martedì 22 maggio 2018

VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: ARTICOLO 136



ARTICOLO 136

“Quando la Corte dichiara la illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.

La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali”

Per festeggiare i settanta anni dalla entrata in vigore della Costituzione Italiana, atto avvenuto il 1 gennaio 1948, "Racconto a mano libera" pubblica uno alla volta gli articoli della nostra carta fondamentale.

L’articolo 136 della Costituzione italiana detta quali siano gli effetti di una sentenza della Corte Costituzionale. Se la Consulta dichiara che una norma o un atto avente forza di legge è contraria ai valori costituzionali e/o non rispetta le procedure formali e la sostanza della normativa costituzionale essa perde efficacia il giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Insomma la legge “incriminata” è espulsa dall’ordinamento giuridico italiano. Dal giorno della pubblicazione della sentenza i cittadini italiani e le istituzioni devono considerarla inesistente. Insomma la legge è sottomessa a quelli che sono i principi generali dello stato sanciti dalla Costituzione. Non ci può essere norma che li trasgredisca. La Corte Costituzionale è l’organo giurisdizionale chiamato a vegliare che ciò non avvenga. Bisogna dire che una sentenza della Corte Costituzionale rende inefficaci tutti gli effetti giuridici prodotti dalla norma, tranne quelli che hanno definitivamente espletato i loro effetti, cioè quelli cessati definitivamente per esaurimento dell’attività regolamentata dalla norma incostituzionale. Insomma la sentenza della Corte Costituzionale non si applica solo nei casi di rapporti giuridici regolamentati in via definitiva dalla legge incostituzionale, o nei casi in cui siano già decorsi i termini di prescrizione. Negli altri casi il rapporto giuridico esistente in forza della norma deve essere rimodulato in base alla sentenza della Corte Costituzionale. Insomma le parti devono riadattare il loro negozio in base alla sentenza della Corte Costituzionale. In caso di incostituzionalità di norme penali vale il principio del favor reo, anche se una legge è incostituzionale se ha prodotto attraverso la sua applicazione uno sconto di pena o l’assoluzione dell’imputato, non perde efficacia per le sentenze già pronunciate. Ovviamente non è più applicabile per quelle future. Mentre se la sentenza della Consulta produce una situazione favorevole al reo, essa ha effetti positivi sulla pena, cioè un giudice sarà chiamato a rimodulare la condanna in base alla sentenza della corte sempre e comunque a vantaggio del condannato, anche se questi ha subito una sentenza definitiva. Il giudice delle Libertà, insomma, sarà chiamato a costatare il cambiamento dell’ordinamento giuridico e di conseguenza a imporre una riapertura del processo.

Insomma la sentenza della Corte Costituzionale espelle dall’ordinamento giuridico la norma incostituzionale. La legge in questione è come se non fosse mai esistita, tranne nei casi limite sopra indicati. La Consulta ha l’obbligo di vegliare affinché non siano violati i principi fondanti del nostro stato. La sua decisione è inappellabile. Ci può essere una sentenza di incostituzionalità parziale della norma. Una legge può essere non interamente incostituzionale, ma inammissibile solo in alcune sue parti. In tal caso la sentenza non cassa interamente la norma, ma solo alcune parti di essa. Ci può essere anche una incostituzionalità per omissione. Cioè la legge è incostituzionale perché non ha previsto, nel regolare una determinata fattispecie giuridica, l’esercizio da parte dei cittadini dei diritti fondamentali.  Un esempio. Se una norma non garantisse a tutti, giovani o anziani, malati e sani, l’accesso a un determinato diritto violerebbe l’articolo 3 della Costituzione, che impone l’uguaglianza non solo formale ma anche sostanziale fra persone. Insomma tale legge sarebbe incostituzionale perché non ha detto.. Ci può essere un giudizio di incostituzionalità per violazione del principio di parità fra generi. Le leggi di famiglia furono seriamente oggetto di censura della corte costituzionale, perché prima della riforma del diritto di famiglia, siamo negli anni 70 del secolo scorso, mettevano di fatto in uno stato di sottomissione giuridica la moglie al marito. Insomma la sentenza della Corte Costituzionale deve rimettere a posto una situazione giuridica che è stata sovvertita da un’improvvida decisione del potere legislativo che ha, in buona fede o in mala fede, intaccato i valori costituzionali. Ci può essere una sentenza interpretativa della norma. Cioè la legge in questione è costituzionale sono se applicata in una maniera espressamente indicata dalla consulta. L’esempio è la legge sul legittimo impedimento. La norma del 2010 intendeva impedire che l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi fosse interrogato dai magistrati. La legge era semplice, se Berlusconi non intendeva presenziare ai processi in cui era imputato bastava dicesse che era impegnato dalle sue attività di governo, e di conseguenza sarebbero state rinviate le udienze e si sarebbe avvicinata la prescrizione dei reati. La Corte Costituzionale interpretò tale legge indicando che fosse necessario il riscontro oggettivo di un impegno della Presidenza del Consiglio per rinviare i processi, e quindi dette una sentenza interpretativa sulla norma. Oggi sembra la sentenza un reperto archeologico, “giustizia è fatta” ha detto Matteo Salvini, qualche giorno fa, quando ha saputo della piena estinzione della pena di Silvio Berlusconi. Certo che in nome dell’uguaglianza, in nome del principio che tutti gli imputati sono uguali, la Corte Costituzionale in quel lontano 2010 ha fatto un torto a tutti gli elettori di Lega e Forza Italia, che allora si chiamavano PDL, che votavano e votano per salvaguardare gli interessi di Silvio Berlusconi.

Il secondo comma dell’articolo 136 indica che la sentenza della corte costituzionale deve essere pubblicata sul suo bollettino ufficiale, su quello degli atti dello stato e sulla gazzetta ufficiale della Repubblica.  Questo per rendere notorio all’intera popolazione la sua decisone. La pubblicità, la notorietà, della sentenza è decisiva per garantire il principio di legalità. Tutti devono sapere che la legge è stata interamente, parzialmente cassata, oppure, in caso contrario, che la corte non ha visto motivi di illegittimità. Cioè la legge è conforme all’ordinamento. La Corte deve mandare atto di notifica all’organo che ha emanato la legge, o che comunque è chiamato a colmare il vuoto giuridico prodotto dall’annullamento. Manda, di conseguenza, comunicazione al Parlamento, alle due camere, e al Consiglio Regionale, se si tratta di formazione regionale. Il fine è che gli organi legislativi mettano immediatamente in moto le procedure necessarie per emanare leggi che siano, conformi alla costituzione, e riempiano il vuoto normativo creato dalla cessazione della norma incostituzionale. Bisogna dire che una sentenza di incostituzionalità, pur essendo un atto giuridico una sentenza e quindi neutrale dal punto di vista politico, è di fatto una censura alla politica della maggioranza parlamentare che ha votato la legge. Il Parlamento non può non costatare che, detta in maniera semplicistica, ha sbagliato. Non può costatare che il suo operare è andato contro quelle regole che sono la loro bussola nel quotidiano lavoro parlamentare. In questi anni non si è fatto i conti con questo dato di fatto. Troppo spesso autori di leggi incostituzionali, penso a Calderoli autore della legge elettorale denominata “Porcellum”, sia ancora in attività, anzi molti lo vorrebbero, paradosso dei paradossi, ministro del nuovo governo Lega – Movimento Cinque Stelle. Sbagliare è umano. Perseverare è diabolico. Appare necessario invece che la politica nella sua interezza faccia proprie le indicazioni della Corte Costituzionale e operi affinché sempre meno sia costretta a censurare l’opera del parlamento.

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