martedì 30 giugno 2020

PARLANDO DI COSTITUZIONE



ARTICOLO 39 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

“L’organizzazione sindacale  è libera

Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge.

È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica.

I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentanti unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”

L’organizzazione sindacale è libera. Così sancisce il primo comma dell’articolo 39. I lavoratori hanno diritto ad autorganizzarsi liberamente. Possono formare sindacati all’interno dell’ambito lavorativo. Queste organizzazioni di lavoratori si ispirano ai più svariati afflati culturali. Ci sono sindacati cattolici, organizzazioni sindacali di ispirazione socialista e così via. Se hanno un vasto numero di tesserati possono, anzi devono, partecipare alla contrattazione nazionale del contratto lavorativo di categoria. La libertà e la partecipazione sono i punti fermi che la costituzione proclama nell’ambito dei rapporti sindacali. I sindacati sono liberi. Hanno un loro statuto. Non devono sottostare ai dettami del potere statuale e della politica. La loro libertà da ogni altro organo istituzionale garantisce che i diritti dei lavoratori siano tutelati e che i loro interessi siano posti al centro della politica repubblicana “fondata sul lavoro”, come afferma l’articolo uno della nostra carta fondamentale. Compito dei sindacato è proteggere le categorie sociali più deboli. Coloro che non possono far valere la propria voce, coloro che sono schiacciati dalle terribili logiche economiche e sociali, coloro che sono stritolati dalle logiche ciniche dell’economia, dovrebbero trovare nel sindacato la loro difesa. I disabili, i meno fortunati, gli indigenti, coloro che hanno un salario basso, dovrebbero trovare un supporto materiale e morale in queste organizzazioni. I sindacati spesso si impegnano strenuamente per difendere la dignità del lavoro e, soprattutto, dei lavoratori. Difendono coloro che rischiano di perdere il proprio posto. Difendono i disabili, che, soprattutto nel meridione, non riescono ad avere un’adeguata protezione essendo emarginati ed irrisi. Difendono i migranti, che troppo spesso vivono la loro condizione in stato di emarginazione e sono sfruttati nell’ambito lavorativo. Il lavoro sindacale è encomiabile. Tanto c’è da fare ancora. Tanto bisogna fare per superare gli ostacoli che ancora sussistono per raggiungere l’integrazione. Bisogna cambiare la mente delle persone. Ancor oggi sono i colleghi, i lavoratori, a denigrare il più debole. Siamo lontanissimi da quello spirito di solidarietà a cui ha invitato papa Francesco. I sindacati devono impegnarsi in questa opera di integrazione sociale. Bisogna che si operi per promuovere la democrazia all’interno degli ambiti lavorativi. Bisogna promuovere il diritto dei lavoratori alla reale partecipazione attiva alle scelte che li riguardano direttamente. Bisogna abolire quella cultura prevaricante che permette di soffocare le voci delle persone più deboli. Abbiamo sotto gli occhi i casi in cui coloro che non riescono a parlare, coloro che non riescono ad esprimere compiutamente le loro idee, vengono ridicolizzati e, cosa ben più grave, messi in condizioni tremende. Sono i più deboli che pagano lo scotto della crisi. Sono i più deboli che non solo scivolano verso il basso nella piramide sociale, ma anche subiscono le più degradanti angherie. Il sindacato, le organizzazioni dei lavoratori, dovrebbero operare per un cambiamento culturale. Si può essere la Svezia! E’ un’affermazione provocatoria questa. Ma si può aspirare ad avere una politica sociale di integrazione. Mi preme sottolineare che in Svezia non sono cattolici, quindi è falsa l’idea che il non essere cristiano autorizza all’emarginare socialmente. In Svezia non solo solidali, perché lo dice papa Francesco, ma perché hanno una cultura laica improntata alla solidarietà. Perché questa cultura non può arrivare anche in Italia? D’altronde questa cultura incarnerebbe i valori costituzionali, anch’essi  fondati sulla partecipazione solidale. Occorre notare che la costituzione prevede l’esistenza di un registro sindacale. Un archivio in cui le organizzazioni dei lavoratori debbano iscriversi per poter così partecipare di diritto alle contrattazioni con lo stato e le organizzazioni dei proprietari. Questo registro doveva nascere per legge. Una norma d’attuazione costituzionale doveva regolare la registrazioni delle confederazioni sindacali. Lo stato non ha mai provveduto all’emanazione di quest’atto. I sindacati non hanno avuto mai un registro nazionale o locale in cui registrarsi. Questo non è solo un ritardo istituzionale. I sindacati e la politica hanno sempre avuto remore nell’istituire un registro nazionale sindacale. C’è il rischio che questo possa diventare uno strumento di controllo sull’operato consociativo, c’è il rischio che questo possa portare un calo di democrazia. Gli statuti dei singoli sindacati devono essere basati su principi democratici. L’articolo 39 è chiarissimo. La democrazia e il pluralismo sono la base del movimento sindacale. Non avrebbe senso che un’istituzione nata per portare libertà nel mondo del lavoro, non avesse essa stessa libertà al suo interno. La volontà è quella di evitare gli orrori del fascismo. Evitare che un sindacato si stato sia meramente un organo di controllo sui lavoratori, come era ai tempi di Mussolini e del suo sindacato unico. La democrazia è principio cardine che deve entrare in ogni organizzazione, anche in quella sindacale. I sindacati hanno il compito storico di portare nel mondo del lavoro i valori repubblicani di libertà, uguaglianza e fraternità. Libertà vuol dire garantire che il lavoratore possa esprimere liberamente la propria personalità anche in quest’ambito, con l’espressione lessicale e con il lavoro. Uguaglianza è il moto solidale che spinge a farsi carico dei bisogni dei meno fortunati: dei disoccupati, degli emarginati in modo da superare le perequazioni sociali. Fraternità è l’idea che tutti gli esseri umani, donne e uomini, sono accomunati in un comune destino. Questo destino dovrebbe portarci a prenderci cura l’uno dell’altro. Dovrebbe spingerci alla solidarietà. Il sindacato dovrebbe fondarsi sula convinzione che l’unione, l’unità, è l’unica via per migliorare le sorti dei lavoratori e dell’intero paese. Nessuno deve rimanere indietro. Bisogna voltarsi indietro verso colui che è caduto. Porgergli una mano per alzarlo dalla terra e continuare insieme una marcia verso le mete progressive dell’umanità. Se si ragiona in quest’ottica si può comprendere l’importanza di cambiare mentalità. Basta con le derisioni e i soprusi verso i più deboli. Si può pensare a un progresso sociale inclusivo. Si deve avere la certezza che l’unica via possibile per avere una società migliore è non lasciare indietro nessuno. Per conseguire questo sogno di civiltà i sindacati devono impegnarsi profondamente. La costituzione li rende liberi, devono utilizzare questa libertà per liberare dalle incrostazioni culturali oppressive il mondo del lavoro. Crediamoci per li bene dei disoccupati, dei sottopagati, degli emarginati socialmente, dei soggetti alle angherie e alle derisioni e per tutti noi che abbiamo diritto a lavorare e a vivere in ambiti lavorativi migliori.

BASTA CON I SIMBOLI DELLO SCHIAVISMO



ICONOCLASTIA

Lo sappiamo tutti, iconoclastia è l’attitudine a distruggere tutte le raffigurazioni artistiche o, in generale, tutte le immagini che appaiono in netto contrasto con le nostre più autentiche e profonde convinzioni. Iconoclasti, in alcuni periodi antichi, sono stati i cristiani. Iconoclasti, ancor oggi, sono i mussulmani, che rifiuto nano nettamente la sola possibilità di poter raffigurare la Divinità, Allah. Iconoclasti possono essere radicali. Pensiamo ai truci talebani che hanno distrutto a colpi di cannonate la magnifica e poderosa statua del Buddha in Afganistan. Iconoclasti possono essere i tolleranti funzionari dell’impero turco, pur considerando censurabile rappresentare il divino, hanno addirittura favorito l’utilizzo della miniatura per rappresentare i libri, anche sacri, ed hanno difeso la bellezza lasciata alla Turchia dalla tradizione pittorica e di affreschi propria della cultura Bizantina, cioè dell’impero greco latino che aveva preceduto la presa del potere turcomanna. Oggi nella ricca e culturalmente avanzata America c’è una nuova iconoclastia. Negli Stati Uniti una parte importante dell’opinione pubblica sta chiedendo con forza e decisione che alcuni monumenti dedicati a personaggi del passato siano abbattuti. Perché tali richieste? La risposta è che tali personaggi avrebbero di fatto sostenuto le tesi segregazioniste che hanno caratterizzato un certo tipo di cultura bianca. Si chiede di eliminare dal novero di illustri benefattori dell’università di Howard niente meno che Franklin Delano Rooswelt, uno dei più importanti presidenti della Repubblica degli States, perché sarebbe stato favorevole alla separazione coatta fra etnie diverse. Bisogna precisare, a scanso di equivoci, che non si tratta del Roosvelt del New Deal ma di un altro omonimo che ha governato all’inizio del ‘900. Ma ciò non toglie che la rilevanza politica della richiesta è importante. Rooswelt è colui che ha cambiato radicalmente la politica estera degli States. Senza di lui e delle sue idee l’America non si sarebbe mai posta come faro della democrazia e forse non sarebbe mai entrata nella Grande Guerra a favore delle democrazie del Vecchio Continente contro gli imperi. Ma la smania di distruggere i monumenti agli schiavisti non finisce così. Si vuole letteralmente cancellare dalla memoria storica, niente meno che Cristoforo Colombo, il genovese che ha scoperto il Nuovo Continente. Perché? Anche lui è stato schiavista. Anche lui ha sfruttato e ha compiuto stragi ai danni della popolazione locale ed ha favorito l’ingresso belle nuove terre di africani in catene. Si potrebbe definire un bel pezzo di.. Non a caso ha subito diversi processi per corruzione ed abuso di potere ancora in vita, quando i monarchi spagnoli intendevano vederci chiaro sul suo operato di vice re del Nuovo Mondo. Gli storiografi tendono a ridimensionare le colpe di Colombo nella gestione della amministrazione, però rimane il fatto che ha favorito l’utilizzo di persone come se fossero merci. Ma detto ciò è bene saper cogliere la grandezza dell’uomo che ha saputo vedere al di là dei confini dell’orizzonte, fino al punto di mettere in contatto uomini, donne e terre prima isolate le une alle altre. Insomma bisogna sapere discernere. Un conto è saper riconoscere gli aspetti oscuri e fortemente censurabili degli uomini e dei movimenti che hanno fatto la storia, e un conto chiederne un’assoluta “damnatio memorie”, cioè la cancellazione del loro ricordo. È bene riconoscere che qualsiasi monumento è un plastico elemento storiografico. Una statua, un componimento in onore di un uomo del passato, qualsiasi oggetto che ne richiami la memoria è un prezioso strumento per analizzare il fieri delle civiltà e delle culture. Pensiamo alle tante statue di Lenin erette durante la Guerra Fredda nei paesi dell’Est Europa e distrutte nel 1989. La loro “vita” e “morte” sono un prezioso strumento per capire il susseguirsi delle epoche storiche. Io sono di Bari. L’Università degli Studi della mia città prima della seconda  guerra si chiamava “Università Benito Mussolini”, poi si chiamò semplicemente “Università di bari”, oggi si chiama “Università degli Studi Aldo Moro”, in onore dello statista e professore universitario, che insegnò anche a Bari, ucciso della Brigate Rosse. Cancellare un nome quindi vuol dire cancellare una parte di storia. Ma a chi fa storiografia anche questi mutamenti di nomenclatura, anche questi umori delle piazze che manifestano ritrosia e obbrobrio per nomi e simboli del passato, possono e devono essere un mezzo per capire la storia. Chi distrugge merita di essere condannato come un volgare soffocatore di arte e cultura, sia chiaro. Ma allo stesso tempo attraverso l’osservazione e lo studio di questa sua azione così censurabile, si può e si deve disegnare un’evoluzione del cammino dell’umanità che a salti, facendo anche passi indietro, senza un ordine progressivo che porta a sicuri lidi felici, sta ancora cercando di proseguire su una strada che milioni di anni fa i nostri avi hanno cominciato prendendo un sasso e utilizzandolo come strumento di sopravvivenza e che oggi prosegue andando nello spazio o utilizzando un cellulare. Buon cammino a tutti noi.

PARLANDO DI COSTUZIONE



ARTICOLO 38 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

“Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e l’assistenza sociale.

I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.

Gli inabili ed i minori hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale.

Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.

L’assistenza privata è libera”

L’articolo 38 della Costituzione garantisce il diritto alla vita dignitosa di coloro che sono inabilitati al lavoro a causa di una malattia cronica o momentanea. Chi non è nella possibilità di avere reddito a causa di una patologia ha diritto al mantenimento e all’assistenza. Ha diritto ad essere curato, assistito. È un principio basilare. Chi è in ambasce non deve rimanere solo. La Repubblica si impegna ad assisterlo. Questo è il moto solidale che ha spinto a scrivere questo articolo della Costituzione. La malattia e la disabilità può portare agli abissi della disperazione. Le difficoltà fisiche si accompagnano alla miseria sociale ed economica. La storia ci insegna che nei millenni passati il malato era spesse volte all’ultimo gradino della scala sociale. Basti pensare al lebbroso, scacciato e reietto dalla comunità, che Gesù di Nazareth monda dalla malattia e dal peccato nei Vangeli.  Questo stato di cose deve essere superato. La civiltà moderna ha scoperto il valore della solidarietà. Il prendersi cura dell’altro è il fondamento del vivere sociale della comunità statuale del XX e XXI secolo. Troppo spesso, però, lo stato non garantisce adeguatamente le persone in difficoltà. Troppo spesso il malato e il disabile è lasciato solo. Non gli sono garantite le cure necessarie, non gli è garantito il diritto alla dignità a causa di una legislazione e di un’amministrazione pubblica che troppo spesso latita. Lo stato non è riuscito a creare una struttura assistenziale adeguata alle esigenze della comunità. L’impegno della società civile, del volontariato, ha sopperito alle mancanze istituzionali. Troppo spesso medici, personale paramedico, familiari devono sopperire con il lavoro gratuito alle mancanze istituzionali. Questo dimostra lo straordinario afflato alla solidarietà che caratterizza molti. Allo stesso tempo è la lampante dimostrazione di come le storture del nostro sistema statuale siano da freno all’applicazione dei dettami costituzionali. Il Sistema Sanitario nazionale deve farsi carico dei bisogni del malato. È inaccettabile che, se si è affetti da una malattia cronica, non si possa avere un’adeguata assistenza. Lo stato deve impegnarsi a superare i suoi limiti. Le Regioni devono adempiere il loro compito costituzionale di gestire la sanità e tutelare la salute del cittadino. Il diritto alla salute, il diritto a vivere bene, è uno dei cardini del welfare. Chi sta male ha diritto a curarsi. Se un lavoratore è inabilitato, per una malattia o per il sopraggiungere del peso della vecchiaia, ha diritto ad avere una assistenza adeguata e ha diritto a non perdere il cespite economico. La malattia non deve essere motivo per perdere la paga. È uno dei capisaldi della solidarietà sociale. In caso di inabilità sopraggiunta al lavoro, il lavoratore ha diritto a continuare ad avere reddito. È lo stato, attraverso appositi enti, a sostenere le cure e a provvedere alla difesa del reddito del soggetto. L’INAIL è l’ente pubblico preposto a tale scopo. In passato chi cadeva in malattia, chi aveva un infortunio grave, era destinato a perdere il lavoro e cadere in povertà. Nei secoli la solidarietà popolare ha creato le casse di comune mutualità. Il principio era che chi stava in salute e lavorava si impegnava a dare una parte del proprio salario a un apposita associazione di lavoratori, la mutua, che distribuiva il denaro raccolto ai malati e agli inabili. Questa solidarietà sociale è stata il simbolo di una cultura popolare genuina, impegnata al prendersi cura dell’altro. Il socialismo si è fondato proprio su questo, sull’idea che l’esempio di mutuo soccorso dei lavoratori salariati possa poter costruire una società fondata non sul prevaricare l’altro, ma sul reciproco aiuto. Ora non chiediamoci la realizzabilità di questo progetto. Il sogno di una società fondata sulla comunanza ha prodotto dei mostri, come ad esempio il comunismo sovietico. Quello che ci interessa è notare come l’idea di mutuo soccorso, l’idea che chi ha un problema di salute debba essere supportato dalla collettività, si fondi sulle idee nate dal proletariato sfruttato e derelitto dei secoli XVIII , XIX e XX. Lo stato moderno ha fatto propri quei principi. Le democrazie europee hanno fatto propri i principi di mutualità. Quelle “casse di mutuo soccorso” non sono scomparse. Sono state integrate in un complesso sistema mutualistico che prevede la presenza dello stato assieme a quella delle associazioni dei lavoratori. Oggi il sistema di assistenza nazionale è un sistema complesso in cui la spesa pubblica e il contribuito dei singoli lavoratori interagiscono a garantire il reddito di coloro che non possono lavorare per motivi di varia natura. Anche i disoccupati involontari, cioè che non scelgono ma subiscono la mancanza di lavoro, hanno diritto a un assegno di sostentamento. È la costituzione che lo dice. Gli inabili e i minorati, brutta espressione frutto di un tempo lontano, hanno diritto ad essere avviati al lavoro. Insomma c’è un rovesciamento della cultura del passato. I disabili in passato erano reietti. Oggi la costituzione impone che abbiano un ruolo sociale. L’articolo 38 è chiaro. Chi ha una disabilità psicomotoria o di qualsiasi altro genere deve essere inserito nel mondo del lavoro. Ricordiamo la disabilità mentale, che ancor oggi non ha un adeguato riconoscimento sociale, chi vive questo problema è spesso relegato ed emarginato, invece di essere supportato e inserito nel tessuto sociale. Bisogna cambiare questo stato di cose con un adeguato investimento nei centri di riabilitazione dei soggetti che hanno patologie psicologiche e psichiatriche. La Repubblica si impegna a dare gli strumenti per superare i limiti fisici e psicologici che potrebbero impedire al disabile di inserirsi nel mondo del lavoro. È una rivoluzione copernicana. Dall’isolamento si giunge alla compartecipazione. Per mettere in atto questo principio costituzionale la Repubblica ha previsto che vi siano insegnati definiti di sostegno nella scuola pubblica e privata. Docenti che sostengano, attraverso un rapporto definito “uno a uno”, il processo di apprendimento di un bambino disabile che ha bisogno di attenzioni particolari per poter conseguire risultati scolastici eccellenti. Insomma la riforma della scuola, avvenuta a cavallo degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, è stata anche latrice di una nuova filosofia della formazione del soggetto disabile. Prima chi era disabile era indirizzato alle cosiddette “scuole speciali”con la riforma il bambino è inserito nel tessuto sociale della classe e compartecipa alla crescita collettiva in un fruttuoso interagire fra i ragazzi disabili e i “normodotati”. Tutto non questo sarebbe stato impossibile senza la nostra costituzione repubblicana. Al fine è giusto ricordare l’ultimo comma dell’articolo 38. Lo Stato si impegna a creare istituti pubblici di soccorso ai malati cronici e non. Allo stesso tempo riconosce e garantisce l’attività privata nell’ambito dell’assistenza. “L’assistenza privata è libera” dice l’ultimo comma dell’articolo. Che vuol dire? Che vi possono essere strutture di soccorso al malato fondate sulla mutualità e sull’impegno associazionistico, ma vi possono essere istituzioni private che curano ed assistono per fare profitto. Ci possono essere ospedali che chiedono un compenso per curare. Non bisogna dare un giudizio morale su tali istituzioni. Tanti istituti ospedalieri privati, tante strutture di accoglienza private, sono ottime e offrono aiuto al malato. È giusto che insieme alla mutualità, al volontariato e all’impegno del pubblico vi sia anche il privato nell’ambito sanitario. Il problema è riuscire a trovare un modo per evitare che questo connubio non depauperi il patrimonio di cultura, di solidarietà e di impegno come purtroppo spesso avviene. Leggiamo ogni giorno di scandali e tangenti legati allo strano connubio fra enti statuali e sanità privata.  L’articolo 38 è il monito a costruire una società a misura del malato. È l’impegno della Repubblica a supportare chi è in una fase spesso difficilissima della vita. Pensiamo a chi è affetto da malattia grandemente debilitante. È giusto che sia rispettato il suo afflato solidale. È giusto che lo stato, le istituzioni nazionali e locali, le associazioni di volontariato del settore, i singoli cittadini si impegnino quotidianamente ad attuarlo. Si impegno ad assistere chi è più debole e bisognoso.
Testo di Pellecchia Gianfranco

lunedì 29 giugno 2020

AUGURI GIACOMO



NACQUE LEOPARDI

Il 29/06/1798 nacque a Recanati Giacomo Leopardi. Il fanciullo sarebbe stato colui che avrebbe rivoluzionato l’arte di far poesia nell’Italia preunitaria. La sua capacità di scrivere versi nuovi, autentici, che vanno al di là degli schemi rigidi dell’allora arte poetante, ha rivoluzionato radicalmente il modo di pensare il verso non solo fra i dotti ma anche fra la gente comune. Scrivere in versi da allora, anche nel nostro paese, è diventato uno strumento per disvelare la propria anima, anche per persone che non hanno un grandissimo bagaglio grammaticale e lessicale. Ricordiamo che Giacomo Leopardi ha comunque una profonda conoscenza della cultura classica greca e romana, giovanissimo conosce il Greco Classico e le sue regole metriche ed oratorie. Malgrado questo rivoluziona i canoni classici, la sua composizione poetica ottocentesca è, diciamolo, un sovvertimento delle regole classiche . D’allora la poesia serve per ricordare i rumori familiari del villaggio, della campagna abitata dai contadini e dalle allevatrici, per ricordare i suoni dolci che provengono dalla solida casa familiare. Insomma Leopardi è stato capace di rendere poesia il quotidiano. La donzelletta che vien dalla campagna, il pastore che conduce il gregge, il suono “chioccio” della gallina sono diventati elementi letterari grazie allo sforzo intellettuale del poeta di Recanati. È un vera e propria rivoluzione. Un capovolgimento delle regole del canto poetico che influenzerà l’opera di altri grandi intellettuali, pensiamo alla poetica di Giovanni Pascoli, ma non è solo lui che ha come punto di riferimento Giacomo Leopardi. Anche Giosuè Carducci si fece invadere dalla poesia leopardiana, fino al punto che le sue “Odi Barbare” hanno si il piglio classico ma rompono gli schemi oratori del passato. Anche i grandi poeti ermetici del ‘900 si fecero influenzare da Leopardi, anche quando provarono e riuscirono a rovesciare il suo impianto poetico. Ad esempio la poesia ermetica, quella di Ungaretti, Quasimodo e Montale, era l’opposto di quella Leopardiana, cercava nell’asciuttezza dello scrivere il cogliere l’essenza dell’uomo. Non avrebbero mai riconosciuto nella lunghezza del racconto ad esempio della “Ginestra”, uno degli idilli (così chiama i suoi canti) più importanti del recanatese, il centro della poesia. Ma hanno apprezzato lo splendore dell’”Infinito”, capace di raccontare l’assoluto solo descrivendo una siepe e alludendo a ciò che potrebbe essere oltre, una delle poesie più dense di significato di Leopardi. Insomma Leopardi è allo stesso tempo poeta delle piccole cose e cantore dell’Universo, che lascia annichilito il pensiero umano. È il poeta che canta il pastore errante dell’Asia, rimasto basito della sproporzionata assolutezza delle stelle di fronte alla disperata finitezza dell’essere umano. Insomma la poesia di Leopardi contiene tanto, forse troppo, pensiero per essere interamente compreso. È il cantore dell’infinitamente semplice e piccolo e dell’immensamente complesso e grande. È colui che si innamora della nobile signora come della semplice donna di paese, Silvia, e sa cogliere in tutte le due figure la bellezza e la perfezione assoluta, purtroppo segnata dalla natura crudele che segna la decadenza di ogni cosa, anche le cose più care al cuore. Ecco perché la “rimembranza”, il ricordo del fugace attimo di gioia e di bellezza, è l’aspetto centrale della poesia di Leopardi. Nulla si percepisce nella sua interezza al momento che avviene, anche l’innamoramento, pur essendo bellissimo, non può essere percepito interamente se non diventa ricordo. Ecco uno degli aspetti più tristi della poetica leopardiana, dove si annida il suo vero pessimismo, la felicità non può essere veramente vissuta ma solo ricordata e, quindi, rimpianta. Ma mi permetto di dire che questo è ciò che rende grande il poeta morto a Napoli il 14 giugno 1837, la sua capacità di esprimere nel suo canto il struggersi dell’animo umano che coglie ciò che è l’essenza del vivere, che la sfiora, che ci va vicino, che quasi l’accarezza, ma non la può vivere compiutamente, la può solo ricordare come in un rimpianto di cosa perduta per sempre. Allora rileggiamo Giacomo Leopardi, rileggiamo i suoi Canti, è cerchiamo con lui il bello che abbiamo perso nella speranza mai doma di ritrovarlo un po’ più avanti nella nostra vita.

PIETRO E PAOLO



CHI FECE IL CRISTIANESIMO

Oggi la chiesa cattolica festeggia la nascita al cielo, cioè la morte, di San Pietro e San Paolo. I due uomini che costruirono la prima comunità cristiana. Pietro ebbe il mandato da Gesù mentre questi era ancora in Vita: tu sei Pietro e su questa pietra fonderò la mia Chiesa, cioè la mia comunità.  E Paolo ebbe il mandato sulla via di Damasco e dall’ora da ebreo osservante diventò uno dei predicatori più instancabili della buna novella portata dal foglio di Maria. Paolo e Pietro sono i cardini della dottrina non solo cattolica , ma di tutte le professioni di fede cristiane, anche gli ortodossi e i protestanti li verano con assoluto riconoscimento della loro santità e della loro rilevanza nella storia della salvezza. Paolo è l’aposto delle genti. Cioè si spese per predicare la lieta novella a coloro che erano denominati “gentili”, cioè pur giusti non di religione ebraica. Pietro, invece, fu fin dal principio il fulcro di tutta la comunità che credeva in Dio. All’inizio, all’indomani della morte e della resurrezione di Gesù, operò a Gerusalemme. Fu protagonista assoluto dello scontro dialettico con i farisei, la comunità di fede ebraica allora più importante e influente. I Farisei erano coloro in grado di egemonizzare la dottrina e la teologia ebraica. Ancor oggi l’ebraismo moderno ha come basi i loro dettami teologici. Allora appare evidente che la sfida dei primi cristiani a loro era una importante leva per far nascere un pensiero e una visione propria di quello che sarà il cristianesimo, quale nuova religione diversa ed autonoma rispetto a quella ebraica. Entrambi i santi, sia Pietro che Paolo, hanno un  ruolo fondamentale nel costruire il pensiero religioso cristiano. È in una lettera di Paolo che si esprime il concetto che Gesù è allo stesso tempo Dio e Uomo, che Gesù è il “servo sofferente” che si sacrifica fino alla morte per redimere tutta l’umanità. È Pietro che riconosce Gesù come Figlio di Dio, come unigenito e della stessa sostanza del padre. È la messa in luce di queste verità che rende sia Pietro che paolo quali fulcri del cristianesimo nei millenni, fino al punto che ancor oggi non sono solo dei santi e dei dotti, ma sono considerati quali fondamento di tutta la costruzione teologale e teleologale, cioè il fondamento dei fini escatologici, della dottrina di tutti i cristiani. Sia Pietro che Paolo scelsero alla fine della loro vita di andare a Roma, nel primo / secondo secolo dopo Cristo centro del mondo. Pietro divenne il primo papa, cioè il primo vescovo, guida spirituale dei fedeli dell’Urbe. Paolo, primo cristiano di cittadinanza romana, racconto ai suoi concittadini il valore del messaggio evangelico. Sono esplicative le sue “Lettere ai Romani”, cioè le sue missive alla prima comunità di cristiani residenti nell’Urbe centro del mondo. Pietro era Ebreo, era anche cittadino Romano, e scelse di morire perché Cristiano. Nelle sue lettere scritte al fido Timoteo scrive dal carcere, in prossimità della morte, esprimendo la sua convinzione che è giusto morire per il vangelo di Gesù. Lo stesso farà Pietro, mangiato dalle fiere, durante la persecuzione di Nerone. Rinunciando alla salvezza, stava già fuori Roma quando iniziarono le persecuzioni scegliendo di tornare e di farsi mangiare dalle fiere. La sua scelta sarebbe stata il frutto di una visione: avrebbe visto Gesù su una nuvola che gli chiedeva “Quo vadis? Dove vai?” indicandogli la via del martirio. Sia Pietro che Paolo sono morti martirizzati. Hanno seguito la strada della Croce già percorsa da Gesù. Il loro esempio è stato luce per le genti, e faro della chiesa. È bene ricordare l’importanza della loro testimonianza, proprio in questo giorno d’estate in cui la Chiesa pone la loro nascita al cielo.

PARLANDO DI COSTITUZIONE



ARTICOLO 37 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

“La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavori, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.

La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato.

La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione”

La Costituzione intende garantire l’uguaglianza sostanziale delle persone. Le donne hanno gli stessi diritti dei colleghi maschi in ambito lavorativo. È un principio non scontato. Ancor oggi le donne, al pari dei disabili, e dei meno fortunati vivono nei fatti uno stato di subalternità verso gli altri colleghi, maschi. Se lo stato di frustrazione lavorativa dei soggetti meno fortunati appare scontata. Chi è disabile è inevitabilmente destinato all’emarginazione, come dicono le statistiche. La crisi economica ha principalmente colpito quelle che con ipocrita ironia si chiamano “categorie protette”, soprattutto al sud. Appare una follia che le donne, più scolarizzate, più preparate e con maggiori titoli rispetto ai colleghi maschi siano emarginate. L’evoluzione educativa di questi decenni di repubblica ha portato ad avere un maggior numero di laureate rispetto ai laureati. Perché allora la donna, pur preparata, ha un ruolo subalterno rispetto al maschio? La risposta può essere: lentamente la donna sta cambiando ruolo. Ci sono sempre più donne manager, le aziende cominciano ad avere nei loro vertici e nei loro consigli di amministrazioni rappresentati del genere femminile che svolgono ruoli apicali. Le istituzioni pubbliche hanno nel loro organico, anche ai massimi vertici dirigenziali, donne. Ci sono magistrati donne, ci sono medici del gentil sesso, ci sono signore ministri.  Questo è un dato obbiettivo. Ma rimane costatabile che la percentuale di donne nei ruoli chiave è minore rispetto a quella maschile. Fenomeno ancor più grave è il fatto che a pari mansione lavorativa la donna riceve una paga inferiore rispetto all’uomo. Questo dato statistico contrasta evidentemente con i principi esposti nell’articolo 37 della Costituzione. Questi sancisce che la donna deve avere la stessa retribuzione del collega uomo a parità di mansione. Perché ciò non avviene? Perché l’uguaglianza economica è ancora lontana da pervenire? La risposta è nella molteplicità e nell’ambiguità della vita economica. In ambito lavorativo diviene oggettivamente difficile portare quei valori di eguaglianza, di solidarietà sociale e di collaborazione che sono il cardine della Costituzione. I rapporti di forza, anche i rapporti di genere, divengono gli elementi predominanti a discapito di un comportamento etico coerente. Ma allora la costituzione è solo una manciata di parole inutili? Allora i valori costituzionali di eguaglianza e solidarietà sono pie illusioni? No! E’ compito di noi cittadini, della politica, far camminare sulle nostre gambe quei valori solidali. Cambiare si deve e si può! Spetta alle donne farsi protagoniste del cambiamento. Sono loro che devono chiedere a gran voce parità ed uguaglianza. Lo devono fare per se stesse e per tutti i soggetti sociali svantaggiati. Una società migliore è possibile grazie all’impegno femminile che battendosi per i propri diritti può costruire una società migliore. Mi ricordo le mie amiche di scuola, vere guerriere della giustizia, che mi difendevano, disabile, dalle angherie dei maschi. Mi difendevano contrapponendo alla violenza verbale, e alcune volte fisica, i valori di solidarietà e comunanza, i valori etici che sono racchiusi nel cuore femminile e sbocciano dando grazia. L’emancipazione femminile è lo strumento per l’emancipazione dell’intero genere umano. Solo la donna può incarnare quei valori solidali che sono il fondamento del principio di eguaglianza. La lotta della donna coincide con la crescita della società umana. Proprio perché la donna è un essere straordinario lo stato deve garantire che la sua persona si compia nella sua totalità. Un aspetto importantissimo della vita di una donna è la maternità. Sia chiaro nessuna donna può essere costretta ad essere madre. Fare figli è una scelta personale, legata anche alle diverse vicende della vita, la maternità è una scelta libera. Ciò deve essere ritenuto scontato, un dato acquisito. Ma se la donna decide di essere madre, lo stato deve garantirgli tutti gli strumenti per svolgere il duplice ruolo di genitore e di lavoratore. Deve garantirgli che l’accudire dei bimbi non gli pregiudichi la sua giusta aspirazione di realizzarsi nell’ambito lavorativo. La repubblica deve garantire la presenza di strutture di supporto all’infanzia. Ci devono essere asili, scuole e centri formativi, che possano accogliere i piccoli mentre la donna è impegnata nel suo lavoro. Ci devono essere compensazioni economiche quando la donna sceglie di limitare il tempo dedicato al lavoro per curare i piccoli, con evidenti ripercussioni per il proprio reddito. Se una donna lavora part time, con la conseguente riduzione dello stipendio, per pensare alla famiglia ci devono essere strumenti compensativi. La Repubblica li prevede, ma non sono sufficienti, devono essere potenziati e aumentati per adempiere il dettame costituzionale.
Per quanto riguarda il lavoro minorile,  tutelato grazie alle splendide parole del secondo e terzo comma dell’articolo 37, è bene dire che in Italia dovrebbe sparire. L’età della fanciullezza coincide con quella della formazione culturale. La riforma della scuola impone che fino a diciotto anni una persona non debba lavorare, ma formarsi culturalmente. In passato non era così. Nei campi, nelle fabbriche, nei cantieri edilizi era facilissimo trovare giovanissimi al lavoro. Anche oggi il fenomeno esiste, ma prima era tollerato dalla legge, oggi chi sfrutta un minore anche over quattordicenne commette un reato penale. In passato la soglia minima per il lavoro era quattordici anni. Il lavoro minorile, il lavoro dei bambini è una piaga tremenda. Tante giovani vite sono andate perdute, tanti ragazzini sono morti nei luoghi di lavoro, mentre il loro ruolo doveva essere quello di studente. La Costituzione è stata scritta in anni terribili. Era un’epoca dove i diritti dell’infanzia venivano calpestati. Vittorio De Sica, grande regista, in quel periodo gira “Sciuscià” un film che denuncia la vita grama del mondo dell’infanzia. Ma non c’è bisogno di scomodare il cinema, chi ha una certa età, come me, può facilmente ricordare il lavoro nei campi dei bimbi e delle bimbe che avveniva solo qualche decennio fa. Insomma lo sfruttamento minorile è una piaga tremenda. Una piaga ancora insanata. Ancor oggi si vede al lavoro piccoli e piccole. Sono figli e figlie di immigrati che vengono sfruttati. Un fenomeno tremendo che risucchia questi pargoli anche nell’oscuro mondo della criminalità. Sono tremende le notizie di sfruttamento anche sessuale di questi minori. Allora appare chiaro che l’articolo 37 deve essere ancora applicato nella sua interezza. Ci si deve impegnare per dare parità alle donne. In questa materia diverse norme sulla parità di genere, cioè volte a garantire che ci sia una sostanziale parità in ambito lavorativo fra uomo e donna, sono state fatte, ma non bastano. Ci sono più donne negli uffici pubblici, più donne negli organi di polizia e dell’esercito, più donne in magistratura e in politica. Bisogna fare di più. Bisogna non solo arrivare alla parità, ma abbattere quelle barriere di violenza di prevaricazione maschile. La donna non deve essere molestata, la donna non deve essere sfruttata. Questi sono obbiettivi fondamentali da raggiungere. Bisogna costruire una società che abbatta le barriere, che vinca le ingiustizie. Lo ribadisco la battaglia delle donne è il motore per vincere tutte le altre battaglie sull’uguaglianza. I diritti delle dono sono il volano per difendere tutti gli altri soggetti. La donna è forte, riuscirà a vincere la sua battaglia di uguaglianza rivendicando anche i diritti dei disabili dei più deboli dei bambini anch’essi calpestati.
Scritto da Pellecchia Gianfranco

IL CENTRO DEL MEDITERRANEO


TARANTO

Oggi le cronache ricordano Taranto come la città dell’acciaieria più grande e controversa d’Europa. Il luogo ove sorge l’ex Ilva ormai in mano a una multinazionale il cui proprietario è di nazionalità indiana e che è legata alle fortune e, soprattutto, alle disavventure finanziarie e industriali del territorio. Ma Taranto è esplicitazione di tutta la fulgida storia del bacino del Mediterraneo. Un luogo geografico che ha visto nascere una civiltà che ha solcato il tempo e la storia. Secondo la tradizione Taranto è stata fondata da Taras figlio di Poseidone, il dio greco del mare, e di Satyra, una ninfa, il cui nome richiama la poesia, le satire sono scritti poetici di carattere bucolico utilizzate anche, se non principalmente, per indirizzare invettive spesso forti contro i potenti, da cui l’aggettivo che tuttora utilizziamo “satirico”. Insomma Taranto nasce sotto il segno da una parte del potere sul mare e dall’altra sulla capacità di utilizzare l’arte come strumento per osservare e cambiare la realtà. È un segno importante. È una caratteristica che la cittadina conserverà nei millenni. A prescindere dalle note mitologiche, quello che è certo: l’origine spartana del sito. Furono coloni della città del Peloponneso a porre i loro primi insediamenti nel golfo che si chiamerà “di  Taranto”. Sono loro a conformare l’aspetto geomorfologico del sito. Costruiscono templi, di cui ancora oggi si possono ammirare i resti, e costruisco un tessuto sociale in cui gli interscambi con la popolazione locale offrono benessere e ricchezza a tutti. Taranto fin dall’Ottavo secolo Avanti Cristo è il fulcro dei commerci in tutto il Mediterraneo Occidentale. Ha relazioni con la Sicilia, altra grande protagonista della colonizzazione greca di tutto il Mediterraneo. Ha rapporti, che si alternano fra pace e guerra, con Cartagine altra città del Mediterraneo occidentale fondata da un popolo orientale, i Fenici. Taranto è il luogo natale di filosofi, politici, strateghi e matematici di gran pregio. Questi sono rimasti nella memoria per la loro profondità di pensiero e la loro intelligenza. Ricordiamo il contributo fondamentale che hanno dato alla scuola pitagorica. Fatale, dobbiamo dire, per le sorti di Taranto, fu l’incontro con la potenza di Roma. Taranto cercò sempre di contrastarla. Si alleò con re dell’Epiro, Pirro, nel 281 Avanti Cristo nella speranza di prevalere sull’Oppido latino. Si alleò pochi decenni dopo addirittura con la nemica Cartagine e si mise al fianco del temibile condottiero cartaginese Annibale, ma anche in questo caso Roma prevalse, con la vittoria di Scipione l’Africano a Zama. Questo fu il tramonto del potere politico di Taranto, della sua egemonia sui territori dell’Italia Meridionale. Roma la mise in catene. Addirittura la soppianto come testa di ponte fra l’Italia e il mondo ellenico orientale, la Grecia e il Medio Oriente. Da allora il “Porto” per antonomasia della Puglia non sarà più Taranto ma la romana Brindisi. E’ la fine del simbolo stesso della grandezza della città del Golfo. Il suo porto, rifugio sicuro per tutte le navi che compivano i grandi viaggi, diventerà un approdo periferico e ininfluente, rispetto alla grandezza e la prosperità che assumerà quello di Brindisi. Ma Taranto non muore. Il suo bagaglio di ricchezza economica e culturale la continuerà a vedere come splendida luce che illumina il buio delle menti. Taranto rimarrà per sempre luogo di dialogo e di confronto fra prospettive e culture diverse. Non è un caso se dopo la caduta dell’impero romano d’occidente, con incipiente scontro fra Bizantini, cioè le flotte imperiali dell’Impero Romano d’Oriente, e i nuovi padroni della Puglia, i Normanni, arrivati intorno all’anno 1000, Taranto ritorna ad essere centro politico fondamentale, fino al punto da essere una delle capitali dei territori meridionali  occupati dai Barbari normanni che diventerà testa di ponte per la conquista di Gerusalemme durante la prima crociata nel 1063. Ma la storia di Taranto attraversa i secoli. È stata uno dei fulcri del potere politico militare in Puglia per millenni. Non solo i Normanni vollero costruirvi roccaforti del loro potere militare, anche Federico II di Svevia, l’imperatore del Sacro Romano Impero che fu anche re di Sicilia e di tutta l’Italia Meridionale, costruì il suo potere su Taranto e vi lasciò il suo segno. Gli Aragonesi nel 1300, che istaurarono una secolare dominazione spagnola dell’Italia  Meridionale, posero in Taranto la loro potentissima flotta navale, ponendo le fondamenta della tradizione navale che rende ancor oggi la città pugliese fra le più importanti al mondo per quanto riguarda il controllo militare dei mari. Taranto, infatti, è stata e continua ad essere il porto di tutte le dominazioni che ha subito. E’ stata la culla della marina militare Borbonica ed oggi è, assieme a Genova e Trieste, l’elemento cardine della Marina Militare Italiana. Qui si trovano i quartieri generali delle truppe di marinai meglio addestrati nel nostro paese. Insomma Taranto è il fulcro, da sempre, della storia del Mediterraneo. All’indomani della fine della seconda guerra mondiale la nascente Repubblica Italiana decise di far sorgere nei suoi ambiti territoriali la più grande acciaieria mai pensata in Europa, proprio perché Taranto è collegata con ogni angolo del pianeta attraverso una infrastruttura portuale all’avanguardia sia dal punto di vista della logistica civile sia da quella militare, con cui divide con Brindisi il primato. Insomma la storia di Taranto è la storia di un popolo attaccato alla sua terra, ai suoi campi, alle sue produzioni (famosissimi e apprezzatissimi in tutto il mondo sono i suoi frutti agricoli dagli ulivi alle arance), che guarda al futuro attraverso il commercio e l’attività industriale. Oggi la grande acciaieria è in crisi. L’Ilva rischia di perdere molto del suo rilievo mondiale nella produzione di acciaio. La grande fabbrica che ha caratterizzato per decenni l’assetto industriale della città è in crisi. Sono a rischio tanti posti di lavoro. Ma la tradizione, la cultura, aperta all’altro che caratterizza il popolo di Taranto sarà capace di superare ogni ostacolo e barriera. Lo crediamo fortemente.

sabato 27 giugno 2020

PARLANDO DI COSTITUZIONE


ARTICOLO 36 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA
“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa.
La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge
Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”.
Continua la pubblicazione da parte di "Racconto a mano libera" degli articoli della Costituzione italiana in occasione dei settanta anni dalla promulgazione del testo fondamentale della Repubblica.
L’articolo 36 rende il diritto del lavoratore ad avere dignità un principio costituzionale. Tutti hanno diritto ad essere retribuiti adeguatamente per le loro prestazioni. Tutti hanno diritto a un salario congruo al lavoro svolto. Tutti hanno diritto a vivere la vita in maniera dignitosa grazie a un reddito congruo ai propri bisogni. Sono principi cardine dell’ordinamento giuridico in materia lavoristica. La costituzione pone al centro l’uomo. Chi lavora deve sentirsi soddisfatto. Deve poter essere orgoglioso del proprio faticare. Troppo spesso si assiste a casi di mobbing. Casi in cui un soggetto viene deriso e percosso, allegoricamente o nel vero senso della parola. Casi in cui un lavoratore viene messo all’angolo, schernito dalla dirigenza e da quelli che si chiamano colleghi. La risposta a queste brutture è la costituzione. La legge, i principi morali e giuridici, devono entrare nel mondo del lavoro. Il principio di solidarietà è un modo migliorare la vita. La legge che istituisce il reato di Mobbing è una vittoria giuridica, ma a una vittoria normativa deve seguire un cambiamento culturale nell’ambito lavorativo. Non basta stabilire che chi viene messo all’angolo, deriso, chi gli è impedito di lavorare subisce un reato. Bisogna avviarsi verso un cambiamento etico nelle istituzioni e nelle fabbriche. L’uomo deve essere messo al centro. L’obbiettivo del profitto deve essere messo in secondo piano. Guadagnare è indispensabile per far vivere un’impresa. Ma l’impresa non può sacrificare uomini e donne sull’altare del guadagno. Una visone etica del lavoro scongiura ogni forma di astio e di violenza fisica e psicologica. La solidarietà dei lavoratori è basilare. Bisogna essere vicini ai più deboli, vicini a coloro che hanno bisogno di sostegno. La solidarietà fra i lavoratori è fondamentale per pensare a un lavoro migliore. Le associazioni di mutuo soccorso sono nate nell’Ottocento. Erano improntate all’idea che i lavoratori fossero uniti da uno spirito solidale. Si lavorava per coloro che non potevano farlo, era questo il principio. La cassa di mutuo soccorso raccoglieva parte del salario di colui che lavorava per darlo a colui che non poteva lavorare, perché malato. Da questo moto solidale è nata quella che è oggi la mutualità, il sistema di protezione di chi non può lavorare in caso di malattia o infortunio. Ci sono tanti aspetti del mondo del lavoro che non sono in sintonia con l’articolo 36. Il lavoro nero e sottopagato è apertamente in contrasto con il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro. Troppo spesso si può costatare che i salari non riescono ad emancipare dalla povertà. Sono tante le famiglie, che pur avendo un componente in attività lavorativa, nei fatti e nella realtà hanno un reddito bassissimo. Bisogna cambiare questo stato di cose. Bisogna lottare contro il lavoro nero. Questo da un lato sfrutta e dall’altro altera la reale mappa della ricchezza della società. Quanti redditi non appaiono. Se un lavoratore pagato a nero ha poco con cui vivere, dietro a questo orrore c’è qualcuno che ci guadagna e ruba, letteralmente, risorse anche allo stato. Dirselo è indispensabile. Parlare di quello che sta avvenendo nel Meridione del nostro paese, e non solo, è doveroso. Parlare delle migliaia di persone che lavorano nei campi e nelle fabbriche senza alcuna tutela sanitaria, senza alcuna garanzia, senza alcuna protezione. Persone che lavorano per dieci, dodici ore al giorno. Persone che nei campi assolati dell’estate pugliese lavorano alla raccolta dei frutti della terra dall’alba al tramonto, con un astro solare che brucia la pelle. La legge italiana impone un massimo di otto ore giornaliere di lavoro. È una norma che adempie il dettame del secondo comma dell’articolo 36, che invita il legislatore a porre un limite massimo alla giornata lavorativa. In realtà questo limite è spesso superato. Lo sfruttamento delle persone arriva a livelli allarmanti. Nei grandi centri commerciali, nelle fabbriche di grande distribuzione, è l’esempio di Amazon,i lavorati sono sottoposti a ritmi inumani e ad orari di lavoro inaccettabili. Il “braccialetto”, un dispositivo messo in uso dalla famosa ditta di vendita online, è uno strumento aberrante. Un braccialetto elettronico viene dato al lavoratore, questo strumento monitorizza il lavoro del dipendente, lo controlla e anche gli ordina come muoversi, praticamente attraverso impulsi elettronici gli dice quali siano i movimenti più congrui per fare velocemente il proprio lavoro. Il lavoratore diviene così un robot. Viene controllato in ogni momento della giornata lavorativa e indirizzato, non vi sono spazi di libertà. Siamo ai limiti dell’indecenza. Nessuno può rendere l’altro una macchina. Nessuno può imporre un lavoro alienante al punto da annullare la mente. Attraverso gli impulsi del braccialetto i lavoratori dell’amazon non scelgono, eseguono ordini anche quando compiono piccolissimi gesti. Ribellarsi alla robotizzazione dell’uomo mi pare necessario. Il lavoro deve essere dignitoso. Si deve lavorare le ore previste dalla legge, si deve essere retribuiti adeguatamente se si superano i tetti previsti attraverso straordinari. Bisogna lottare per raggiungere questi obbiettivi, che non sono solo di natura economica ma anche culturale. Dare dignità al lavoro non vuol dire solo garantire una giusta retribuzione, significa anche rendere il lavoro quello che dovrebbe essere cioè un benefico modo per manifestare la creatività umana. Non siamo macchine. Non dobbiamo mettere timbri, o compiere gesti meccanici, dobbiamo, con la nostra creatività, contribuire alla crescita del paese. Questo è lavoro. Creare le condizioni per vivere meglio e far vivere meglio gli altri. Non è utopia. Si può pensare a un lavoro più inclusivo, dove chi è disabile può avere un ruolo, non è escluso e cacciato come oggi, dove si può costruire un’idea di comune sforzo in cui nessuno è escluso. Un modello in cui le crisi economiche non vogliano dire licenziamenti. Le crisi economiche dovrebbero essere un momento per ripensare al modello lavorativo, non arrivando alla conclusione che ridurre il personale è la scelta vincente, ma pensando che progettare un modello lavorativo che prevede la partecipazione attiva di tutti è possibile. L’ultimo comma è dedicato al diritto alle ferie retribuite. Oggi ferie è sinonimo di mobbing. In una società economica sclerotizzata l’essere in ferie è anticamera del licenziamento. Prima ti escludo e poi ti elimino, per usare termini duri. Chi lavora non va in ferie, chi va in ferie sarà licenziato. Questa logica è il frutto di una crisi economica che attanaglia il nostro paese da anni. Invece il diritto alle ferie dovrebbe essere il modo per armonizzare la propria vita. Il modo per conciliare le sfere della propria esistenza. Penso a chi non può mai andare in ferie. Come sarebbe bello per lui vivere alcuni momenti nella quiete del proprio focolare. Penso a colui, che super sfruttato, non ha mai visto un giorno di riposo. Queste sono le ferie. Diritti troppo spesso negati. Bisogna cambiare questo stato di cose. Bisogna pensare che il lavoro serve all’uomo, non il contrario. Bisogna pensare che non è giusto buttare via una persona. Non è giusto utilizzare uno strumento di diritti, quale le ferie, per ghettizzare l’altro. Le ferie devono essere felicità, non la plastica costatazione che il lavoro è negato a chi è oggetto di derisione. Chiedo scusa per il mio scrivere confuso. L’articolo 36, come tutta la parte della Costituzione dedicata al diritto al lavoro, offre spunti di dialogo complessi. I valori su cui si basa sono così importanti che necessitano un’elaborazione mentale complessa a cui il mio intelletto non è abituato. Il diritto al lavoro, alla dignità nell’ambito lavorativo, alla giusta retribuzione, alle ferie e al giusto orario di lavoro sono conquiste fondamentali che hanno necessitato l’impegno di milioni di lavoratori per ottenerli. Ancor oggi, come abbiamo detto, per moltissimi quei diritti vengono negati. Bisogna lottare, bisogna credere che una vita migliore è possibile per tutti. Bisogna avere quel senso di solidarietà che ci spinge a sentirci uguali, in quanto esseri umani, anche se svolgiamo attività lavorative diversissime, anche se siamo culturalmente distanti, anche se lavoriamo nei campi o negli uffici. Il lavoro è ricchezza non solo economica ma anche morale e umana. Si vive meglio se si lavora bene insieme agli altri. Scusate se in queste pagine non ho parlato del lavoro della donna. In Italia le statistiche dicono che il mondo femminile è sfruttato, sottopagato più di quello maschile. A parità di mansioni una donna guadagna meno di un uomo. Queste sono le realtà statistiche. L’Uguaglianza dei generi si conquista soprattutto nell’ambito lavorativo. La donna, che in questi anni ha raggiunto livelli di scolarizzazione ragguardevole, ci sono più donne laureate che maschi, deve avere un ruolo di primo piano anche nelle aziende e nelle imprese pubbliche è private. Bisogna difendere la dignità della donna. Bisogna riconoscere l’impegno del genere femminile, garantendogli stipendi adeguati al loro ruolo. Cambiare si deve. I diritti non devono essere un vessillo, ma devono concretarsi nel quotidiano. Il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione deve diventare materia viva, deve manifestarsi nel quotidiano. Insomma l’articolo 36 offre grandi temi di dibattito e di spunti. A settantenni dall’entrata in vigore della Costituzione non è stato onorato. Ancor oggi si vive nello sfruttamento. Ancor oggi il lavoro esclude i meno pronti ad affrontare la vita, come i disabili, invece di aiutarli ad avere un ruolo sociale. Ancor oggi si è derisi e vilipesi nei luoghi di lavoro. Ancor oggi il riposo è un concetto vago. Cambiare è possibile, adeguarsi al dettame costituzionale è necessario per vivere meglio.
testo di Pellecchia Gianfranco

PARLANDO DI COSTITUZIONE




ARTICOLO 35 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

“La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.

Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori.

Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro.

Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse generale, e tutela il lavoro italiano all’estero”

L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, dice l’articolo 1 della Costituzione. La Repubblica tutela i lavorati, afferma l’articolo 35, a corollario del primo. L’articolo Trentacinque è il primo del Titolo IIII, il capitolo della costituzione in cui si enunciano i diritti dell’uomo all’interno dei rapporti economici. Si parte dal lavoro, si parte dal principio che bisogna tutelarlo in tutte le sue forme. Questo è un principio di sana economia. Non si vive per lavorare, ma si lavora per vivere, dice un detto popolare. Tutte le forme di lavoro hanno pari dignità. Tutti i lavoratori hanno diritto a una vita dignitosa. In realtà ancor oggi non è così. A settant’anni dalla costituzione il lavoro non è tutelato. Ai disabili è negato. Ai meno fortunati è destinato un lavoro gramo e meno tutelato. Ancor oggi, cosa che dovrebbe essere motivo di scandalo come dice papa Francesco, il lavoro è strumento di esclusione non di inclusione. Spesso è sottopagato, il lavoro è sfruttamento nei campi, nelle fabbriche e nei lavori impiegatizi. Si è sfruttati e buttati via senza una motivo. Le persone diversamente abili sono semplicemente escluse, anche in barba a tutti i valori che dovrebbero essere patrimonio comune della nostra comunità nazionale, che dovrebbe essere fondata su principi cristiani. A questo proposito è nota la polemica fra Comunità Europea e chiesa sulla questione di fondamenti cristiani dell’Europa. Secondo chi scrive il dovere di inclusione sociale, di rispetto e di dignità per i disabili e per i meno fortunati, non è solo dovere del cattolico. Non basta dirsi ateo per giustificare la volontà di espellere dal mondo del lavoro i meno fortunati. La politica di inclusione sociale travalica lo spirito religioso, è il moto di ispirazione collettiva. Si possono anche rifiutare i valori costituzionali. A me è capitato di discutere sul tema dell’inclusione, il mio interlocutore ha detto “sono valori tuoi” i valori di solidarietà. È giusto che sia così. È giusto che i cittadini consapevolmente rifiutino i valori di solidarietà. è giusto che lo si faccia apertamente. Fino ad oggi l’emarginazione, l’esclusione era sottobanco. Oggi orgogliosamente la si rivendica. Far emergere la realtà sociale di emarginazione anche nel dibattito pubblico fa bene. L’Italia non è la Penisola solidale che vorrebbe essere, ma è un luogo di emarginazione e di esclusione, è un luogo di lavoro nero e di sfruttamento. Davanti alle crisi economiche si sceglie di mettere all’angolo i più deboli. Nei momenti di ripresa si esclude il meno fortunato. Sono gesti comuni che contrastano con i valori etici del Cristianesimo e della Costituzione. Le persone devono prendere atto di questo. Devono scegliere o la costituzione e la solidarietà cristiana o la vita come è oggi. Le ipocrisie non sono più possibili. Insomma non si può più avere un atteggiamento ipocrita. Un atteggiamento di falsa solidarietà, che poi si smaschera davanti allo stato di abbandono sociale in cui versano le fasce della società più deboli. Noi che scriviamo crediamo in Dio e nella Costituzione. Crediamo che sia giusto che tutti abbiano dignità, anche i più deboli e gli emarginati. Combattiamo  idealmente contro questa cultura economica che umilia ed esclude. Il lavoro è un bene prezioso. È l’esplicitazione di le facoltà umane che trovano il loro compimento nello sforzo ad operare. Il lavoro è costruire un manufatto. Il lavoro è saper scrivere una pratica d’ufficio. Il lavoro è saper faticare con spirito di volontà e sacrificio. Bisogna cogliere la dignità dei gesti che si compiono durante la giornata lavorativa. Bisogna avere comprensione e spirito di solidarietà verso coloro che non possono svolgere mansioni utili alla società, perché esclusi e disoccupati. Il compito della repubblica è dargli una possibilità, offrirgli una speranza di riscatto. Come fare? Attraverso la formazione e la specializzazione professionale, che dovrebbe essere un impegno collettivo. Lo afferma chiaramente il comma due dell’articolo trentacinque.  Se i disabili, se gli emarginati, se i migranti sono impossibilitati ad inserirsi nel mondo del lavoro non devono essere espulsi, ma formati. Questo ovviamente vale anche per tutti i singoli cittadini e cittadine che hanno diritto a un percorso di formazione professionale. L’economia cresce e la società migliora se i lavoratori vengono messi nelle condizioni di affrontare le innovazioni. Bisogna che ci si aggiorni davanti al progresso della tecnologia e dell’industria. Lo stato deve formare le menti in modo da diventare idonee a cogliere le nuove sfide. Questa è un’intuizione avuta settanta anni fa dai nostri padri costituenti. Il luddismo, il movimento ottocentesco inglese che voleva distruggere le macchine per garantire il lavoro all’uomo, non è una soluzione. Per affrontare il moderno bisogna mettersi al passo con la scienza, non fare un vano tentativo di distruggerla. L’innovazione vuol dire ricerca. La ricerca vuol dire studio. Quello che manca è una reale volontà di investimento in questi settori. Ancor oggi lo stato e il settore privato latitano nell’ambito della formazione professionale, questo è un limite gravissimo per le ambizioni di crescita dell’Italia. Bisogna che le forze politiche, le istituzioni nazionali e locali si impegnino a istituire scuole di alta preparazione professionale, adempiendo così il dettato costituzionale. Il terzo comma dell’articolo 35 ricorda che il mondo è una rete interconnessa, mi si consenta un concetto che sembrerebbe più di oggi che della metà del secolo XX. Eppure i padri costituenti hanno pensato al lavoro come un’esperienza che coinvolge miliardi di persone e travalica i confini delle nazioni anche se scrivevano in un tempo ormai lontano. I diritti del lavoro e dei lavoratori devono valere in ogni angolo del mondo. Per questo la costituzione invita la Repubblica nascente a stringere accordi internazionali volti a tutelare il lavoro. Invita alla nascita di organizzazioni extranazionali che tutelino i lavoratori. Invita alla solidarietà che travalica i confini. Solidarietà che deve valere anche per i migranti. Chi emigra e chi immigra dal e nel nostro paese deve essere tutelato. Il lavoro all’estero degli italiani deve essere difeso. Noi aggiungiamo, come necessario corollario, che il lavoro degli immigrati in Italia deve essere tutelato. I costituenti non l’hanno scritto, ma ci pare un principio di umanità che si fonda anche sui principi espressi dalla carta dei diritti dell’ONU. Insomma chi va all’estero per cercar fortuna ha diritto alla solidarietà e al supporto morale e materiale. Il pensiero va ai tanti giovani laureati italiani che oggi vanno in paesi stranieri a cercar fortuna. La nostra costituzione li vorrebbe tutelati. Vorrebbe, osiamo dire, che tornassero, vorrebbe che il loro prezioso bagaglio culturale fosse appannaggio dell’Italia. Questo afflato si scontra con un paese escludente, un paese che non solo chiude le porte ai disabili, ai meno fortunati, ma li chiude, paradossalmente, anche ai più preparati ai più dotati dal punto di vista culturale e professionale. È un paradosso con cui bisogna fare i conti. Una situazione scioccante in cui chi avrebbe il diritto di essere inserito nella realtà lavorativa, viene escluso. Un processo che sta producendo un depauperamento culturale e tecnologico dell’Italia. Ma non solo anche un impoverimento morale. Chi ha diritto a essere inserito nel mondo del lavoro, per capacità e competenze, viene escluso. È un vero scandalo. Chi scrive non può che continuare a denunciare. Non può che gridare, facendo perdere la sua voce nel vento, dei disabili che vengono emarginati, dei lavoratori sfruttati, delle persone che sono disoccupate degli studenti e dei lavoratori migliori che vanno all’estero. È tempo di cambiare. È tempo di applicare la costituzione e di dare dignità al lavoro e ai lavoratori. Solo così si può pensare a migliorare un paese degradato come l’Italia, in cui il disabile, il povero, l’intelligente (non abbastanza furbo) vengono derisi.  I valori di solidarietà sono “valori miei”, non li voglio imporre agli altri, ma per me rimangono il solo strumento per costruire un paese migliore. Insomma sono contro l’esclusione imposta dal senso comune, e per l’inclusione voluta dal cattolicesimo e dalla Costituzione.
Testo di Giovanni Falagario

QUARANTA ANNI FA SUI CIELI DI USTICA



QUARANTA ANNI DI ATTESA

Era il 27 giugno 1980. Un aereo della linea “Itavia” stava sorvolando il mare antistante la Sicilia. Era partito da Bologna ed era diretto all’aeroporto di Palermo “Punta Raisi”. Quel veicolo cadde in mare e portò con sé la vita di 115 persone, equipaggio compreso, e lasciò nel dolore i familiari. Sono passati esattamente quattro decenni ed ancora oggi non si sa cosa sia successo esattamente quel dì nei cieli italiani. Il pianto dei congiunti delle vittime non ha spinto le istituzioni a rintracciare il bandolo della matassa. Ad un primo acchito si pensò a un tragico guasto meccanico o ad un errore dei piloti. Ma nulla degli esami dei tabulati radar del giorno, delle analisi dei resti, faticosamente e costosamente recuperati in anni di ricerca sottomarina, avvalorava tali ipotesi. Alcuni periti del processo che si aprì all’indomani della strage scoprirono che la dinamica dell’incidente era compatibile ed avvalorava l’ipotesi che un missile di natura militare, un ordigno che solitamente ha un Caccia in dotazione all’aeronautica di difesa di un qualsiasi stato, possa aver colpito e tragicamente abbattuto l’aereo di linea civile. Ma questa clamorosa rivelazione non aiutò certo a chiarire la dinamica dei fatti che la sera di quell’inizio d’estate degli anni ’80 erano successi. Le diatribe continuarono alacremente. Alcuni spezzoni delle indagini portavano a collegare l’abbattimento dell’aereo civile al quasi contemporaneo precipitare di un aereo militare libico, un MIG di fabbricazione Russa (allora ancora Unione Sovietica), quell’aereo aveva solo il pilota a bordo e ancora oggi non si sa perché si trovasse in spazi territoriali italiani e, soprattutto, se il suo battimento fosse un’azione di difesa aerea fatta presuntamente da aeromobili NATO in assetto di difesa, contro un’azione considerata ostile. Si pensa addirittura che l’abbattimento del MIG libico fosse stato voluto dal comando generale del Patto Atlantico nella convinzione che a bordo vi fosse il leader e dittatore, Muammar Gheddafi, e in quella operazione, per errore si sarebbe abbattuto anche l’aereo Itavia. Una cosa è certa il capo di Tripoli su quel MIG non c’era, sarebbe morto decenni dopo ucciso dai suoi stessi compatrioti nella guerra civile che ancor oggi infiamma lo stato del Nord Africa. Allora che dire della strage di Ustica, l’isola sui cui cieli è esploso per poi precipitare l’aereo con tanti civili a bordo? Solo il dolore delle famiglie è rimasto e non riesce ad rimarginarsi. Quaranta anni che attendono una risposta, che chiedono una spiegazione a quell’evento così terribile. La portaerei americana Saratoga, ancorata in quei dì nel Golfo di Napoli, sembra avesse i suoi radar spenti per manutenzione. Questo è almeno la tesi ufficiale. Di conseguenza non avrebbe “visto” quello che succedeva nei cieli. Appare difficile che possa avvenire che una nave USA scelga di chiudere “i propri occhi” se situata in uno scenario delicato e importante, soprattutto ai tempi della “Guerra Fredda”, come il Mediterraneo. Forse l’ammiraglio che la guidava ha avuto ordine di tacere su fatti che magari non solo si sono visti su quella nave, ma anche su avvenimenti in cui la portaerei avrebbe avuto un ruolo di supporto logistico. Anche i radar italiani, situati a Roma e a Palermo, avrebbero “non visto”, difficile credere a tale tesi, facile propendere a pensare a un loro silenzio che è sinonimo di complicità Non è un caso che i giudici, in particolare il magistrato Priore, abbiano aperto un’inchiesta parallela sul silenzio degli operatori radar del Ministero della Difesa italiana, con condanne anche significative a diversi anni. Insomma Ustica rimane un mistero. Ancora oggi non si sono chiarite le dinamiche dell’incidente, qualche perito torna ad asserire che non sia un missile, ma una bomba, a far precipitare il veicolo. Ovvia la conclusione che tale tesi farebbe ripiombare indietro di anni un’indagine già di per sé oscura. Quello che possiamo è stare vicini con l’animo e con il cuore alle persone scomparse e ai loro cari, che hanno bisogno di credere che un giorno la verità, una qualsiasi anche la più crudele, possa mettere fine a questo stato d’angoscia e di dubbio.

venerdì 26 giugno 2020

EMERGENZA SANITARIA CAMPANA



VIVERE INSIEME

Difficile trovare le parole per esprimete la pluralità di emozioni che ha suscitato l’episodio di Mondragone in provincia di provincia di Caserta. Ricordiamo che in una palazzina, abitata per lo più, da braccianti di origine bulgara, qualche giorno fa si è registrato un numero consistente di positivi al Covid 19. La popolazione locale giustamente si è allarmata. Il pensiero è corso al passato, ad esempio a ciò che è successo al “Pio Albergo Trivulzio” ove scelte un po’ discutibili della Regione Lombardia hanno acceso un terribile focolaio del morbo. La popolazione campana è scesa in piazza. Ha chiesto maggiori controlli. Sono necessarie maggiori tutele. Non è ammissibile che il virus si diffonda in luoghi densamente abitati. Il Presidente della Regione Campania, Antonio De Luca, ha chiesto ed ottenuto l’intervento dell’esercito e delle forze dell’ordine per controllare l’emergenza sanitaria che si è presto trasformata anche in emergenza legata all’ordine pubblico. La situazione al momento appare sotto controllo. La popolazione è rientrata nelle proprie case, dopo ore di sit-in. Ma appare lampante che è difficile prospettare una concreta via alla convivenza. I braccianti stranieri oggi occupano un ruolo importante e necessario per la gestione dei raccolti italiani, al Nord come al Sud del nostro paese. Le tensioni, dovute a oggettive incomprensioni interculturali, ci sono. Non è un caso che partiti importanti come la Lega, fondino il proprio stesso essere sulla capacità di mettere a fuoco questo problema. La nuova terribile malattia, che si propaga attraverso l’etere, è un ulteriore motivo di ostacolo al pacifico cooperare fra i soggetti. L’estraneo, purtroppo, appare anche come l’untore. Dette queste terribili parole, pare opportuno rimodulare il nostro pensiero. Rivolgerlo a coloro che sono incappati nel male, che si sono ammalati. È opportuno, anzi necessario, pensare a costruire una catena di solidarietà che vada oltre ogni differenza e si concretizzi con l’obbiettivo di garantire speranza di vita dignitosa a tutti. Non si può non aver un pensiero che auguri pronta guarigione al malato che non ha la cittadinanza italiana. Non si può considerare un nemico chi vive fuori al nostro cerchi di legami più stretti. Il Convid impone un distanziamento fisico per evitare il contagio, ma non può costruire barriere al dialogo fra le persone. Il nostro pensiero va ai valenti medici che in questi mesi difficilissimi hanno operato per salvaguardare la vita di tutti. Non hanno fatto differenze. Loro stessi si sono ammalati, purtroppo è avvenuto per un numero non esiguo di essi, per portare agli altri la guarigione. Vivere insieme vuol dire questo. Saper utilizza le proprie competenze, piccole o grandi che siano, per garantire all’intera comunità una sana e proficua vita. Bisogna saper affrontare l’emergenza insieme. Bisogna pensare a una battaglia efficace non contro il nostro prossimo, ma contro quel tremendo microrganismo che ha cambiato la nostra esistenza. Dobbiamo farcela.

giovedì 25 giugno 2020

C'E' UN GIUDICE... A ROMA


Come principio è giusto e doveroso che chi ha un assegno di mantenimento dallo stato, perché invalido al 100%, debba avere una somma consona ad avere una vita serena e dignitosa. Quindi sono felice che la Corte Costituzionale si sia pronunciata in tal senso, censurando la legge che garantisce un assegno di sostentamento francamente troppo basso a chi non può lavorare per motivi di salute. Ora sono bramoso, come tutti, di conoscere le motivazioni della sentenza e se questa ha effetti immediati e stringenti o rimanda, come è possibile, ad un'azione legislativa delle camere, magari in stretto relazionarsi con il governo, per sopperire alle lacune vistose della normativa.

PARLANDO DI COSTITUZIONE



NOTE A MARGINE DELL’ARTICOLO 34 DELLA COSTITUZIONE

LA SCUOLA E’ APERTA A TUTTI

L’ISTRUZIONE INFERIORE è IMPARTITA PER ALMENO OTTO ANNI, E’ OBBLIGATORIA E GRATUITA.

I CAPACI E MERITEVOLI, ANCHE SE PRIVI DI MEZZI, HANNO DIRITTO DI RAGGIUNGERE I GRADI PIU’ ALTI DEGLI STUDI.

LA REPUBBLICA RENDE EFFETTIVO QUESTO DIRITTO CON BORSE DI STUDIO, ASSEGNI ALLE FAMIGLIE ED ALTRE PROVVIDENZE, CHE DEVONO ESSERE ATTRIBUITE PER CONCORSO.

Un piccolo pensiero per la scuola in questo particolare periodo. Il sistema scolastico, lo sappiamo, è stato uno dei luoghi fisici ed intellettuali di incontro che più ha subito le conseguenze nefaste della pandemia legata al corona virus. Per molto tempo gli edifici scolastici sono stati chiusi, molti lo sono ancora, solo gli istituti superiori in questi ultimi giorni hanno ripreso vita accogliendo gli studenti che dovevano affrontare il periglioso e decisivo esame di stato. Le altre classi e ordini di studi sono rimasti sbarrati, costringendo ad esempio i ragazzi che dovevano affrontare l’esame di terza media a farlo da casa attraverso il sistema informatico e internet, insomma grazie a video conferenze fra loro e i docenti. Insomma la scuola ha affrontato una prova titanica. I docenti hanno provato a garantire la prosecuzione dell’insegnamento didattico non con l’incontro fisico, nelle aule, con i propri discenti, ma attraverso la rete, attraverso speciali network che hanno messo in collegamento i singoli componenti delle classi, che hanno proseguito il loro processo di apprendimento da casa. Alla luce di questo dato di cronaca, che ha cambiato la vita e il metodo di apprendimento, di tanti ragazzi e ragazze è doveroso rileggere l’articolo 34 della Costituzione Italiana. La scuola non lascia indietro nessuno, non può e non deve farlo. Ecco perché viene un groppo alla gola al pensiero dei bimbi e delle bimbe, del giovani e delle giovani, che non hanno potuto proseguire il loro percorso formativo solo perché nella loro realtà sociale la connessione a una rete telematica è difficoltosa. Sappiamo di bimbi che non avevano nemmeno un computer, è per questo è stato loro interdetto di apprendere. È un paradosso che si fa clamoroso se solo si legge il terzo comma dell’articolo 34: “i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i più alti gradi degli studi”. I mezzi, i computer e il collegamento online, per alcuni non c’erano e lo stato non ha potuto far nulla per offrire adeguate coperture didattiche. Allora è ora di cambiare. Da un lato è doveroso applaudire gli insegnati che non hanno lasciato indietro nessuno. Questi hanno continuato a formare le menti e i cuori dei loro alunni, cimentandosi spesso in un sistema di insegnamento, quello on-line, che ha aspetti metodologi e didattici fino ad oggi letteralmente sconosciuti. Hanno contattato telefonicamente chi si era perso non avendo i mezzi on-line. Hanno saputo portare la nave, le loro classi, nel mare alto della prova ardua e complessa di affrontare una situazione nuova ed eccezionale. Ma dall’altro è giusto chiedersi come sopperire alle carenze didattiche che questo approccio nuovo ed eccezionale  ha prodotto. Come ovviare alle carenze di apprendimento. Come riavviare un sistema di apprendimento che sia in grado di superare le lacune prodotte da questo periodo di emergenza infettiva. La risposta è politica. Spetta al Ministro dell’Istruzione e all’intero esecutivo trovare il modo, attraverso azioni concrete di supporto economico e non solo, di superare l’emergenza e di riportare la scuola alla sua primigenia e fondamentale funzione che è quella di formare le nuove generazioni, non solo offrendogli un bagaglio di conoscenze multi disciplinari, ma anche quello di insegnare loro ad apprezzare l’incontro e la vita in comune con i coetanei, attraverso la vita d’aula. Ma il compito più periglioso, e allo stesso tempo più bello, spetta alle componenti della scuola, il personale docente e non-docente e soprattutto gli alunni, che devono sapersi rincontrare (speriamo ciò avvenga presto, a settembre di quest’anno) e  ripensare caparbiamente e felicemente a una vita in comune. La scuola è bella. Lo diciamo anche se tutti noi, anche vecchi, ricordiamo la fatica che comporta lo studio e anche la relazione con gli altri. È bella perché aiuta a diventare Uomini e Donne, aiuta ad apprendere la bellezza dell’amicizia e dell’amore (quante storie affettive sono nate all’interno di un edificio scolastico). Allora in questi momenti in cui l’Italia riparte dopo mesi di lokdown (di chiusura), la scuola è il luogo più prezioso per la nostra società che confida nelle nuove generazioni affinché possano costruire un domani migliore di ciò che è l’oggi. Allora forza. La scuola è aperta a tutti. Così dice il primo comma dell’articolo 34. Spalanchiamo le porte, ricominciamo non solo a vivere, ma anche a formarci come esseri umani. I professori, i maestri, gli alunni sono esseri meravigliosi, riusciranno a risorgere da questa crisi e riportare con loro al cielo tutta la comunità italiana.

PARLANDO DI COSTITUZIONE



ARTICOLO 34 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

“La scuola è aperta a tutti.

L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.

I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.

La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che debbono essere attribuite per concorso”

L’articolo 34 sancisce il diritto allo studio. Tutti hanno il diritto e il dovere di andare a scuola. I ragazzi, i fanciulli, devono acquisire le conoscenze necessarie per affrontare la vita futura, lo devono fare frequentando le aule scolastiche. La scuola deve essere la palestra che forma le menti delle nuove generazioni. Dire la “scuola è aperta a tutti” è un atto di giustizia sociale, chi non è in possesso dei mezzi economici per formarsi, poiché fa parte di una famiglia poco abbiente, deve studiare gratuitamente almeno per gli anni di formazione scolastica denominati “obbligatori”, cioè che devono essere frequentati da tutti i bambini per norma di legge al fine di garantire un minimo di cultura per tutti. Non basta, non solo si garantisce la scuola di base a tutti, ma lo stato deve mettere a disposizione strumenti per garantire che anche i figli del popolo possano raggiungere i massimi gradi scolastici. Uno slogan della politica degli anni successivi alla seconda guerra mondiale diceva: il figlio del contadino deve diventar dottore. L’istruzione è un modo per superare le barriere di classe. Diventare colto è un modo per affrancarsi dallo stato di povertà, non solo economica ma anche morale. Chi proviene da una classe povera non è un escluso, non è un emarginato, con lo sforzo, con lo studio e con la dedizione al lavoro può diventare un professionista o un imprenditore. “La scuola è aperta a tutti” è una frase che ripudia le leggi razziali del 1938. Mussolini, complice il re, espulse i ragazzi e i bambini ebrei dalle scuole. Rita Levi Montalcini, premio nobel della medicina, ha dovuto studiare in quei dannati anni nella sua casa adibita a studio scientifico, essendo stata espulsa dall’università in quanto aderente alla fede ebraica. Una follia! Bisogna superare ogni pregiudizio, eliminare ogni barriera culturale e sociale che esclude l’altro. I nostri padri costituenti avevano ben presente questo concetto, i politici di oggi, soprattutto gli aderenti a Forza Italia e alla Lega hanno perso il senso storico. Si sono scordati che il concetto di “razza” ha prodotto morte e dolore, per questo continuano a rivendicare il concetto di “sangue italiano” come ha fatto il candidato di destra alla presidenza della regione Lombardia. Noi invece teniamo ben a mente gli effetti tragici che produce l’odio e il pregiudizio, scegliamo di stare dalla parte della costituzione, siamo orgogliosi di una carta fondamentale che afferma “che la scuola è aperta a tutti”. La costituzione è chiara nessun pregiudizio, nessuna ideologia può giustificare il razzismo. Tutti gli uomini e le donne sono uguali. Tutti i bimbi e le bimbe sono uguali e ugualmente hanno diritto ad una formazione, educazione ed istruzione. L’uguaglianza è il fondamento della vita comunitaria. Nella diversità culturale c’è ricchezza, chi proviene da altri mondi da altre culture da altre terre, se vive nel nostro paese, ha il diritto e il dovere di formarsi come persona secondo i canoni culturali comuni. Chiunque deve essere in grado di diventare un illustre medico, scienziato, ingegnere, avvocato ecc. Per conseguire questo obbiettivo la Repubblica istituisce borse di studio da conferire ai più meritevoli. I meritevoli sono tutti coloro che esprimono capacità di apprendimento e di abilità tali da potergli garantire una brillante carriera scolastica, universitaria e lavorativa. Questi devono essere spronati a raggiungere i massimi allori conseguibili. La valorizzazione dei talenti è un modo per rendere migliori il nostro stato e la nostra comunità di cittadini. Per raggiungere questo obbiettivo bisogna saper finanziare i meno abbienti nei loro studi, permettergli di ottenere i titoli che la loro intelligenza e capacità gli permette di raggiungere, ma allo stesso tempo di favorire la crescita delle persone talentuose che sono comunque abbienti. Anche i figli dei ricchi, parlando volgarmente, devono essere messi nelle condizioni di sfruttare al massimo le loro capacità, non economiche, ma intellettuali. Insomma tutti devono dare il massimo per raggiungere il livello massimo di istruzione che la personale capacità intellettiva gli consente. Questo non avviene nel nostro paese. Purtroppo troppo spesso le promesse della Costituzione rimangono lettera morta. Le borse di studio che dovrebbero finanziare i meritevoli e i bisognosi sono misera cosa. La cosa ben più grave è che le strutture scolastiche ed universitarie sono carenti di quegli strumenti necessari per formare le menti e per far studiare. Mancano i laboratori per medici ed ingegneri. Mancano biblioteche adeguate.  Le strutture in Italia ci sono devono essere ampliate. Mancano istituzioni culturali atte ad ampliare la conoscenza. Bisogna fare di più. Lo stato si deve impegnare affinché i disabili, ad esempio, possano raggiungere i massimi livelli di istruzione. Le persone con handicap psicofisico, o con un ritardo di apprendimento, non sono persone perse alla cultura. Sono al contrario persone preziose. Devono essere accompagnate ed aiutate nel loro percorso scolastico, non solo con i soldi, ma soprattutto con l’amore e l’impegno dei lori insegnati, che devono essere formati adeguatamente per raggiungere tale scopo. L’istruzione, la scuola devono essere strumenti per abbattere le barriere. Devono essere latrici di una cultura inclusiva. Non devono cacciare, come voleva Mussolini introducendo le leggi razziali, ma abbracciare. Devono aprirsi alla diversità, alla eccezionale essenza che solo la disabilità può produrre. Questo non solo per non lasciare indietro nessuno, ma soprattutto per crescere insieme. Anche i bambini, uso un termine brutto, “normodotati” possono diventare migliori stando vicini ai loro amici “un po’ diversi”. Ecco perché l’articolo 34 è fonte di speranza. Se la scuola è aperta a tutti. Se la scuola garantisce un minimo di istruzione a tutti i bimbi. Se la scuola garantisce ai meno abbienti, se meritevoli, di raggiungere il massimo degli onori accademici. Se la scuola finanzia lo studio dei poveri e dei migliori. Solo così riusciremo ad avere uno stato, una Repubblica, una comunità di cittadini aperta al futuro, senza paure, senza alcuna bruttura e involuzione verso l’odio sociale.
Testo di Giovanni Falagario