro rappresentanza partecipasse all’elezione del Presidente della Repubblica, per consolidare l’immagine di una Repubblica Italiana fondata sull’autonomia locale, invece ci sono voluti decenni perché ciò avvenisse. Questo ci fa meditare sulla poco lungimiranza di una classe politica che ha visto nel regionalismo un pericolo per il loro potere, più che una speranza per il futuro. Certo la classe dirigente di oggi non è da meno, se ieri non si voleva dare potere alle regioni per non cedere autorità, oggi le regioni sono diventate strumento di arricchimento, vedi i vari scandali giudiziari vertenti sugli sprechi regionali. Ma cambiare è possibile. Costruire una politica basata sulla partecipazione effettiva dei cittadini può essere un modo per migliorare la qualità politica locale e anche nazionale. Se le Regioni hanno in parte fallito al loro mandato storico e istituzionale, lo si deve anche al ritardo, colpevole, della loro costituzione. Bisogna dirlo questa seconda disposizione transitoria è la manifestazione di un fallimento storico di un’intera generazione politica.

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: PRIMA DISPOSIZIONE TRANSITORIA E FINALE



PRIMA DISPOSIZIONE TRANSITORIA E FINALE

“Con l’entrata in vigore della Costituzione il Capo provvisorio dello Stato esercita le attribuzioni di Presidente della Repubblica e ne assume il titolo”.

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.

Prima di addentrarci nel commentare il contenuto della prima disposizione transitoria e finale della Costituzione Italiana, è bene spendere alcune parole sull’intero gruppo di articoli che sono denominati con tale dicitura. Le “disposizioni transitorie e finali” sono diciotto. Sono numerate in cifre romane. Sono state approvate dall’assemblea costituente il 22 dicembre 1947 e promulgate il 1 gennaio 1948, assieme all’intera Costituzione Italiana, il 1 gennaio 1948. Servono a traghettare l’intero paese verso la Repubblica, dopo decenni di monarchia. Contengono alcune disposizioni che il tempo ha reso inefficaci, come la prima che regolamentava lo status e il ruolo di Enrico De Nicola, prima capo provvisorio dello stato, eletto dall’assemblea costituente il ventotto giugno del millenovecentoquarantotto, e che poi assunse il ruolo di  primo presidente della repubblica italiana,  il 1 gennaio millenovecentoquarantotto, proprio in forza del primo articolo delle disposizioni transitorie e finali. Appare chiaro che tale disposizione è ormai un monumento storico, serve a ricordare quali siano stati i passaggi istituzionali in quel travagliato periodo, segnato dalla guerra e dai primi passi verso la rinascita del paese. In seguito si utilizzo il procedimento indicato dall’articolo 83 della Costituzione per eleggere I presidenti della Repubblica, fra i quali è bene ricordare il secondo Luigi Einaudi, illustre economista. Le diposizioni però contengono delle norme che sono valide ancor oggi, come quella contenuta nella quattordicesima che afferma che i titoli nobiliari non hanno alcun riconoscimento giuridico nella Repubblica democratica e ugualitaria che stava nascendo. Oppure disposizioni che ancor oggi accendono gli animi, come la XII che vieta la ricostituzione del partito fascista. Questa norma divide. Da un lato ci sono coloro che vorrebbero che nel nostro paese non ci siano più partiti che si prefiggono di creare dittature e che hanno al loro interno organizzazioni paramilitari. Dall’altra ci sono esponenti politici che rimpiangono quei tempi. Ricordiamo le esternazioni di tanti esponenti di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia in favore del regime fascista. Recentemente Giorgia Meloni, esponente di Fratelli d’Italia, ha elogiato la legge Acerbo, la legge elettorale voluta durante il regime fascista che dava un premio di maggioranza alla lista che otteneva il miglior risultato . Abbiamo vinto, ha dichiarato, pensando alla propria coalizione elettorale. Facendo riferimento al dato che se si fosse votato con la legge Acerbo, lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia con il loro 35% dei consensi avrebbero avuto la maggioranza assoluta in Parlamento. Ricordiamo che la legge elettorale voluta da Calderoli, ex ministro leghista, era simile alla legge Acerbo. Non è un caso che molti elettori di destra lo vorrebbero ministro delle riforme costituzionali, per cancellare ciò che è di antifascista nel nostro stato. Le vicissitudini della legge elettorale Calderoli sono note. Approvata nel 2005, dava un premio di maggioranza alla coalizione o al partito che avesse avuto la maggioranza dei voti relativi, cioè non avesse  raggiunto il 50  + 1 dei consensi. Come abbiamo detto quella legge si ispirava a quella voluta da Benito Mussolini nel 1923. La Corte Costituzionale, forse anche per questo motivo la bocciò, pensando che una repubblica democratica non potesse permettere che vi fosse un così spropositato divario fra consenso e potere parlamentare. Non era ammissibile che un gruppo di pochi ed eletto da pochi, governasse il paese. Forse le disposizioni transitorie e finali sono il passato. Forse siamo di fronte a un’Italia ben diversa da quella d’allora, che voleva uscire dalle brutture della guerra e del potere dispotico. Forse stiamo tornando al passato. Forse non sono obsolete solo le norme di transizione, come la prima, ma anche quelle che designano un paese democratico e che rifiuta la violenza come strumento della politica, come la XII e tante altre. Staremo a vedere. Intanto Enrico De Nicola, primo presidente della Repubblica Italiana, è lì a ricordarci che la democrazia non è un elemento dato per sempre, è una strada che si percorre alla ricerca continua e imperitura della libertà e della pace. Spetta a noi sottolineare e censurare alcuni atteggiamenti non coerenti a questi propositi, per superarli e continuare nel cammino comune di prosperità.

venerdì 25 maggio 2018

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: ARTICOLO 139



ARTICOLO 139

“La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione”.

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.

L’articolo 139 conclude la Costituzione Italiana. È l’ultima norma della legge fondamentale italiana. È dedicata alla Repubblica, quale unica forma di stato compatibile con i propri dettami. La Costituzione è Repubblicana. Finché rimarrà in vigore non ci potrà essere altro tipo di stato. Bisogna subito notare che dal punto di vista lessicale e grammaticale questo articolo appare una preposizione subordinata all’articolo precedente. Il 138 indica le modalità per modificare gli articoli e i dettami costituzionali, l’articolo 139 impone, di contro, che la forma repubblicana, a differenza di altri principi, debba rimanere immodificabile. Il patto sottoscritto dagli italiani il 2 giugno 1946, quando scelsero la Repubblica preferendola alla Monarchia, non può essere sciolto. La forma repubblicana può cessare di essere solo attraverso un atto rivoluzionario, un atto che sovverta l’intero assetto costituzionale, e riscriva interamente un nuovo patto fra cittadini, che secondo la dottrina filosofica di Rousseau è il fondamento di tutti gli ordinamenti giuridici moderni. Ovviamente per atto rivoluzionario non si deve intendere necessariamente un atto popolare violento. Le rivoluzioni che hanno determinato il crollo di alcuni regimi comunisti nell’Est Europa hanno dimostrato che una rivoluzione può avvenire pacificamente, senza spargere sangue. Ma comunque ciò che caratterizza le rivoluzioni è il voler sovvertire quello che i regimi preesistenti considerano insovvertibile. La rivoluzione è far cadere, come un castello di sabbia, un progetto di stato, un concetto di nazione, hobbesiano Leviatano, che appariva inamovibile. Ora speriamo che ciò non accada mai alla nostra Repubblica. Speriamo che ci possano essere riforme dello stato e della Costituzione, condivise dalla stragrande maggioranza di noi cittadini, che ammodernino il nostro stato, ma non lo cancellino. È da decenni che si auspica un tale esito del dibattito intorno alla Costituzione, ma purtroppo bisogna costatare che l’esito di questo confronto non ha prodotto le benefiche riforme da tutti auspicate. Siamo ben lontani da quello spirito costituente che animò coloro che fecero parte dell’assemblea costituente, organo eletto dall’intera cittadinanza italiana, per la prima volta chiamata ad esprimersi con un voto a suffragio universale maschile e femminile, nel lontano 1946. La Costituzione non è nata per rimanere uguale a se stessa. Prevede fin dall’inizio che si possa mutare nel succedersi degli  eventi storici. È una Costituzione rigida, nel senso che prevede un iter legislativo più lungo e complesso per le norme che la innovano, rispetto alle altre. Ma è comunque aperta al futuro. Il cambiamento è il motore della vita sociale del paese. Quello che appare indiscutibile è il fulcro di valori e di principi che hanno reso possibile che l’Italia uscisse dalla barbarie della guerra e della dittatura fascista. Sono i valori di libertà, uguaglianza e di democrazia che devono essere considerati incontrovertibili. Da questo punto di vista appare chiaro che si deve intendere “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione”, come una frase volta a garantire nella sua totalità tutti quei principi intoccabili propri del nostro stato. Bisogna considerare immutabili i principi fondamentali espressi nei primi 12 articoli della Costituzione. Dobbiamo considerare immutabili i diritti e i doveri enunciati nella Prima parate della Costituzione. I diritti dei cittadini possono ampliarsi, mai diminuire. La modernità ci pone davanti a nuove sfide. La tecnologia insidia la nostra personalità, la privacy viene continuamente insidiata da nuovi strumenti tecnologici. La tecnica tende a negare il diritto al lavoro, riducendo e facendo perdere dignità al lavoro. La globalizzazione mette in discussione lo stesso concetto di stato nazione e di conseguenza mette in crisi quei diritti concepiti come propri del cittadino, cioè legati all’essere nato in un determinato stato. Bisogna ricercare i diritti universali, i diritti di tutti, per riscoprire il valore assoluto della persona umana. Bisogna saper rivendicare i nostri diritti davanti all’insorgere di nuove minacce. La Costituzione, con i suoi contenuti profetici, ci è d’aiuto. Non dobbiamo abbassare la guardia. La solidarietà, la libertà la ricerca di benessere sono il fondamento del nostro stato. Finché la Repubblica sarà, non vi potrà essere legittimazione di alcun sopruso. Ecco perché dobbiamo essere grati a coloro che scrissero l’articolo 139 della Costituzione. Ecco perché bisogna saper assaporare il valore profetico della nostra Costituzione, che a settanta anni dalla sua promulgazione è ancora viva, è ancora un prezioso punto di riferimento per tutti noi.

giovedì 24 maggio 2018

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: ARTICOLO 138


ARTICOLO 138

“Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione.

Le leggi stesse sono sottoposte a «referendum» popolare quando entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali. La legge sottoposta a «referendum» non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.

Non si fa luogo a «referendum» se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti.”

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.

La nostra Costituzione è una Carta Rigida. La dottrina denomina in questo modo le Carte Fondamentali che non possono essere modificate dalle leggi ordinarie. Per cambiare la costituzione è necessario che le norme innovatrici siano approvate con uno speciale, e più complesso, procedimento rispetto a quello utilizzato per introdurre nuove norme ordinarie nel nostro ordinamento. Questo a difesa dei valori e dei principi fondanti della nostra Repubblica incisi nella Costituzione. I precedenti storici allarmarono i nostri costituenti. Lo Statuto Albertino non aveva strumenti di difesa per salvaguardare i diritti di libertà. Il fascismo ha potuto introdurre norme liberticide e istitutrici di una dittatura attraverso l’approvazione di norme dello stato. Per evitare che anche nella Repubblica possa avvenire una cosa del genere è stato scritto l’articolo 138 della Costituzione. Nessuna maggioranza parlamentare spuria o raffazzonata può modificare la nostra Carta Fondamentale. Le riforme costituzionali devono avvenire secondo un iter ben preciso. A norma del primo comma dell’articolo 138 le leggi di revisione costituzionale e le leggi costituzionali sono adottate con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. Appare chiaro che la doppia lettura da parte di ciascuna Camera comporta un più profonda meditazione sul contenuto della riforma. Bisogna notare che mentre nel corso della prima lettura della legge costituzionale, basta il voto favorevole della maggioranza semplice per approvarla (per maggioranza semplice si intende la maggioranza dei presenti in aula durante la votazione), nella seconda lettura è necessaria la maggioranza degli aventi diritto al voto, cioè è necessaria la maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera. Le leggi che devono essere approvate con questa rigida procedura sono quelle Costituzionali, cioè quelle che modificano o abrogano alcuni articoli della Costituzione. Ci sono altre leggi, denominate anch’esse costituzionali, che non modificano il testo emanato nel 1948, ma che per la loro importanza urge che siano approvate con procedura aggravata. Sono: le leggi che conferiscono il potere di iniziativa legislativa ad altri organi od enti, oltre a quelli citati nell’articolo 71; le leggi con le quali sono adottati gli statuti regionali speciali; leggi che dispongano competenze legislative alle Regioni di diritto comune in materie di prerogativa statale. In tali casi le leggi costituzionali non modificano il testo Costituzionale, ma per la loro rilevanza debbono essere approvate con l’attenzione e la cura riservata agli atti che novellano la Costituzione. È d’obbligo sottolineare che non tutti gli articoli della Costituzione sono modificabili. Ciò che è espressamente immodificabile è la forma repubblicana del nostro stato, lo sancisce categoricamente l’articolo 139 della Costituzione. Ma ci sono anche altri principi da reputare immodificabili. Sono quelli che sanciscono i diritti e i doveri dei cittadini. La gamma dei diritti si può ampliare, non certo ridurre. I valori di eguaglianza, libertà e democrazia non sono oggetto di revisione costituzionale. La Corte Costituzionale più volte ha ribadito che la nostra costituzione è fondata su valori che non possono essere oggetto di mercanteggiamento. La solidarietà verso i più deboli, i disabili, coloro che vivono nell’indigenza, lo spirito di eguaglianza che spinge a lottare contro ogni discriminazione non può essere cancellato dal nostro ordinamento. Se questi valori non fossero più la repubblica morirebbe. È compito delle istituzioni difendere questi diritti. I comuni, le province, le regioni e lo stato devono far quadrato è difendere i principi fondanti della democrazia: devono difendere i diritti dei disabili, devono prendersi cura degli svantaggiati, devono garantire un’adeguata formazione e cultura ai bimbi e alle bimbe, devono difendere la famiglia. Ma la difesa di questi valori non spetta solo allo stato. È compito del cittadino, di ogni essere umano, farsi garante dei valori di umanità sanciti dalla Costituzione. Urge che in Italia sia bandito il pregiudizio, sia bandita ogni forma di violenza, la cultura della prevaricazione sul più debole deve essere superata. La Costituzione deve avere gambe su cui camminare verso il progresso della nazione. Davanti ai tanti disabili emarginati, davanti allo sfacelo sociale, ai migranti senza diritti, davanti alla disoccupazione dilagate, al diritto alla salute negato bisogna reagire con spirito di abnegazione. Bisogna dire “no” a chi discrimina e “si” a chi è discriminato. Questo è un principio costituzionale assoluto e immodificabile.

Il secondo comma dell’articolo 138 della costituzione determina i modi e i tempi di esecuzione del referendum confermativo di una legge costituzionale. Bisogna dire subito che in questi casi il popolo è direttamente una fonte del diritto. Cioè partecipa direttamente alla formazione della legge costituzionale. Il referendum costituzionale non è abrogativo. Non cancella una legge che già c’è. È un atto istitutivo. Prima di tale consultazione popolare la legge costituzionale non entra in vigore. Il ruolo del popolo è necessario al pari di quello delle due camere. Bisogna pur dire che il referendum è comunque eventuale. Cioè può anche non esserci una consultazione popolare. A richiederlo devono essere o un quinto dei membri di una delle Camere o cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali. La dottrina è concorde. In caso in cui nessuna di queste parti chieda il ricorso alla consultazione dei cittadini si intende che tacitamente l’intera popolazione italiana è concorde con la valutazione delle camere. Non c’è bisogno di referendum, perché nemmeno un’esigua minoranza, quale oggettivamente è una componente di popolazione di cinquecentomila persone rispetto ad oltre 60 milioni di Italiani, si presa la briga di chiedere il referendum. Difficile valutare la giustezza di tale interpretazione. Sarebbe meglio che una qualsiasi legge di revisione costituzionale sia sempre oggetto di consultazione popolare. Il motivo di tale osservazione è che una modifica Costituzionale cambia il patto sociale fra stato e cittadini, di conseguenza sarebbe opportuna una consultazione popolare che sottoscrivesse tale nuovo contratto. Bisogna notare che il referendum costituzionale non necessità di quorum. Mentre il referendum abrogativo di leggi ordinarie necessita, per essere valido, della partecipazione del 50% + 1 degli aventi diritto al voto, il referendum costituzionale non ha quorum. Per essere approvata una riforma basta che abbia la maggioranza del “si” a suo favore. Perché tale scelta? Prima di tutto la legge costituzionale è un atto innovativo, mentre con il referendum abrogativo gli italiani sono chiamati a scegliere fra cancellare una norma o lasciarla, nei casi di riforma costituzionale  sono chiamati non a censurare un atto del parlamento ma a contribuire al compimento di una norma costituzionale. Alla luce di questo non è ammissibile considerare come rilevante l’astensione. Si può scegliere di votare “si” a favore della riforma e “no” se si è contro, se si rimane a casa se ci si astiene semplicemente si tace, non si esprime la propria idea. Il popolo attore protagonista della riforma costituzionale non può rimanere a casa, se lo fa merita che il suo atto sia considerato irrilevante. Per questo motivo si tiene conto dei soli voti validi per determinare se una riforma costituzionale è stata approvata o bocciata dalla cittadinanza.

L’ultimo comma dell’articolo 138 della Costituzione prevede che, se nella seconda votazione la riforma è stata votata favorevolmente dai due terzi di ciascuna delle camere, non sia necessario indire un referendum confermativo. Si dà per scontato che una così ampia maggioranza parlamentare coincida con un altrettanto ampio consenso popolare. Se il parlamento si è espresso così compattamente per l’approvazione della riforma è apparso superfluo che si pronunci anche il popolo. A dire il vero negli anni ’90 e agli albori del XXI secolo le proposte di riforma costituzionali che si sono susseguite hanno previsto comunque l’obbligo di consultazione popolare anche in caso di approvazione in larga maggioranza della riforma. Ad esempio lo prevedeva espressamente la legge costituzionale che istituiva nel 1997 la commissione bicamerale per le riforme, presieduta dall’onorevole Massimo D’Alema. Insomma spesse volte è apparso lampante ai riformatori che fosse necessario un pronunciamento del popolo anche in caso di ampia convergenza parlamentare sulle riforme. La legge Costituzionale che istituì la detta bicamerale prevedeva che la commissione delle due camere redigesse il testo di riforma, poi tale elaborato sarebbe stato approvato dalle due camere in due letture, secondo lo schema dell’articolo 138, e al fine approvato dagli elettori con referendum. La strada delle riforme della Costituzione è lastricata di sconfitte. Il testo elaborato dalla commissione D’Alema si perse, non fu approvato dal parlamento. Stessa sorte hanno subito le riforme che si sono susseguite nei primi due decenni del XXI secolo, due riforme, una voluta dalla destra e l’altra dalla sinistra, bocciate dal popolo attraverso il referendum. Insomma la Costituzione, forse, ha bisogno di una revisione. Alcune procedure istituzionali vanno adattate alla modernità. Non si riesce, però, a trovare il consenso generale indispensabile per riformare la nostra Repubblica. La colpa è, a nostro parere, di una mancanza di adesione profonda a quei principi fondanti del nostro stato. Sia la classe politica che i cittadini, noi tutti,  stiamo perdendo quel senso di adesione ai valori di solidarietà, democrazia, libertà e uguaglianza. Questo stato di cose porta a produrre un dibattito costituzionale asfittico, senza quell’afflato necessario a rinnovare il paese. Il problema non è solo politico. Il problema è anche della cittadinanza che ha perso quel senso di fratellanza e sorellanza necessario. Bisogna ripartire dal piccolo, dai comuni e  dalle associazioni, è lì che deve assurgere una tensione costituzionale che dice “no” a chi discrimina, a chi emargina.  Un “no” che deve diventare un “si” verso i meno fortunati. Un “no” che include, non esclude. Un “no” che dice: se cambi idea, se fai propri i valori costituzionali, tornerai a far parte della comunità.

mercoledì 23 maggio 2018

26 ANNI FA: CAPACI



MORTE DI UN GIUDICE
Il 23 maggio del 1992 moriva a Capaci (PA), assieme alla moglie e alla scorta, Giovanni Falcone. Simbolo di legalità e giustizia, il giudice ancor oggi rappresenta l'Italia che non si piega alla mafia e al malaffare. L'Italia della legalità, l'Italia della Costituzione, l'Italia che scende in piazza per dire "no" alla violenza mafiosa. L'Italia che ogni giorno si impegna e fa il suo dovere. sono passati 26 anni dalla sua morte e ancor oggi il cancro mafioso non è debellato. L'Impegno del giudice, però, non è stato vano. Il Maxiprocesso che ha condotto dal 1985 al fianco di altri valenti magistrati, fra cui Paolo Borsellino, ha messo in galera criminali sanguinari. Il lavoro di Falcone ha inchiodato alle loro responsabilità mafiosi come Totò Reina (che sarà arrestato molti anni dopo, ma che le sue responsabilità furono chiare già allora) e politici corrotti come Vito Cianciamino, il sindaco del sacco di Palermo. Falcone ha raccontato, con raffinata tecnica giuridica, la guerra di mafia che ha insanguinato l'intera Sicilia negli anni '70 e '80. Ha indicato nei "colletti bianchi", funzionari pubblici e privati che riciclavano il denaro sporco mafioso, il cancro di un intero paese che stava agonizzando a causa della corruzione. Falcone raccontava di sentirsi spesso isolato. La borghesia palermitana, di cui faceva parte, lo isolava e isolava tutti quei magistrati che con il loro lavoro intendevano rompere il muro di omertà. La mafia è sangue, la mafia sono i cadaveri per la strada, la mafia è Brusca, un capobastone, che scioglie nell'acido il figlio di pochi anni di un pentito.Per questa ragione è inaccettabile il silenzio complice. A capirlo fu l'intera Palermo, che quel 23 maggio pianse Falcone e gli uomini della scorta. Palermo si identificò nella moglie di Vito Schifani, membro della scorta di Falcone anche lui morto a Capaci.Quella donna, minuta e provata, gridò ai mafiosi: inginocchiatevi. Intendeva dire che la Repubblica, lo stato, la democrazia non accettava compromessi. I mafiosi dovevano non solo deporre le armi, ma anche essere sconfitti giudiziariamente, militarmente e moralmente.Purtroppo la storia non è andata così. Cesare Previti, braccio destro di Silvio Berlusconi nella creazione del Partito Forza Italia, è stato condannato dal tribunale di Palermo proprio perché aveva scelto di scendere a patti con la mafia e non di combatterla. ma sarebbe miope vedere solo le responsabilità penali dei politici di Lega e Forza Italia, le responsabilità sono anche a sinistra, basti pensare alle responsabilità politiche, anche se non penali, Nicola Mancino, anche lui indagato come Previti, ma assolto. E' tempo di cambiare. E' tempo di tributare ai servitori dello stato, come Falcone, il tributo meritato. Tale tributo può essere assolto solo scoprendo la verità e portando in carcere la cupola mafiosa e i loro complici, politici e affaristi. La seconda Repubblica è nata con la strage di Capaci. La classe politica fu condizionata da quell'evento. L'unico modo per chiudere i conti con quel terribile passato è scoprire la verità. Che ancora non si sia chiuso quel periodo storico è riscontrabile dal dato che ancor oggi, come allora, la prima colazione del paese è l'alleanza Lega - Forza Italia. Ma anche nel 1989 a crollare fu prima il partito più piccolo della prima Repubblica, il PSI, e poi crollò la Democrazia Cristiana. Nelle ultime elezioni è crollato il Partito Democratico, speriamo che sia il preludio del crollo del sistema di potere Forza - Leghista. In questi casi siamo tutti tifosi di Gian Battista Vico e dei suoi corsi e ricorsi storici.

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: ARTICOLO 137



ARTICOLO 137

“Una legge costituzionale stabilisce le condizioni, le forme, i termini di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale, e le garanzie di indipendenza dei giudici della Corte.

Con legge ordinaria sono stabilite le altre norme necessarie per la costituzione e il funzionamento della Corte.

Contro le decisioni della Corte Costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione”

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.

La Corte Costituzionale è l’organo giudiziale preposto a difesa dei valori e dei dettami iscritti nella Costituzione. La sua operatività è realizzabile attraverso  delle leggi costituzionali ed ordinarie che ne regolamentano il funzionamento e l’organizzazione. L’entrata in vigore della nostra Carta Fondamentale non ha coinciso con l’istituzione dell’organo di controllo delle leggi. Il 31 gennaio 1948 Iniziò l’iter legislativo, che doveva concludersi il 10 maggio 1955 con il discorso di insediamento della consulta. Quel giorno del ’48 fu approvata, abbastanza celermente, la legge costituzionale che stabiliva le modalità dei termini di proponibilità dei giudici di legittimità costituzionale, ottemperando al primo comma dell’articolo 137 della nostra legge fondamentale. In base a questa norma un cittadino non può adire direttamente la corte, come avviene ad esempio in Spagna. La questione di legittimità deve essere posta da un giudice, nell’esercizio della funzione giudicante. Insomma la questione di Costituzionalità può essere posta in udienza. Durante lo svolgersi del processo si costata che la norma che si dovrebbe applicare per dirimere la vertenza potrebbe  peccare di costituzionalità, davanti a questa costatazione il giudice blocca il contenzioso e rinvia gli atti alla Corte Costituzionale, motivando le ragioni per cui ritiene che la legge in questione pecchi dei crismi di costituzionalità. Insomma si può indire la corte solo se ci si trova in un processo. Vedremo, però, che organi dello stato apicali, cioè che sono posti al grado più alto della scala gerarchica, possono rivolgersi alla corte costituzionale impugnando atti amministrativi e legislativi di altre autorità statali che ledano le proprie attribuzioni. Le Regioni possono impugnare atti del governo nazionale, e viceversa. I giudici, in veste di rappresentanti del potere giudiziario, possono impugnare atti amministrativi e leggi del governo  che ledono la loro autonomia, perfino la stessa Corte Costituzionale può impugnare presso se stessa atti che ledono la propria indipendenza. Possono agire per conflitto di attribuzione le due camere del parlamento, o una sola di esse, e tutti gli organi costituzionali e di rilevanza costituzionale, cioè tutte le istituzioni che la Carta fondamentale o ritiene fondamentali per l’ordinamento dello stato o, comunque, ritiene degne di tutela costituzionale. È importassimo chiarire le modalità per condurre un processo costituzionale. Deve essere da un lato chiaro chi sono i soggetti che possono presenziare all’udienza. E’ da ritenersi necessaria la presenza dello stato, o meglio dell’avvocatura dello stato, a difesa dell’ordinamento giuridico e della sua integrità. Possono presentarsi come parti coloro che erano parti nel processo in cui è stata dichiarata la dubbia costituzionalità di una legge. Soggetti che partecipano ad altri processi, anch’essi sospesi, in cui si richiede l’applicazione della stessa norma. Possono adire organizzazioni e associazioni di cittadini, ma la loro presenza deve essere vagliata dalla corte, che può decidere che non sia opportuna la loro iscrizione come parti del processo.

Bisogna dire che le due leggi che ordinano il funzionamento della corte sono la legge costituzionale n. 1 del 1953 e la legge ordinaria n. 87 dello stesso anno. Dopo cinque anni di immobilismo, dovuto anche a pregiudizi di natura politica, era visto di malocchio da parte dei partiti il fatto che un organo giuridico, non eletto dal popolo, potesse sindacare sull’operato del parlamento, espressione della volontà popolare, queste due leggi fecero nascere la Corte Costituzionale.  La prima regolamenta le modalità di designazione dei giudici, come si eleggono i quindici membri ordinari e i sedici membri aggiunti, in caso la corte assuma il ruolo di corte penale. La seconda disegna le linee generali dell’ordinamento interno della Corte, indica come si strutturano le udienze e le riunioni dell’assemblea, indica quali siano gli organi necessari, il presidente della Consulta. Insomma la Corte Costituzionale è operativa da quando le norme attuative dell’articolo 137 sono entrate in vigore. Ancora una volta appare lampante che la Costituzione è viva e cogente per tutti solo attraverso l’opera attiva, non solo delle istituzioni e, soprattutto, della Corte Costituzionale, ma anche dei cittadini. Se i valori di solidarietà, uguaglianza e libertà incisi nella carta fondamentale sono vivi è perché sono difesi dai cittadini. In regioni degradate e decadenti del nostro paese questo senso dei valori manca. Ogni giorno disabili, appartenenti a minoranze, donne vengono non solo offesi, ma anche violentati fisicamente. Vediamo le violenze sulle donne. Vediamo i tanti disabili oggetto di sfregi, pensiamo al caso della donna disabile picchiata e insultata in un bar alla periferia di Roma da un malavitoso. Pensiamo ai tanti disabili emarginati, senza lavoro, senza dignità sociale. Pensiamo ai diritti negati di libertà di pensiero e di parola. La Corte Costituzionale non può risolvere questi problemi, non può dichiarare incostituzionale uno sfottò al disabile che balbetta, una violenza o una parola sboccata rivolta a una donna, non può dichiarare incostituzionale i soprusi. Deve giudicare le leggi, deve appurare la loro conformità alla Costituzione, può al limite dichiarare incostituzionali norme che favoriscono la discriminazione, anzi è bene che lo faccia. L’opera di attuazione dei valori costituzionali deve rimanere delle istituzioni. Deve essere prerogativa dei comuni, che si devono operare in azioni di inclusione sociale e devono censurare coloro che discriminano. La stessa cosa devono fare Province e Regioni. L’impegno è grande e gravoso. La costituzione si applica censurando le imprese che discriminano donne e disabili. Censurando la cultura che esalta la “razza”, quale poi? Non si sa! Diceva Albert Hainstain: esiste solo una razza quella umana. Insomma la Costituzione si difende in aula, davanti alla Corte Costituzionale, chiamata a censurare le norme scritte non ottemperando i suoi alti dettami, ma si difende anche nella quotidianità, attraverso l’acquisizione di quei valori che devono essere patrimonio della intera cittadinanza. Mi è capitato di sentire la frase: sono valori tuoi! Si stava discutendo di solidarietà e di passione per l’impegno sociale, due avventori stavano proponendo le loro idee, uno pensava che era bene che l’articolo 3, che propone l’uguaglianza sostanziale delle persone, fosse da applicare, l’altro no. Beh la Corte Costituzionale non può dichiarare inammissibile il pensiero di colui che rifiuta il concetto di solidarietà. Non può dire: un attimo i valori costituzionali non sono proprietà del tuo interlocutore, ma di tutti, anche tuoi. Quello che deve sorgere è una cultura della conoscenza dei valori, una cultura che parte dai piccoli centri e dalle società di persone. La Costituzione può essere strumento di sviluppo culturale.  È bene che sia difesa, che sia attuata quella istanza di libertà e giustizia che ha animato i nostri padri costituenti. La Costituzione, come diceva Piero Calamandrei, è nata sui monti dove combattevano i partigiani, nei lager ove i prigionieri erano torturati e uccisi, è nata dove la cultura prevaricatrice ha manifestato la sua più becera violenza e dove la reazione libertaria ha donato martiri alla patria. Per questo motivo la Costituzione va protetta, va rispettata, non solo attraverso l’opera della consulta ma attraverso l’impegno costante dei cittadini. La Costituzione non è un bene di pochi, ma un patrimonio di tutti.

L’ultimo comma dell’articolo 137 dice che le decisioni della Corte costituzionale sono inappellabili. Non c’è un tribunale superiore alla Consulta. In materie costituzionali la corte è  l’unico giudice preposto a decidere. È d’uopo ricordare che fino al 10 maggio 1955, giorno della nascita della Consulta, in via provvisoria era la Corte di Cassazione, il più alto organo di giustizia ordinaria, a pronunciarsi in caso di incostituzionalità di una legge. È bene ricordare che in tali frangenti l’alto tribunale si limitava a disapplicare la legge, ma non la espelleva, abrogava, dal nostro ordinamento giuridico. Gli altri giudici, però, erano chiamati a tener conto della sua ingiunzione e non applicare anche loro la legge, fin quando il Parlamento non l’avesse abrogata. La Corte Costituzionale invece cancella le leggi incostituzionali, la norma incriminata cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione, come ricorda l’articolo 136 primo comma della Costituzione. Ora è importante ricordare che la Corte Costituzionale è il primo garante dell’integrità istituzionale della Repubblica. È lei che deve garantire che qualunque atto normativo illegittimo sia espulso dal nostro ordinamento. È l’organo che decide l’ammissibilità dei quesiti referendari in forza dell’articolo 75 ultimo comma della Costituzione. Insomma è chiamata a controllare l’attività di democrazia diretta che il popolo italiano è chiamato ad esercitare attraverso i referenda. Non deve essere visto ciò come un atto di restringimento della volontà popolare, deve essere interpretato come atto di riconoscimento del popolo, dell’elettorato, quale organo dello stato che partecipa e determina la formazione delle leggi. In quanto assurge a tale funzione il popolo deve essere sottomesso non certo alla corte costituzionale, ma agli alti valori incisi nella nostra Carta Fondamentale, ecco perché l’azione dei comitati promotori dei referenda deve essere messa sotto il monitoraggio della corte, chiamata a giudicare se il quesito referendario lede gli articoli costituzionali. Ricordiamo che la costituzione vieta che vi possano essere referendum in materia di accordi internazionali, di amnistia ed indulto, di bilancio e di tributi. A questo proposito imbarazza l’idea che Salvini, promotore dell’incostituzionale “referendum sull’euro” (che verte su trattati internazionali), possa diventare ministro della repubblica. Ma si sa lo sfilacciamento etico e morale della nostra Italia permette che avvenga anche questo. Permette che una persona che si è manifestata contro i valori costituzionali, possa diventare ministro giurando su di essa. Insomma la stessa incoltura che porta a rifiutare i valori di solidarietà sociale iscritti nella costituzione, determina la presenza di Savini al Viminale, infatti secondo voci il segretario della Lega dovrebbe essere ministro degli interni.

martedì 22 maggio 2018

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: ARTICOLO 136



ARTICOLO 136

“Quando la Corte dichiara la illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.

La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali”

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.

L’articolo 136 della Costituzione italiana detta quali siano gli effetti di una sentenza della Corte Costituzionale. Se la Consulta dichiara che una norma o un atto avente forza di legge è contraria ai valori costituzionali e/o non rispetta le procedure formali e la sostanza della normativa costituzionale essa perde efficacia il giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Insomma la legge “incriminata” è espulsa dall’ordinamento giuridico italiano. Dal giorno della pubblicazione della sentenza i cittadini italiani e le istituzioni devono considerarla inesistente. Insomma la legge è sottomessa a quelli che sono i principi generali dello stato sanciti dalla Costituzione. Non ci può essere norma che li trasgredisca. La Corte Costituzionale è l’organo giurisdizionale chiamato a vegliare che ciò non avvenga. Bisogna dire che una sentenza della Corte Costituzionale rende inefficaci tutti gli effetti giuridici prodotti dalla norma, tranne quelli che hanno definitivamente espletato i loro effetti, cioè quelli cessati definitivamente per esaurimento dell’attività regolamentata dalla norma incostituzionale. Insomma la sentenza della Corte Costituzionale non si applica solo nei casi di rapporti giuridici regolamentati in via definitiva dalla legge incostituzionale, o nei casi in cui siano già decorsi i termini di prescrizione. Negli altri casi il rapporto giuridico esistente in forza della norma deve essere rimodulato in base alla sentenza della Corte Costituzionale. Insomma le parti devono riadattare il loro negozio in base alla sentenza della Corte Costituzionale. In caso di incostituzionalità di norme penali vale il principio del favor reo, anche se una legge è incostituzionale se ha prodotto attraverso la sua applicazione uno sconto di pena o l’assoluzione dell’imputato, non perde efficacia per le sentenze già pronunciate. Ovviamente non è più applicabile per quelle future. Mentre se la sentenza della Consulta produce una situazione favorevole al reo, essa ha effetti positivi sulla pena, cioè un giudice sarà chiamato a rimodulare la condanna in base alla sentenza della corte sempre e comunque a vantaggio del condannato, anche se questi ha subito una sentenza definitiva. Il giudice delle Libertà, insomma, sarà chiamato a costatare il cambiamento dell’ordinamento giuridico e di conseguenza a imporre una riapertura del processo.

Insomma la sentenza della Corte Costituzionale espelle dall’ordinamento giuridico la norma incostituzionale. La legge in questione è come se non fosse mai esistita, tranne nei casi limite sopra indicati. La Consulta ha l’obbligo di vegliare affinché non siano violati i principi fondanti del nostro stato. La sua decisione è inappellabile. Ci può essere una sentenza di incostituzionalità parziale della norma. Una legge può essere non interamente incostituzionale, ma inammissibile solo in alcune sue parti. In tal caso la sentenza non cassa interamente la norma, ma solo alcune parti di essa. Ci può essere anche una incostituzionalità per omissione. Cioè la legge è incostituzionale perché non ha previsto, nel regolare una determinata fattispecie giuridica, l’esercizio da parte dei cittadini dei diritti fondamentali.  Un esempio. Se una norma non garantisse a tutti, giovani o anziani, malati e sani, l’accesso a un determinato diritto violerebbe l’articolo 3 della Costituzione, che impone l’uguaglianza non solo formale ma anche sostanziale fra persone. Insomma tale legge sarebbe incostituzionale perché non ha detto.. Ci può essere un giudizio di incostituzionalità per violazione del principio di parità fra generi. Le leggi di famiglia furono seriamente oggetto di censura della corte costituzionale, perché prima della riforma del diritto di famiglia, siamo negli anni 70 del secolo scorso, mettevano di fatto in uno stato di sottomissione giuridica la moglie al marito. Insomma la sentenza della Corte Costituzionale deve rimettere a posto una situazione giuridica che è stata sovvertita da un’improvvida decisione del potere legislativo che ha, in buona fede o in mala fede, intaccato i valori costituzionali. Ci può essere una sentenza interpretativa della norma. Cioè la legge in questione è costituzionale sono se applicata in una maniera espressamente indicata dalla consulta. L’esempio è la legge sul legittimo impedimento. La norma del 2010 intendeva impedire che l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi fosse interrogato dai magistrati. La legge era semplice, se Berlusconi non intendeva presenziare ai processi in cui era imputato bastava dicesse che era impegnato dalle sue attività di governo, e di conseguenza sarebbero state rinviate le udienze e si sarebbe avvicinata la prescrizione dei reati. La Corte Costituzionale interpretò tale legge indicando che fosse necessario il riscontro oggettivo di un impegno della Presidenza del Consiglio per rinviare i processi, e quindi dette una sentenza interpretativa sulla norma. Oggi sembra la sentenza un reperto archeologico, “giustizia è fatta” ha detto Matteo Salvini, qualche giorno fa, quando ha saputo della piena estinzione della pena di Silvio Berlusconi. Certo che in nome dell’uguaglianza, in nome del principio che tutti gli imputati sono uguali, la Corte Costituzionale in quel lontano 2010 ha fatto un torto a tutti gli elettori di Lega e Forza Italia, che allora si chiamavano PDL, che votavano e votano per salvaguardare gli interessi di Silvio Berlusconi.

Il secondo comma dell’articolo 136 indica che la sentenza della corte costituzionale deve essere pubblicata sul suo bollettino ufficiale, su quello degli atti dello stato e sulla gazzetta ufficiale della Repubblica.  Questo per rendere notorio all’intera popolazione la sua decisone. La pubblicità, la notorietà, della sentenza è decisiva per garantire il principio di legalità. Tutti devono sapere che la legge è stata interamente, parzialmente cassata, oppure, in caso contrario, che la corte non ha visto motivi di illegittimità. Cioè la legge è conforme all’ordinamento. La Corte deve mandare atto di notifica all’organo che ha emanato la legge, o che comunque è chiamato a colmare il vuoto giuridico prodotto dall’annullamento. Manda, di conseguenza, comunicazione al Parlamento, alle due camere, e al Consiglio Regionale, se si tratta di formazione regionale. Il fine è che gli organi legislativi mettano immediatamente in moto le procedure necessarie per emanare leggi che siano, conformi alla costituzione, e riempiano il vuoto normativo creato dalla cessazione della norma incostituzionale. Bisogna dire che una sentenza di incostituzionalità, pur essendo un atto giuridico una sentenza e quindi neutrale dal punto di vista politico, è di fatto una censura alla politica della maggioranza parlamentare che ha votato la legge. Il Parlamento non può non costatare che, detta in maniera semplicistica, ha sbagliato. Non può costatare che il suo operare è andato contro quelle regole che sono la loro bussola nel quotidiano lavoro parlamentare. In questi anni non si è fatto i conti con questo dato di fatto. Troppo spesso autori di leggi incostituzionali, penso a Calderoli autore della legge elettorale denominata “Porcellum”, sia ancora in attività, anzi molti lo vorrebbero, paradosso dei paradossi, ministro del nuovo governo Lega – Movimento Cinque Stelle. Sbagliare è umano. Perseverare è diabolico. Appare necessario invece che la politica nella sua interezza faccia proprie le indicazioni della Corte Costituzionale e operi affinché sempre meno sia costretta a censurare l’opera del parlamento.