ARTICOLO 119
“I Comuni, le
Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di
entrata e di spesa.
I Comuni, Le
Province, le Città metropolitane e le Ragioni hanno risorse autonome.
Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri,in armonia con la
Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del
sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali
riferibile al loro territorio.
La legge dello Stato
istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori
con minore capacità fiscale per abitante.
Le risorse derivanti
dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province,
alle Città Metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni
pubbliche loro attribuite.
Per promuovere lo
sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale,per rimuovere gli
squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti
della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle
loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi
speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e
Regioni.
I Comuni, le
Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio,
attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato.
Possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento.
È esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti dagli stessi contratti”.
Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.
L’articolo 119 della Costituzione,
riformato dalla Legge Costituzionale del 18 ottobre 2001, è il perno del
cosiddetto “federalismo fiscale”. Le regioni, i Comuni, le Province e le Città
metropolitane hanno visto riconosciute la loro autonomia finanziaria di entrata
e di spesa. La Carta fondamentale gli riconosce risorse autonome, vedi il
secondo comma dell’articolo 119. Tali risorse devono consentire alle Regioni di
finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite. Tali enti locali
hanno un proprio patrimonio economico, composto di beni materiali e
immateriali, di proprietà di immobili e mobili. Hanno la capacità di stabilire
e applicare tributi propri, secondo i dettami costituzionali e in armonia con
l’intera finanza e sistema tributario nazionale. Possono avere tributi propri o
possono compartecipare alla spartizione del gettito prodotto da alcuni tributi
nazionali, ad esempio parte delle accise sulla benzina e sui combustibili sono
direttamente versati nelle casse delle regioni. Insomma gli enti locali possono
gestire sia le loro entrate che le loro uscite in modo da poter avere quella
autonomia e quella capacità di manovra che li rende protagonisti autonomi nella
vita del territorio che gestiscono. Possono fare scelte di politica territoriale
in autonomia a quelle nazionali.
La legge dispone che sia creato un fondo perequativo. Cosa
vuol dire? Sappiamo che il nostro territorio nazionale non è omogeneo né dal
punto di vista morfologico, né da quello socio-culturale, né da quello economico.
La Costituzione per garantire il principio di Uguaglianza dei cittadini,
sancito dall’articolo 3 della Costituzione, stabilisce che sia creato un fondo
nazionale in cui le ragioni più ricche versino parte del proprio gettito
fiscale che sarà utilizzato dalle realtà locali meno ricche per compensare il
divario finanziario e poter finanziare servizi indispensabili per la
popolazione locale. Insomma è un modo per poter garantire lo sviluppo a realtà
più sfortunate dal punto di vista finanziario.
Bisogna dire che la costituzione è tassativa. Le regioni, i
Comuni e le Province possono finanziarsi mai in debito. La loro politica
economica deve essere finalizzata all’equilibrio di bilancio. Le entrate, che
come abbiamo detto possono provenire anche dallo Stato, ma che si compongono
principalmente di entrate proprie, devono garantire sempre una copertura
adeguata delle uscite. In caso di sforamento del bilancio l’ente locale risponde
in proprio dei suoi ammanchi, a meno che non siano dovuti ad investimenti
straordinari per assicurare lo sviluppo del territorio, investimenti che
portino strutturali innovazioni. Solo in tal caso si può investire in deficit,
nella prospettiva che tale debito possa fruttare benefici per la collettività.
Bisogna dire che il terzo comma dell’articolo 119 indica che
gli enti locali debbono indirizzare le loro finanze per promuovere lo sviluppo
economico, la coesione e la solidarietà. Cosa vuol dire? Le regioni devono
operare per vegliare affinché i disabili, gli anziani, le donne, i migranti, i
meno abbienti non siano discriminati. È un mandato imposto dalla costituzione.
In tutti gli ambiti sociali la Costituzione deve garantire i meno fortunati,
per ottenere tale obbiettivo chiede aiuto agli enti locali. La crisi ha
prodotto gravi squilibri, ha prodotto molti disoccupati, i più colpiti sono i
disabili. Sembra un paradosso, in uno stato sociale che dovrebbe guardare i più
deboli, i tagli prodotti dalla crisi hanno colpito principalmente i meno
fortunati. Certo questa scelta ha potuto garantire ad atri standard di vita
adeguati. Rimane il fatto che mentre l’Italia arranca chi è meno fortunato
continua a cadere nel baratro della disoccupazione, della povertà e dell’emarginazione.
A poco servono gli appelli di papa Francesco alla solidarietà. A poco servono
le leggi dello stato, inapplicate. Il disabile rimane l’escluso, l’emarginato
il deriso. Cambiare sembra impossibile. Anche perché quando si prova a parlare
di fratellanza fra le persone la risposta è spesso di chiusura, di non ascolto.
Perché farsi carico del Disabile, perché farsi carico della persona che si
deride, che si umilia, a cui non si riconosce la dignità umana? Per rispondere
a tale domanda non basta dire: perché lo dice la Costituzione, nel sud, soprattutto,
ma in tutto il paese c’è gente a cui la costituzione non importa nulla, tanto
meno i valori di cui è latrice. Questo è dovuto anche al senso di illegalità
diffusa nel paese. Quanto lavoro nero, quanta evasione fiscale, quanta incuria
delle norme del diritto, tutti questi fattori portano a un disfacimento morale.
Ma siamo positivi. Davanti a una maggioranza indifferente e cinica, che rimane
impassibile verso le questioni di rilevanza sociale, ci sono gruppi di persone
che fanno dell’impegno verso l’altro la loro ragione di vita. Sono gli impegnati
nel mondo del volontariato, gli uomini di volontà, che dovrebbero essere il
cancro che distrugge questa società egoista, un melanoma buono che dovrebbe far
fuori la cultura brutta ed egoista, per far nascere una cultura solidale.
Questi oggi sembrano una malattia agli occhi di coloro che vorrebbero che nulla
cambiasse, per questo li abbiamo chiamati “cancro”. Ma in realtà sono speranza
per il futuro, speranza di costruire una società in cui il senso di comunanza
non sia sentire da pochi, ma da molti, se non da tutti. Un senso che ci fa
sentire fratelli e sorelle. Un senso che ci spinge ad aiutare chi è in
difficoltà, non a deriderlo. Un senso che ci spinge a cercare di superare le debolezze
nostre e degli altri, che non ci fa utilizzarle per raggirare il prossimo, ma
ci spinge a sorreggerlo mentre sta cadendo. Cambiare è possibile. Bisogna farlo
mettendo in pratica quello che la costituzione chiama la sussidiarietà
orizzontale. Cioè l’utilizzo dell’energia vitale dell’uomo per aiutare, fare da
sussidio, al proprio prossimo. La ricchezza umana e l’abnegazione delle
associazioni di volontariato debbono essere da esempio e da sprone. L’economia e
lo sviluppo sociale devono ripartire dall’apporto delle istituzioni pubbliche,
private, fondazioni ed associazioni. Si riparte dalla solidarietà e dallo stare
insieme. Nessuno deve rimanere più da solo. Nessuno deve essere lasciato a se
stesso nelle difficoltà della vita. Se uno cade deve essere aiutato a
rialzarsi. Deve essere messo in grado di rimettere in moto le sue capacità e le
sue competenze per costruire un futuro migliore per sé, per la sua famiglia,
per il cerchio sociale di cui fa parte e per l’intera società.
L’ultimo comma dell’articolo 119 stabilisce che Comuni,
Province, Città metropolitane e regioni hanno un loro patrimonio. Questo è dato
dalla legge dello stato e dalla costituzione. Cioè gli enti locali possono
acquisire beni materiali e immateriale solo se una legge acconsente l’ente
locale ad operare in quel dato settore economico. I beni di questi enti sono
sottoposti al diritto pubblico, cioè rientrano nella legislazione che
regolamenta il funzionamento dello stato e delle istituzioni. Fanno parte della
ricchezza della nazione e di conseguenza debbono essere utilizzati con
oculatezza. I comuni possono operare in ambito economico costituendo imprese di
cui detengono il controllo, ad esempio in ambito del servizio di trasporto
urbano. Tale possibilità la ha anche la provincia, la Città metropolitana e la
Regione. Possono avere un loro patrimonio immobiliari. Ci sono case comunali,
ad esempio, date in affitto a privati o utilizzate come uffici pubblici. Il
patrimonio dello stato è rilevante, ammonta a diversi svariati miliardi di
euro. Questo patrimonio è in buona parte gestito dalle istituzioni locali, che
formalmente e sostanzialmente ne sono titolari giuridici. Possono vendere,
comprare, privatizzare enti pubblici, sempre secondo le norme dello stato.
Questo patrimonio è prezioso per i cittadini, grazie a lui si può l’ente può
erogare servizi. È bene che non venga disperso con atti avventati. Per questo
motivo la Costituzione impone un rigoroso utilizzo del bilancio non solo
corrente (le spese e le entrate), ma anche consolidato (comprendente anche il
patrimonio dell’ente locale). È tempo di parsimonia. Lo stato deve utilizzare
le risorse per il cittadino, non per i tornaconti personali di pochi. Gli enti
locali che operano una gestione economica sbagliata rischiano il dissesto
finanziario, con gravissimo nocumento per l’intera collettività. Insomma l’articolo
119 della costituzione si occupa della finanza degli enti locali. Disciplina le
norme generali sulle entrate e le uscite. Indica quale debba essere una giusta
legge che regolamenti la finanza pubblica e come questa debba regolamentare la
vita delle istituzioni locali. Allo stesso tempo, però, va oltre la mera
contabilità. Propone un modello di sviluppo a misura d’uomo. Indica una vera
economia politica, una politica dell’economia, che dovrebbe mettere al centro i
bisogni dell’uomo e soprattutto dei più deboli. Indica quali debbano essere le
priorità dello stato. Garantire la salute del cittadino, garantire dignità e
lavoro devono essere obbiettivi primari. Forse seguire le indicazioni
costituzionali potrebbe essere un modo per uscire dalla crisi, senza lasciare
indietro, senza escludere, quelle fasce sociali più deboli di cui la nostra
Carta Fondamentale ha a cuore le sorti. Partire da qui, partire dalla
solidarietà, per far rinascere il paese, questo è il nostro obbiettivo. Per
ottenerlo bisogna certo rendere le istituzioni più efficienti, migliori, ma bisogna
cambiare i cuori di chi non crede nell’impegno solidale, un’Italia più bella si
può avere non lasciando indietro nessuno.
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