VIAGGIO NELLA COSTITUZIONE: ARTICOLO 15
“La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni
altra forma di comunicazione sono inviolabili.
La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato
dell’autorità giudiziaria con le garanzie della legge”
“Racconto a mano libera” per festeggiare la ricorrenza dei
settant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione Italiana sta pubblicando
gli articoli della nostra carta fondamentale. Quest’oggi abbiamo scritto le
parole incise nell’articolo quindici. Questo è dedicato a una delle libertà più
importanti, la libertà di corrispondenza. Ognuno è libero di scrivere a chi
vuole e deve avere la certezza che nessun altro oltre il suo interlocutore
legga la missiva. Ovviamente capita che altri oltre al mittente e destinatario
sappiano i contenuti di una lettera, ma ciò deve avvenire per l’espressa
volontà di una o ambedue le parti. Insomma poter comunicare le proprie idee
agli altri e avere la sicurezza che non ci sia un “grande fratello” che veda e
controlli ciò che si scrive è una delle conquiste della Repubblica. Infatti in
precedenza l’ordinamento monarchico, ancor prima che lo Statuto Albertino fosse
inquinato dall’ideologia fascista, prevedeva la possibilità che le forze dell’ordine
potessero controllare la corrispondenza dei cittadini senza alcun vincolo o
controllo da parte di un’autorità superiore, quale la magistratura. Durante il
fascismo, addirittura, il controllo postale era utilizzato per soffocare ogni
forma di opposizione al regime e per fermare ogni afflato di libertà che
potesse scaturire dall’animo popolare. Il diritto alla riservatezza della corrispondenza
è considerato un diritto universale. Ciò vuol dire che non è riservato solo ai
cittadini italiani ma a tutte le persone. In nessun caso l’autorità statale
può, arbitrariamente, controllare la corrispondenza. Con il progredire della
tecnologia mediatica i problemi legati alla libertà e alla riservatezza delle
comunicazioni interpersonali si è ampliata. Già all’epoca in cui fu scritta la
costituzione non si comunicava solo in forma scritta, c’erano già gli
apparecchi radio e telefonici. Ancor oggi la legge sulle intercettazioni
telefoniche da parte della magistratura per combattere il crimine è oggetto di
aspre polemiche, proprio per l’estrema rilevanza e delicatezza del tema. E’ d’obbligo,
quindi, pensare che le tutele dell’articolo 15 vadano estese anche a questi
mezzi di comunicazione. Con l’avanzare delle nuove tecnologie, con l’avvento di
internet e le “reti” telematici la materia si è ampliata e complicata in
maniera esponenziale. Ogni giorno ognuno di noi attraverso internet comunica
con tantissime persone e spesso lo fa in maniera riservata. Come è possibile
garantirci che la riservatezza sia veramente tutelata? Com’è possibile che i “provider”,
cioè le aziende che gestiscono la rete, non utilizzino i dati che ci riguardano
e che vorremmo riservati per i loro fini di natura commerciale e per altri fini
ancora più allarmanti? Come è possibile evitare che i dati cosiddetti
sensibili, cioè che vertono sul sesso, sulle abitudini culturali, sessuali e di
altro genere di ognuno di noi, non siano sulla bocca di tutti? E’ possibile
scegliere cosa sia e cosa non sia in rete delle nostre informazioni personali?
Ha trovare una risposta a queste domande ci ha pensato il grande giurista
Stefano Rodotà, da pochi mesi scomparso, che ha dedicato l’ultima parte della
sua vita di studioso di diritto al tema della tutela della Privacy, un termine
inglese che indica il diritto di ognuno a scegliere di essere solo, cioè il
diritto di ogni persona di scegliere se e quando partecipare al grande circo
mediatico della rete e di scegliere se dare o meno pubblicità alle azioni che
fa. Passi avanti nella tutela della privacy si sono fatti. La legislazione
europea, fin dai primi anni ’90, ha normato sulla materia con regolamenti e
direttive. Lo stato italiano, anche se con ritardo, si è adeguato. Ha
introdotto norme che mettano un freno alla incontrollata creazione di banche
dati, nelle quali le informazioni che riguardano la vita dei cittadini sono immagazzinate
senza la loro autorizzazione. Oggi la legge impone che, chiunque voglia
immagazzinare dati sugli altri, lo debba fare informando i diretti interessati,
i quali possono impedirlo semplicemente non autorizzando l’ente, pubblico o
privato che sia, a conservare dati sulla propria persona. In più è
tassativamente vietato avere dati che riguardano informazioni personalissime:
quali la propria inclinazione sessuale. Questo non è solo per evitare che
cittadini ignari siano ricattabili, ma anche perché è considerato giustissimo
che alcuni dati debbano rimanere conosciute solo della persona interessata.
Ogni uomo o donna ha il diritto, se lo ritiene giusto, di esternare quello che
sono le proprie abitudini culturali, le proprie attività sessuali, ma nessuno altro
deve esserne a conoscenza senza che sia
lui stesso a comunicarlo. Questo è un principio sacrosanto, a cui non si deve
rinunciare. La libertà personale è anche poter scegliere di informare o meno
gli altri di quello che è la propria persona e la sfera intima della propria
vita. Questa libertà di esternare la propria natura più intima è esercitabile
verso altre persone. Lo stato, invece, non deve e non può interessarsi a questi
dati, a meno che non siano dati essenziali per tutelare la salute del soggetto,
mi si consenta un esempio delicatissimo: un medico può essere costretto a
sapere delle abitudini sessuali di un paziente per diagnosticare eventuali
malattie veneree. Ma questo può avvenire in base al principio che il diritto
alla salute è un bene prezioso da tutelare. Il medico in questione, però, deve
essere ben lungi dal pensare di poter rendere pubblica questa informazione, che
deve restare nell’ambito della ricerca medica e scientifica la cui deontologia
impone anche la riservatezza sui dati del paziente. Appare quindi evidente che
anche i dati sulla salute sono da annoverare fra quei dati sensibili che non
possono essere utilizzati, in ambito extrasanitario, senza l’autorizzazione del
paziente. Per fare un esempio commetterebbe grave reato un’azienda che cercasse
di venire a conoscenza dello stato di salute di un dipendente per poter così
determinarne la carriera. E criminale sarebbe il medico che comunicasse questi
dati. Insomma la legge sui dati personali, sulla corrisponda, verte su una
materia di estrema ampiezza e complessità. Materia giuridica che tocca
praticamente tutti gli aspetti della vita di ognuno di noi. E’ difficile
pensare che si possa superare tutte le aporie e le contraddizioni che una
normativa così complessa ha. E’ difficile pensare che ognuno di noi possa
essere totalmente garantito quando naviga in internet, quando compila un modulo
in un ospedale, quando, per avere servizi e per fare acquisti, comunica i
propri dati personali. Rimane il dato che passi avanti se ne sono fatti. La
legislazione sulla privacy esiste e, in più, è stato istituito un garante, un
commissario, che ha il compito, con il suo staff, di vegliare sulla effettiva
applicazione della legge e di dare indicazioni su come mutare norme e atti
amministrativi, pubblici e privati, al fine di migliorare la tutela della
riservatezza. Insomma il diritto alla segretezza, il diritto a non divulgare i
propri dati personali sensibili e in generale tutti i propri dati, quando non
lo si vuole, è una vittoria della Costituzione, ma è anche un obbiettivo che si
deve conquistare e raggiungere tutti i giorni, attraverso continui adeguamenti
della legge alle nuove tecnologie e un afflato culturale che si fondi su una
cultura della cittadinanza sensibile alla materia .
Il secondo comma dell’articolo
15 è dedicato ad indicare quando il diritto alla segretezza può essere
derogato. Ciò deve avvenire solo per atto motivato dall’autorità giudiziaria,
quindi la polizia non può mai controllare la posta altrui senza autorizzazione
dei giudici. In deroga a questo principio la polizia postale veglia sulla rete
per evitare la diffusione di materiale pedopornografico. Ma appare a tutti che
tale, orrendo, materiale non può essere assimilato ad una qualsiasi lettera o
messaggio, più facilmente può essere assimilato quelle pubblicazioni a stampa,
che l’articolo 21 della costituzione vieta tassativamente perché “contrarie al
buon costume”, sarebbe il caso di dire: perché contrari ai diritti e all’integrità
personale e morale dei bambini, credo che su questo i padri costituenti, se al
corrente del terribile fenomeno della pedofilia online, sarebbero d’accordo.
Testo di Giovanni Falagario
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