sabato 20 giugno 2020

ULISSE



VIAGGIO DELL’ANIMO

L’opera più nota di James Joyce è “L’Ulisse”. Lo scrittore di Dublino nacque nel  1882. È autore del XX secolo. Ciò vuol dire che la sua ricerca artistica non era volta ad indagare il paesaggio, la vita sociale, ma l’animo umano, il mondo interno, dell’uomo. Non a caso scelse come titolo del romanzo più significativo della sua vita artistica, lo stesso nome dell’opera poetica più importante, accanto all’Odissea, dell’intera cultura occidentale. Come Omero descriveva i viaggi di Ulisse nel suo disperato tentativo di tornare a casa, l’isola di Itaca, e dalla moglie, Penelope, così i personaggi dell’Ulisse di Joyce tentano, forse senza riuscirci, di ritrovare il rifugio sicuro per la propria essenza di esseri umani. È un viaggio che compie il protagonista del romanzo, alter ego dello scrittore, Leopold Bloom, disperato soggetto principale di tutta la narrativa di Joyce. È un viaggio in una Dublino, la capitale dell’Irlanda, che diventa non un luogo fisico fatto di vie di case o monumenti, ma un posto dell’anima, in cui sono nascoste tutte le paure, i timori, le tremende attese e le perdute speranze dei vari attori dell’opera letteraria. Joyce, come il suo amico più caro, il triestino Italo Svevo di origini ebree e austriache, è fortemente influenzato dalle ricerche sulla psiche che in quegli anni sta compiendo Sigmund Freud. Il viaggio nell’animo umano, è una ricerca spasmodica del “es”, cioè dell’essenza più naturale della psiche, che viene sistematicamente soggiogata dalle regole imposte da quello che lo psicanalista viennese chiama “il super Io”, cioè quell’insieme di norme e di autodisciplina che “ego”, cioè la parte pensante e razionale del cervello umano,  si impone per potersi relazionare con “l’esterno”, in buona sostanza con la società e con le altre persone che fanno parte del gioco delle convivenze relazionali. L’Ulisse di Joyce è sostanzialmente la ricerca esasperata della naturale relazione fra ambiente e ego, spogliata dalle imposizioni create dalle regole sovrastrutturali di una società, borghese, rigida che fossilizza che rende quasi una gabbia ogni tipo di rapporto fra esseri umani, persino quello che è il rapporto d’amore fra un uomo e una donna. Joyce prova a scardinare tutto ciò. Destruttura persino il linguaggio. I suoi romanzi, non solo l’Ulisse, ma anche “Gente di Dublino” e tutti gli altri, utilizzano la tecnica narrativa denominata “flusso di coscienza”. Che cosa è? Proviamo a spiegare. Ognuno di noi quando parla e scrive non riesce a seguire l’Iter del pensiero del nostro cervello. Siamo lì a commentare una partita di calcio, che so?, Napoli Juventus e all’improvviso una finta di un giocatore ci ricorda il funambolo che abbiamo visto al circo quando eravamo bambini, magari molti decenni fa. Di solito evitiamo di parlare con i nostri interlocutori di questi nostri salti mentali, che la psicanalisi definisce libere relazioni di pensiero, salti di coscienza. Joyce invece tenta di descriverli compiutamente nei suoi romanzi. Riesce a raccontare il viaggio della mente dei vari personaggi delle sue opere. I vari protagonisti dell’Ulisse, il piccolo borghese Leopold Bloom oppure il colto Stephen Dedalus, sono attraversati dai flussi di pensiero e questa tempesta di idee ed emozioni viene magistralmente raccontata nel libro. Insomma Joyce spazza ogni regola di racconto. Non ci sono più i canoni antichi, quelli pensati ed esplicitati da Aristotele, ma nemmeno quelli moderni prodotti dai romanzieri dell’Ottocento. Il romanzo spezza le regole temporali, supera i confini legati alla descrizione dei luoghi. Il vero oggetto dello scrivere è l’inconscio. La Dublino descritta da Joyce non esiste nella realtà storica, ma esiste nella realtà della psiche esplicitata dai personaggi del racconto, che forse non è altro che la descrizione della coscienza dell’autore. Allora perdersi nell’Ulisse di Joyce è faticoso. È uno sforzo non indifferente lasciarsi trasportare dal flusso di coscienza che descrive il pensiero dei vari protagonisti. È un impegno intellettuale non indifferente ricercare l’essenza dell’esistenza descritta dall’autore. Ma una volta entrati nel gioco voluto dal romanzo, una volta persi nel labirinto, non a caso uno dei personaggi si chiama Dedalus, allora la bellezza dello scritto si coglie, si scopre l’essenza dell’essere descritto dal romanziere, si scopre la fortezza e la debolezza dell’Ego schiacciato dall’Es, dalla naturalità, da un lato e dal Super Ego, dalle regole, dall’altro. Si scopre che i personaggi non sono diversi da noi. La loro ricerca di essenza non è lontana dalla nostra. E da quel momento si può imparare che l’essenza umana non è solo quella che capiamo facilmente, ma anche quella che riusciamo a cogliere con una costante ed indefessa autoanalisi alla ricerca del proprio IO profondo.

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