CINQUANTA ANNI FA MORIVA UN POETA
Il primo giugno del Millenovecentosettanta moriva Giuseppe
Ungaretti. Era nato 8 febbraio 1888 ad Alessandria d’Egitto. La madre aveva
seguito il padre, operaio fra i realizzatori del Canale di Suez. Dopo aver
trascorso in Africa la sua infanzia, si trasferì a Parigi ove completò i suoi
studi fino a raggiungere le vette universitarie della Sorbona. Lì ebbe il
sentore della grande cultura, sfiorò alcuni grandi del tempo e si confrontò con
Pablo Picasso, con Aldo Palazzeschi, con Nicolò Modigliani e altri grandi dell’arte
mondiale. Allo scoppiò del grande conflitto mondiale nel 1914 giunse Italia, terra
che, pur essendone cittadino, era per lui sconosciuta. Ma l’amò fin da subito.
Quando il nostro paese entrò in guerra, siamo nel 1915, si arruolò quale milite
e sul fronte si distinse per il suo valore. Dopo la guerra la sua fama di poeta
si fece inarrestabile. Giuseppe Ungaretti aveva scritto poemi fin da fanciullo.
Nei suoi anni francesi aveva anche pubblicato qualche verso. Ma è il racconto
poetico dei tragici momenti del fronte che lo rendono un vate immortale. La sua
capacità di spogliare la parola, di renderla uno strumento prezioso, ma allo
stesso tempo nudo nella sua essenzialità, per rimembrare il viaggio doloroso
della vita umana lo rende uno dei poeti italiani più amati al mondo. Sono tanti
gli autori che hanno raccontato la guerra, ma Ungaretti è colui che ha saputo
trasformare un evento eccezionale, come un conflitto, come l’elemento in cui si
manifesta plasticamente il senso profondo dell’essenza umana. “Soldati/ Si sta/
come d’autunno /sugli alberi/le foglie/ “. E’ la poesia che racconta in poche
drammatiche parole la caducità dell’esistenza umana. Il senso della vita che
appare precluso, e l’affanno per ricercare una ragione per continuare a
respirare davanti alla imminenza e, addirittura, immanenza della morte.
Ungaretti è un soldato, racconta l’angoscia di chi come lui rischia di non
vedere il prossimo sorgere del sole, colpito da un nemico invisibile ma allo
stesso tempo angosciosamente presente. La sua poesia è il racconto del continuo
confrontarsi dell’essere umano con l’inconoscibile mistero della morte. È in
forza di ciò che nel 1919, appena finita la guerra, pubblica la raccolta di
poesie “Allegria di naufraghi”, poi ribattezzata semplicemente “Allegria”, in
cui si racconta il disperato bisogno di vivere davanti all’ineluttabilità della
morte. Ma sono tante le poesie degne di nota. Ricordiamo “Dolore”, la raccolta
di poesie uscita nel 1947, in cui il poeta racconta il suo profondo senso d’angoscia
per la morte di suo fratello e di suo figlio, entrambi deceduti giovani e in
circostanze tragiche. Il suo essere reduce di guerra, la Grande Guerra, lo
rende stimato al regime Fascista. Il poeta non si esime da essere parte di quel
gruppo letterario che, pur non essendo fascista, non è neanche contro, ma anzi
non si sottrae da onorificenze e riti letterari pensati da Mussolini. Malgrado
questo Ungaretti rimane un’anima libera. È la sua stessa poesia che lo
trasumana e lo fa essere oltre a quello che è il quotidiano agone politico.
Ungaretti scarna il linguaggio. Ricerca l’essenziale abbracciando le tesi di
quella corrente letteraria che verrà chiamata “Ermetismo” e che in lui in
Salvatore Quasimodo ed in Eugenio Montale gli assoluti protagonisti italiani.
La sua ricerca poetica intende espellere dal verso ciò che è superfluo. Non ci
sono troppi verbi, troppi aggettivi e perfino troppe congiunzioni nelle rime
ungarettiane. Si cerca l’essenza del Verbo, l’essenza delle parole, per
presentarla al pubblico dei lettori affinché ne assaporino la bellezza. L’arte
non ha bisogno di fronzoli, è la tesi di fondo. Il poeta deve suscitare
sentimenti, deve indicare la bellezza,
non mostrarla nella sua interezza, se vuole compiere il suo destino, che è l’arte.
Ecco perché Ungaretti scrive la poesia delle poesie, il componimento che
racchiude in pochi versi il senso dell’esistenza umana e il suo rapporto con la
natura. “Mattino/mi illumino/ d’immenso”. Il poeta, in epoca Repubblicana, dopo
i dolori della seconda guerra mondiale, che non vive in trincea, come il 15 /
18, ma nelle aule universitarie ove
insegna e respira il moto di rinnovamento etico e culturale, si cimenta in nuove
mirabili imprese. Si fa divulgatore di cultura. Diviene anche protagonista
della nascente televisione, insegnate del popolo dell’arte di poetare, celebri
le sue trasmissioni ed interviste. Arriva a partecipare alla celebre
trasmissione televisiva RAI che racconta al popolo italiano nel 1969 lo sbarco
sulla Luna. Sfiora l’ambito riconoscimento del premio Nobel, è più volte fra i “nominati”.
Muore a Roma il 1 giugno 1970, proprio cinquanta anni fa, e ancor oggi sentiamo
la mancanza della sua capacità di innovare lo scenario letterario attraverso la
sua metrica scazonte, cioè zoppicante, che racconta le difficoltà dell’essere
nel quotidiano, così diventando non cacofonica ma scrigno prezioso di bellezza.
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